Capitolo 4: QUOTIDIANITÀ BENGALESI
4.1 LA CASA
4.1.1 Dell'essere ospiti
Non posso cominciare il mio resoconto etnografico se non parlando dell'esperienza di essere ospiti. Sin dai primi contatti con le donne bengalesi, divenute poi le mie interlocutrici principali, un momento essenziale è stato accettare gli inviti nelle loro case. Subito si è delineato il carattere familiare, domestico delle relazioni future tra me e loro.
Nelle mie pagine di appunti, le descrizioni delle case che vedevo per la prima volta accompagnano quelle dell'“assolvimento” delle premure che si devono a un'ospite: entrata in casa, immancabilmente mi viene offerto di accomodarmi su un divano, su un letto adattato a divano o su una sedia che funge da poltrona, per riposarmi un po' prima di cominciare a fare qualsiasi altra cosa. Poi mi si offre da bere: tè freddo o più spesso caldo43, biscotti, frutta, succo di mango, frutto
nazionale per eccellenza. Immancabilmente mi sento dire quanto buono è il mango laggiù, quanto dolce è, e quanto costi qui, nei negozi dei connazionali sparsi per la città di Mestre. Le attenzioni per l'ospite si rivelano anche nell'accendere la televisione, se non è già accesa44. In estate si offre la
frescura di un ventilatore che viene puntato direttamente contro: è impensabile passare la stagione calda senza. A Dacca, mi ripete spesso la famiglia Vian, la corrente elettrica non c'è sempre e, soprattutto la sera, la città soffre di continui black-out. E come si resiste senza aria condizionata o ventilatore? È un problema serio, mi dicono, nella stagione calda ci sono 40 gradi!
43 Il tè caldo “non è come il vostro” si affretta ad avvertirmi Enrico, “c'è il latte dentro”! E oltre al latte anche molto
zucchero. Solitamente il tè si prepara, infatti, già zuccherato, completo. Oltre al dud cha, tè col latte, si prepara spesso il tè speziato, alla cannella o ai chiodi di garofano. Solo un paio di volte mi è stato offerto un caffè dalle padrone di casa. Il caffè in questione, però, era in effetti caffelatte, e anche questo già zuccherato. Curiosamente, il caffè all'italiana è amato dai mariti, che verosimilmente lo scoprono al lavoro, ma non dalle mogli, le quali prediligono il tè.
44 Alcune volte mi è successo che i padroni di casa, mogli o mariti indifferentemente, abbiano selezionato
appositamente per me dei canali televisivi in italiano. In generale, le famiglie da me frequentate non guardano la televisione italiana, bensì bengalese e indiana, soprattutto i canali che trasmettono video-clip musicali indiani e telefilm di Bollywood, considerati migliori di quelli della televisione bengalese.
Molte volte, avendo appuntamento con me, le mie informatrici preparano appositamente dei dolcetti da offrirmi: lo shemai, pasta sottilissima cotta nel latte con cardamomo, cannella, alloro e zucchero, dolcetti con ceci, ghi (il burro chiarificato della cucina indiana), uvetta e mandorle o altri a base di carota. Spesso si offrono agli ospiti stuzzichini salati e fritti, come le shingara, triangoli di pasta fritti, ripieni di patate, peperoncino verde, a volte anche fegato; gamberetti in pastella; frittelle di lenticchie rosse, cipolla e peperoncino da prendere col tè, come merenda;.
La casa è sempre pronta ad accogliere l'ospite, così come la cucina, e i fornelli sono presto accesi. Con il cibo si stabiliscono relazioni. Sin dalle primissime visite sono stata invitata a fermarmi a cena, a provare i piatti cucinati. “Piccante Laura?” mi sono sentita, e mi sento ancora, chiedere da tutti. La cucina bengalese non può esistere senza peperoncino e senza spezie. Piacendomi entrambe le cose, sono stata subito classificata come un buon ospite. Per di più ho sempre mangiato con le mani, nonostante mi abbiano un po' tutti preparato le posate accanto al piatto, almeno la prima volta. A tavola funziona così: il riso, l'alimento principale e base, è accompagnato da carne, uova, pesce, legumi e verdura (di solito poca). Non c'è mai un'unica cosa da mangiare. Ci sono sempre almeno due o tre pietanze diverse da accompagnare al riso: due tipi di carne; carne e daal (una sorta di zuppa liquida di legumi); carne e pesce insieme; carne, uova sode e verdura. Il riso, quasi sempre basmati, il più delle volte è semplicemente bollito. In occasioni speciali si prepara del riso biryani (riso mescolato a spezie e carne) o khichuri (che si prepara con le lenticchie). Sopra la porzione di biryani o khichuri si mette tutto il resto: altra carne o pesce, verdura fresca. A questo punto usando la mano destra si comincia a mescolare tutto assieme: riso, carne, verdura, uovo sodo o quant'altro e i sapori sono così sempre ricchi, compositi, mai puri. L'operazione si svolge usando l'intera mano, in tutto lo spazio tra le dita e il polso. La porzione di riso che ognuno si prepara equivale alla quantità di cibo che si riesce ad appallottolare nel proprio palmo. Io non ho ancora imparato a preparare per bene questa “palla”. La porzione, poi, per me è troppo grande: il mio maldestro modo di mangiare con le mani per “fare come si fa in Bangladesh”
ha suscitato in compenso molta ilarità tra i miei amici bengalesi: io sono quella che mangia usando solo tre o quattro dita, che mangia piano e poco, come una bambina. E cominciano le risate.
Mangiare con le mani, per me, significa anche sporcarle e, in particolar modo, sporcarle di giallo. È questo il colore principe della cucina bengalese perché è la tinta della curcuma, la spezie onnipresente, o quasi, nelle ricette. La curcuma, assieme forse alle altre spezie, ogni volta che mangio lascia traccia sulle mie (tre) dita: la mano destra, le mie unghie precisamente, dopo aver mangiato ne restano segnate per un paio di giorni. È per la mia pelle bianca. Ai bengalesi non succede. Un giorno…
… Pensavo al giallo. Il Bangladesh è giallo, per me. È il giallo della curcuma, è la scala di marroni che colorano i dolci, le fritturine, il riso, in ultima analisi, la pelle dei suoi abitanti. (Note di campo – 10/02/2013)45
“Io guardato qua (rispetto al) Bangladesh diverso una cosa, una cosa grande grande grande!”: dell'ospitalità in Bangladesh
Il tema dell'ospitalità, che tanto mi aveva colpito sin da subito, ritorna inaspettatamente nell'intervista che ho realizzato con Rachele e Vittorio, verso la fine del mio campo46. Interpretando
un po' stranamente una mia domanda, Vittorio comincia a parlarmi del valore dell'ospitalità che in Italia non ha trovato: “Io guardato qua (rispetto al) Bangladesh diverso una cosa, una cosa grande grande grande!”, quando nel suo Paese va a far visita a un parente o amico, viene sempre invitato a sedersi, a prendere un tè, un succo di frutta o altro. Si onorano gli ospiti, si “rispetta”, mi dice Vittorio. In Italia non è così. E mi fa l'esempio di una sua visita in casa di una signora italiana che non l'ha nemmeno fatto accomodare. Poi continua:
“Anche tu vai ufficio, una parte, no detto “siedi, bevi caffè”, quando tu Bangladesh vai in un ufficio, qualche ufficio piccolo, prima un tè, due biscotti, o un caffè o Coca-Cola, lasciato tu a tavola, io siedi di qua, dopo parlare. Prima tè. Questo Bangladesh! Italia no!”
Vittorio mi racconta che negli uffici, anche nelle banche, c'è addirittura un addetto, un tea-
45 Mi viene da pensare che, probabilmente, se avessi visitato questo Paese il colore che gli avrei associato sarebbe
stato il verde, piuttosto che il giallo, il verde della vegetazione, così lussureggiante e onnipresente. Faccio questo pensiero ricapitolando nella memoria le numerose immagini del Bangladesh viste alla televisione bengalese. Nella mia esperienza reale, fisica, però, questa parte del Bangladesh mi è preclusa. È troppo lontana, non esiste se non nell'immaginare dei miei pensieri. La curcuma e il suo giallo no. Restano sulla mia pelle.
boy, che porta tè o caffè ai clienti che arrivano. E la stessa cortesia che trova in Bangladesh, la vive ogni volta che va con la moglie a trovare qualche connazionale qui, in Italia. Ma nell'Italia degli italiani questo non c'è, e mi spiega ciò dicendomi: “Qua c'è tanti soldi, cuore non c'è! Bangladesh non c'è soldi, c'è cuore! Questo dato Allah!” Il discorso si espande ancora di più. Per Vittorio Dio ha reso i bengalesi un popolo ospitale e generoso, per il loro bene; ha predisposto inoltre tutto perché in qualche modo funzionasse: se ci fosse il freddo che c'è in Italia, mi dice lui, metà della popolazione bengalese sarebbe già morta, perché non ha di che ripararsi. Mi parla quindi della povertà del suo Paese e di come la generosità delle persone più benestanti, in cui si include, permetta anche all'ultimo dei bengalesi di avere degli aiuti: un pugno di riso, qualche soldo donato da chi può e anche da chi non potrebbe permetterselo. Dio poi ricompensa. Se il Bangladesh è la terra della generosità, della solidarietà tra persone, l'Italia (e, come vedremo più avanti, ancor più altri stati in Europa) è il luogo del welfare. Vittorio non nega che ci sia bontà negli italiani, anche lui mi racconta storie di italiani che hanno aiutato connazionali bangladeshi in diversi modi, ma in Italia conta e funziona molto di più lo stato sociale47.
I doni
L'ospitalità delle persone che ho conosciuto, la loro dedizione all'ospite, il piacere di prolungare il più possibile il contatto, si sono concretizzati anche attraverso il dono. Gli inviti a cena o le semplici visite si sono spesso concluse con dei doni, dei piccoli regali sotto forma di cibo che le mie informatrici mi hanno abituato a ricevere48. Del riso con carne, delle polpette-kebab, frutta,
pacchi di pasta, dolcetti, insalata, un pacco di fagioli, una bottiglia di olio d'oliva, stuzzichini fritti, spaghetti cinesi, peperoncini verdi, ceci neri, pollo e paratha (pronunciato più o meno “porotà”, una specie di piadina morbida). Molte volte i regali erano (e sono ancora) destinati al mio fidanzato, che non tutte, tutt'ora, conoscono, ma di cui tutte si ricordano. “No arrabbiato?”, mi chiedevano quando
47 Anche la moglie Rachele nella parte di intervista fatta con lei, mi dice come apprezzi molto il fatto che in Italia il
Comune aiuti tutti, italiani e stranieri in egual misura, senza fare distinzioni.
48 Ho visto diverse volte Rachele o Daniela preparare borse di piccoli regali “cibari” per le amiche, al termine di una
cenavo a casa loro, le prime volte, e rincasavo tardi. O si informavano se avevo preparato qualcosa da mangiare per lui, prima di partire: come avrebbe potuto farsi la cena da solo!?!? In alcuni momenti il dono da portare a casa è stato un ringraziamento per l'aiuto da me dato ai figli nello svolgimento dei compiti per casa. Una volta Irene mi dice che è perché io sono sua amica che mi offre quei doni e ci tiene molto che io li accetti.
4.1.2 Fare conoscenza, ovvero parlare di famiglia, matrimonio, lavoro