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Migliorare l’aderenza dei diabetici all’esercizio fisico

La maggior parte dei governi europei lamenta un drammatico incremento delle malattie croniche, dell’obesità e, in generale, il preoccupante diffondersi di uno stile di vita inattivo. La ricerca scientifica ha ormai dimostrato che l’attività motoria, in qualunque forma sia attuata, porta netti benefici allo stato di salute degli individui. (Blair et al.,

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1995; Myers et al. 2002) Purtroppo, l’essere più attivi può dipendere da numerosi fattori individuali, tra cui il sesso, l’età, il livello di abilità motoria pregressa, l’attitudine all’esercizio fisico, e da molti altri svariati elementi motivazionali. E’ noto, ad esempio, che il livello di istruzione sembra essere positivamente correlato con l’intraprendere e mantenere un regolare esercizio fisico, in particolare negli uomini di mezza età, (Dishman 1994)mentre negli adulti con un’età superiore ai 65 anni, l’istruzione non è un fattore significativo di aderenza all’esercizio, sia di tipo spontaneo, che strutturato. (Jette, et al. 1995)

Il supporto sociale e familiare

Un altro elemento che sembra influire positivamente sulla possibilità di intraprendere un’attività motoria, è il gruppo o la comunità di appartenenza: spesso infatti le persone per dimostrarsi attive hanno bisogno del supporto dell’ambiente sociale in cui vivono e dell’incoraggiamento della famiglia, degli amici e dei compagni di lavoro. La comunità rappresenta, quindi, un importante veicolo di sollecitazioni anche per quanto riguarda la pratica dell’esercizio fisico. La scuola, la famiglia, i comuni, potrebbero fare davvero molto per promuovere l’attività fisica spontanea, un’attività poco dispendiosa e decisamente proficua sotto molti punti di vista. Un passo concreto potrebbe essere, ad esempio, quello di invitare i giovani ad andare a scuola a piedi, o in bicicletta, quando ciò sia possibile e non si corrano rischi per la sicurezza. (Ashley et al., 2005; Cooper et al., 2003)

Figura 6 - Confronto tra l’andare a scuola a piedi e in macchina nel periodo 1971-2003 – (van der Ploeg, et

al., 2008)

A S S E S S I N G T H E E V I D E N C E

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as 3,360 kJ (800 kcal) (James 1995), the equivalent of walking about 16 km (10 miles) less. A large population-based study in which Swedish women recalled retrospectively their daily physical activity at ages 15, 30 and 50 years found a decrease over the last 60 years of the twentieth century equivalent to 45 minutes of brisk walking (approxi- mately 3 miles) (Orsini et al. 2006). The modern phase of the obesity epidemic (from 1980 onwards) is therefore probably mediated more by inactivity than by overeating (Prentice and Jebb 1995).

Inactivity in children

The high prevalence of sedentary behaviours in children and youths partly explains their low total levels of physical activity. In industrialized countries young people typ- ically watch 2–2.5 hours of television each day (Marshall et al. 2006), but in America around 40% of children in some ethnic groups watch at least four hours daily (Andersen et al. 1998). Total ‘screen time’ is even higher among those with access to computers and video/DVD games. For example, Canadian children aged 10–16 are spending, on average, six hours per day in front of a computer or television screen (Health Canada 2007).

Another factor contributing to low levels of physical activity is the general decline in children’s walking and cycling, and the dramatic decline in physically active trans- port to school. For example, the percentage of Australian children (aged 5–14) that walked to school halved between 1971 and 1999/2003 (van der Ploeg et al. 2008). The corollary is, of course, that more children are being driven to school (Figure 1.2). In the United Kingdom the number of primary school children travelling to school by

80 60 40 20 0 % tr av elling b y transpor t method 1971 1981 Walk Driven Survey date 1991 1999–2003

Figure 1.2 Prevalence of walking and being driven to school 1971 to 2003.

Un’altra soluzione al problema potrebbe essere quella di creare diverse opportunità di movimento all’interno dei centri abitati. Dobbiamo anche aggiungere, però, che non tutte le città europee offrono molte possibilità per incoraggiare i cittadini a camminare, o andare in bicicletta, anziché usare l’automobile. (van Loon, 2011)

Nelle metropoli, in particolare, un ostacolo di rilievo che blocca la voglia di fare movimento consiste nella percezione di mancanza di sicurezza: è evidente, infatti, che una città che presenti, ad esempio, corsie preferenziali per le biciclette, spinge i cittadini a prendere in seria considerazione la possibilità di muoversi nel traffico in modo alternativo (Wilcox, et al., 2000) apportando benefici non solo alla salute della comunità, ma contribuendo anche a diminuire traffico e inquinamento atmosferico.

L’importanza del gruppo

Negli ultimi anni, c'è stato un crescente interesse nel ruolo che la coesione di gruppo svolge nell’ambito dell’esercizio fisico e di come questa si esplichi all’interno di una classe o di una squadra sportiva. Si è appurato che un fattore predisponente alla coesione è la dimensione della classe/gruppo dove, all’aumentare del numero di componenti, diminuisce la coesione tra soggetti partecipanti. Una serie di studi (Carron, Spink 2002) hanno valutato la coesione del gruppo in diversi momenti di un programma di esercizi, ovvero alla prima e all’ottava settimana di un training di 13 settimane, in gruppi piccoli e grandi, constatando che nei gruppi più numerosi si svolgono le percezioni più basse di coesione. Un altro elemento di fondamentale importanza per l’aggregazione dei soggetti di un gruppo è rappresentato dalle caratteristiche individuali, quali la zona di provenienza, l’etnia, l’età e l’aspetto fisico. Shapcott et al. (Shapcott et al 2006) hanno dimostrato come all’aumentare della diversità tra i soggetti di un gruppo, vi sia una diminuzione della coesione nell’eseguire un compito. (Dunlop, Beauchamp, 2011) hanno invece registrato differenze di aggregazione secondo percezioni di somiglianza di tipo superficiale (come età e aspetto fisico) e profondo (atteggiamenti, credenze). Lo studio ha messo in luce come, già alla seconda sessione di esercizio, entrambi i tipi di somiglianza hanno realizzato una maggiore coesione, dove la somiglianza superficiale era maggiormente predittiva verso la coesione sociale, mentre la profonda creava una maggiore aggregazione nei confronti dell’espletamento di un compito. Sulla base di tali osservazioni, appare chiaro come debba essere attentamente valutato, soprattutto in classi dedicate all’esercizio fisico adattato a specifiche patologie, il numero dei soggetti partecipanti alla sessione

e l’uniformità degli stessi, cercando di formare, per ciascuna sessione, gruppi di soggetti con stessa patologia o simile. In questo modo si creerà un gruppo di sostegno spontaneo, che permetterà ai soggetti di uscire da un eventuale isolamento, e/o da condizioni di depressione e ansietà, condividendo le proprie problematiche con altre persone che si trovano ad attraversare una disabilità o un’esperienza simile alla loro e prolungando sicuramente l’aderenza al programma di esercizio fisico dedicato.

Le barriere percepite: il tempo

Riuscire a portare avanti un programma di esercizio fisico in modo costante e duraturo non è cosa facile. Risulta evidente che molti dei soggetti che più necessiterebbero di una pratica motoria assidua, perché pericolosamente sedentari, siano proprio quelli che riferiscono impedimenti insormontabili, presunti o reali, al divenire fisicamente attivi, ostacoli che spesso possono essere spiegati attraverso le singole priorità e le soggettive percezioni di impedimento.(Shephard, 1994)Una delle più grandi barriere avvertite, in modo paritario, sia dai soggetti sedentari che da quelli più attivi, (Canadian

Directorate of Fitness and Amateur Sport, 1983)
è la mancanza di tempo per motivi di lavoro o responsabilità sociali, impegni che di sovente non rappresentano obblighi così pressanti e reali. In uno studio di qualche anno fa, ( Heesch, Mâsse, 2004) effettuato su 249 donne afro-americane e ispaniche, si è valutata la relazione tra impegni di tempo percepiti e mancanza di tempo per l’attività fisica. Tutte queste donne, per la gran parte della giornata, si dedicavano alle loro attività di lavoratrici, governanti, madri e mogli. Nonostante ciò, si è potuto appurare che riuscivano ad impegnare 28 ore settimanali in attività di tempo libero sedentario, dimostrando che gli impegni lavorativi risultavano far parte di un’errata percezione del tempo realmente spendibile per l’attività fisica. E’ quindi importante identificare quali siano gli ostacoli intrinseci ed estrinseci, reali e presunti, in quanto, anche la sola percezione di una barriera, riduce la probabilità di perseguimento di un comportamento corretto nei confronti dell’attività motoria spontanea e dell’esercizio fisico, anche quando i soggetti sono ben disposti al coinvolgimento motorio, perché l’identificazione di un impedimento, spesso rappresenta una strategia per evitare le responsabilità personali. (Lee 1993) A questo proposito, la possibilità di eseguire brevi sessioni di esercizio fisco, pure divise in più frazioni giornaliere, oltre a migliorare lo stato di salute, (Pollock, 1998) potrebbe anche

incrementare l’aderenza all’attività fisica. In questo senso, le sessioni di esercizio in forma di circuito, prevedendo generalmente una più bassa durata della singola

sessione (40-45 minuti), e cumulando esercizi finalizzati a più capacità contemporanee (forza, mobilità, equilibrio, coordinazione), potrebbe trovare un maggior riscontro in quei soggetti che fanno del tempo la propria “arma di protezione” nei confronti del coinvolgimento in attività motorie libere o supervisionate.

Modificare le abitudini verso un maggior esercizio fisico è un problema complesso, e la sfida sarà quella di trovare modi ben accetti per aumentare il coinvolgimento in situazioni che incrementino l’attività fisica. I professionisti delle scienze motorie hanno bisogno di trovare approcci innovativi per aumentare l’attività fisica nella popolazione sedentaria, ma gli sforzi per promuoverla nei diabetici hanno scarse probabilità di successo senza un contributo sostanziale da parte dei professionisti sanitari coinvolti nella cura di questa patologia. Bisognerebbe sviluppare sistemi per promuovere l’attività fisica all’interno della pratica clinica quotidiana, sistemi che richiederebbero, ovviamente, un’attenta pianificazione in collaborazione con le scienze motorie, esigendo un’attenta e critica rivalutazione in merito alla relazione costi-benefici dell’esercizio fisico.