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Focalizzare l’attenzione su quelle relazioni che non possiedono apparentemente basi nella sostanza, ma che sono espresse attraverso una terminologia che richiama aspetti naturali per la descrizione delle relazioni parentali, quali ad esempio, legami adottivi, fittizi o forme di parentela gay (Carsten J., 2004), possono aiutarci a comprendere le tensioni giocate sopra agli idiomi della cosiddetta parentela naturale. In Annual Review of Anthropology del 1993 apparse un articolo di Kath Weston che anticipava il suo lavoro pioneristico sulle famiglie di scelta e sulle nuove forme di relazionalità parentale tra omosessuali della baia di San Francisco. Kath Weston ha svolto un’etnografia sulla parentela americana gay, cercando di porre sotto critica e di allontanarsi da alcune categorie che Schneider qualche decennio prima aveva utilizzato per analizzare la famiglia americana. In Families we choose. Lesbians, Gays, Kinship, studio condotto nella Baia di San Francisco tra il 1985 e il 1986, l’antropologa statunitense ha descritto ed interpretato le relazioni parentali all’interno di un gruppo di individui da lei stessa definito “famiglie di scelta”. Nell’etnografia sono state descritte una molteplicità di forme possibili (coinquilini, amici, ex amanti con figli o senza figli), sottolineando come esse fossero accomunate dalla scelta, dalla volontà di stare assieme e di costruire un legame duraturo nel tempo. Come visto, molte ricerche antropologiche avevano posto la relazione biogenetica come base universale sulla quale realizzare una comparazione tra organizzazioni di parentela e, in tal modo, decretare cosa fosse famiglia, quali ingredienti fossero necessari per poter asserire la superiorità di un modello su un altro. Tuttavia Weston, sulla scorta delle riflessioni postume alla pubblicazione di American Kinship, ha portato avanti una critica rispetto all’impossibilità di concepire un gruppo domestico solo in ragione di ciò che fosse genealogicamente definibile (by blood) o da relazioni normate (by law) (Schneider D., [1968] - 1980). Sorte prive di legami procreativi o istituzionali, le famiglie gay dello studio di Weston, si ponevano in netto contrasto al modello dominante descrittoci in American Kinship da David Schneider. La biologia, secondo Weston, sarebbe dovuta

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essere letta come simbolo e non come sostanza nella formula teorizzata da Schneider. Le “famiglie di scelta” non dovevano essere supposte ed etichettate come “surrogati” del modello egemonico fondato su fattori biogenetici. Esse, concepite come rappresentazioni stesse di una specifica cultura, servivano così a svelare la finzione simbolica di tutti i legami parentali. Non era tanto la connessione biogenetica ad assumere importanza, quanto la durata del tempo, le relazioni di cura che si attivano tra persone, che si configuravano come requisito per garantire significatività ai legami omosessuali. Ciò che i soggetti dell’etnografia di Weston hanno messo in scena era un rifiuto delle connessioni biologiche come fonte primaria della parentela sottolineando come le “famiglie di scelta” possedessero alcune caratteristiche che rendevano autentici i legami tra gli individui che vi appartenevano. Weston ha così notato che il rifiuto di accettare l’equazione connessioni biologiche come permanenza, potesse essere letto come esplicito rifiuto all’ideologia dominante della parentela eterosessuale. Vi era un’esplicita costruzione e creazione della parentela, attraverso la cura, il mantenimento di determinate relazioni; come Weston ha tuttavia sottolineato, quello che si produceva non era un semplice negazione o allontanamento del modello dominante della parentela, ma rimaneva aperto un lavoro simbolico della parentela rispetto all’analisi schneideriana. Secondo l’antropologa difatti, non si poteva assumere la parentela biogenetica come entità realmente contrapposta a quella creata da altre relazioni (come nel caso della parentela gay da lei studiata), poiché per i soggetti da lei studiati, la parentela da loro creata era raffigurata “altrettanto reale” come tutte le altre forme di parentela (Weston K., [1991] 1997). Le “famiglie di scelta” erano composte da relazioni prive di vincoli di sangue o da leggi che ne regolavano l’affinità. L’amore diveniva l’unico “necessario e sufficiente criterio per definire la parentela” (Weston K., [1991] 1997:107).

Weston ha così evidenziato l’assenza di un modello prestabilito all’interno della categoria delle “famiglie di scelta”, mettendolo in relazione con la fluidità dei confini della parentela e della varietà dei suoi membri. «I legami familiari tra persone dello stesso sesso che possono essere erotici, ma non fondati sulla biologia o sulla procreazione, non rientrano in nessuna divisione dell’ordine della parentela entro relazioni di sangue e matrimonio» (Weston K., [1991] 1997:3). Le condivisioni di sostanze non erano più i soli elementi che rendevano legittime le connessioni di

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affinità; la biologia non si configurava perciò come unica base su cui tessere relazioni di parentela. I soggetti di Families we choose, si stavano posizionano in mezzo alle categorie di leggi e natura, grazie alla categoria della scelta. Quest’ultima, esercitata in maniera esplicita e visibile, andava a destabilizzare il dato biologico in favore della qualità dei rapporti. Scelta e amore erodevano pertanto il modello eterosessuale dominante.

Cosa accade quando la PMA va in supporto della riproduzione di persone omosessuali? Quali significati verranno attribuiti ad essi? Che ruolo giocheranno le rappresentazioni di relazionalità e quelle di sostanzialità? È corposa la letteratura che ha esplorato l'impatto della PMA in relazione a come gli individui negozino i significati rispetto a parentela, famiglia e genitorialità (Edwards J., 2000; Edwards J. Strathern M., 2000; Franklin S., 1997; Strathern M., 1992b; Thompson C., 2005; Bonaccorso M., 2004a, 2004b), così come sono numerosi gli studi di settore che si sono interessati alle esperienze di coppie prevalentemente eterosessuali (Franklin S., 1997; Harrington J Becker G. Natchigall RD., 2008; Strathern M., 1992b; Thompson C., 2005; Gribaldo A., 2005). Vi è sempre più un corpo crescente di studi che hanno analizzato il modo in cui le madri lesbiche abbiano negoziato il concepimento avvenuto grazie all’utilizzo di gameti esterni alla coppia (Hayden C.P., 1995; Luce J., 2010; Mamo L., 2007; Sullivan M., 2004; Nordqvist P., 2012), o studi che si stiano occupando di paternità gay (Benkov L., 1994; Hicks S., 2006; Stacey J., 2006; Lewin E., 2009; Gross M., 2012).

Uno degli studi pioneristici in materia, che prenderò ora in esame, è Gender, Genetics, and Generation: Reformulating Biology in Lesbian Kinship di Corinne P. Hayden (1995), all’interno del quale sono mostrate le strategiche modalità attraverso cui le madri omosessuali, utilizzando nozioni di biologia, abbiano riarticolato «il proprio senso di parentela unicamente lesbica” (Hayden C.P., 1995:42). Discutendo di inseminazione artificiale difatti, l’uso di nozioni biologiche diviene una manovra inevitabile; come precedentemente accennato, interessante è sottolinearne le prassi innovative utilizzate dai soggetti dello studio etnografico. Secondo Hayden, l’inseminazione artificiale, la surrogacy e le varie tecniche messe in atto nella riproduzione medicalmente assistita, hanno scardinato il concetto di “genitore” (inteso, in senso ampio, come “colui che genera”), tripartendone in astratto,

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l’immagine in: “genitore genetico”, “genitore di nascita”, “genitore sociale”. «La nozione di parentela biologica in questo contesto assume un eccesso di significati. Uno degli effetti di questo eccesso è che la connessione esplicita biogenetica diventi una contingente, piuttosto che immutabile, caratteristica di parentela» (Hayden C.P., 1995:54).

Le nuove tecnologie riproduttive hanno comportato una serie di spostamenti, separando concepimento, riproduzione e genitorialità. Dal momento in cui la parentela biologica ha assunto questo eccesso di significati (Hayden C.P., 1995) anche il corpo femminile non si pone più come spazio di coerenza tra elementi naturali e culturali di filiazione (Parisi R., 2013). In altre parole, ciò che si è prodotto è una sorta di frammentazione della genitorialità (Strathern M., 1992a) una sorta di rarefazione della genealogia (Gribaldo A., 2005) dove la maternità non può essere assunta come esperienza connessa esclusivamente alle fasi di gravidanza e parto.Ciò che era stato descritto come “frammentazione della maternità” (Ragoné H., 1994:119), può essere applicato anche alla paternità. Si è creata una progressiva scomposizione delle parti e dei significati rispetto a ruoli, elementi biogenetici, corporei e emozionali. La biologia, come molti studi di settore hanno dimostrato, può avere numerose sfaccettature di significato. La parentela si configura come sito di negoziazione e contestazione, piuttosto che significare e posizionarsi come una netta linea di demarcazione tra chi può essere annoverato tra i gradi di parentela e chi ne è escluso.

In questa era post IVF (Gunnarsson Payne J., 2016) la biologia, pur mantenendo una posizione centrale rispetto alle formulazioni di cosa significhi parentela, si pone come chiave di lettura privilegiata che muta assieme ai mutamenti socio-culturali che investono nella contemporaneità le nuove forme dello stare in relazione. La crescente conoscenza rispetto a cosa sia biologia, o alla perfetta composizione di una linea genetica, del DNA, portano ad un uso ed una consapevolezza maggiore rispetto alla biologia. Tuttavia quest’ultima non può essere vista come qualcosa di definibile una volta per tutte, sia rispetto allo sviluppo scientifico ma anche all’uso che i soggetti ne fanno. Ci troviamo di fronte ad una sorta di circolo ermeneutico della biologia, dove essa si configura sia come elemento centrale per la comprensione delle relazioni parentali ad essa legate, che come elemento profondamente modificato dall’interazione con tali significati culturali.

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Sarah Franklin e Susan McKinnon hanno ragionato rispetto a come la parentela sia stata concettualizzata in antropologia portando in campo il concetto di grammatica. Con questa espressione è sempre più possibile mettere in luce le differenti rappresentazioni o i differenti usi grammaticali che la parentela può acquisire: la grammatica può mutare, espandersi, essere ambigua o produrre nuove regole. Questa immagine può bene applicarsi ai casi in cui si utilizzi un linguaggio naturalizzato all’interno delle relazioni di parentela che nascono mediante il supporto delle nuove tecnologie riproduttive. Ovviamente le grammatiche della parentela, nel contesto della riproduzione assistita, non possono essere comprese come separate dagli sviluppi scientifici della medicina riproduttiva, ed è per questa ragione che è stato per me fondamentale andare ad osservare le logiche e le narrazioni che vengono costruite là dove la vita viene aiutata a nascere (nell’etnografia in questione, la clinica della fertilità di Thousand Oaks).

L’antropologa Monica Konrad ha condotto uno studio sulla donazione di ovuli in Gran Bretagna (2005), dimostrando quanto per le madri di intenzione fosse più importante la gestazione ed il nutrimento fetale piuttosto che una connessione genetica con bambini nati grazie alla donazione di gameti. La sua etnografia ha messo in luce quanto vi fosse una stratificazione di significati tra sangue e sostanze genetiche: dalle parole delle riceventi di ovuli, il sangue era raffigurato come sostanza che attivava una relazione parentale e una relazione significativa tra gestante e feto, ma nessuna relazione di consanguineità con la donatrice di ovuli. Come Konrad ha sostenuto la condivisione di sangue non significava possedere un collegamento genetico rintracciabile con il donatore, non esisteva nessuna condivisione di sangue con colui che aveva contribuito biogeneticamente alla nascita di bambini, ma venivano sottolineati altri aspetti che andavano comunque a comporre una sorta di condivisione di sostanze attraverso “carne e sangue” grazie e durante la gestazione nel feto. Nel contesto dell’ovodonazione le madri di intenzione riarticolavano l’idea di essere la stessa carne e lo stesso sangue grazie al processo di gestazione e non attraverso la condivisione materiale biogenetico. Come brevemente accennato, tali rappresentazioni, differivano in relazione alle posizioni occupate dai soggetti; ovvero, le donatrici di ovuli possedevano tutta una grammatica per prendere le distanze dai

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bambini nati grazie ad una loro donazione, le madri di intenzione utilizzavano differenti e altre strategie per fare e disfare i legami parentali.

Sangue e geni sono spesso tirati in causa come elementi chiave per costruire ed interpretare cosa siano le relazioni parentali; a volte essi vengono utilizzati come sinonimi, altre volte ancora vengono rappresentati in modo del tutto creativo. Come più volte accennato nel corso di questo capitolo introduttivo, alla base della nostra idea euroamericana di come si compongano le relazioni tra parenti vi è l’idea che debba intercorrere tra individui una condivisione di sostanze corporee (sangue, geni, ecc.), in modo bilaterale, ovvero da un uomo e da una donna, “[…] that “blood and “genes” work to establish and interpret kinship in similar although not identical ways” (Gunnarsson Payne J., 2016)

Gli esempi sin qui riportati ci suggeriscono, tra gli altri, di considerare ciò che i soggetti rappresentano come “materiale biogenetico” in dialogo con i momenti salienti quali emozioni e pratiche di cura esperite quotidianamente. Tali processi non possono essere letti come processi puramente biologico-scientifici, ma devono necessariamente essere analizzati in relazione alla loro portata simbolico-affettiva.

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