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5. Mamme di pancia, mamme di cuore

5.1 Desideri di maternità

5.2.2 L’altra madre: tra marginalità e biologia elettiva

«Avere figli attraverso inseminazione artificiale introduce automaticamente un’asimmetria nel rapporto tra madri lesbiche e i loro figli. La" madre di nascita" ha un rapporto convalidato e immediatamente riconoscibile con il suo bambino, mentre la sua compagna (né genitore biologico né coniuge legalmente

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riconosciuto) è doppiamente esclusa dal regno della parentela. La sua marginalità si esprime nella mancanza di consolidati, e tantomeno positivi, termini per il ruolo di “co-madre”» (Hayden,1995:49).64

Corinne P. Hayden in Gender, Genetic and Generation: Reformulating Biology in Lesbian Kinship interpreta la co-maternità come esperienza di duplice esclusione. Secondo l’antropologa, la biologia, valutata come base su cui fondare la parentela, produce un solco profondo tra la “madre di nascita” e la “seconda madre”. Quest’ultima non possedendo né un riconoscimento giuridico né un termine specifico (e neutro) che la identifichi, è descritta come figura posta ai margini dell’esperienza stessa di maternità. Vorrei considerare la marginalità, esperita dalle madri non biologiche, in modo differente. bell hooks (1998), nel suo celebre saggio Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, ne teorizza un’elaborazione attraente che utilizzerò qui come categoria per leggere le esperienze delle madri sociali:

«[…] la marginalità è un luogo di resistenza. Questa marginalità che ho definito parzialmente strategica per la produzione di un discorso contro-egemonico, è presente non solo nelle parole, ma anche nei modi di essere e di vivere. Non mi riferivo quindi a una marginalità che si spera di perdere – lasciare o abbandonare – via via che ci si avvicina al centro, ma piuttosto a un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi» (hooks, 1998:68).

La marginalità, distante dall’essere solo uno spazio di carenze e privazioni può diventare, al contempo, un sito di resistenza. Utilizzerò in questo paragrafo la marginalità come categoria di analisi per leggere le esperienze della doppia maternità

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in coppie lesbiche; marginalità come spazio per pensare una differente forma di maternità che non sia basata esclusivamente alle fasi di gestazione, parto o vincoli di consanguineità. Le madri sociali, come “soggetti eccentrici” (de Lauretis T., 1999), si muovono entro spazi di azione e negoziazione, avviando un decentramento del legame biogenetico (Guerzoni C. S., 2016).

«Avrei tantissimi esempi da farti, soprattutto quando nostril figlio era appena arrivato. C’è poco da fare, son loro due. Tu sei, non fuori, però sei laterale. Perché loro due…c’è questa simbiosi di cui si parla, è concretezza, la si respira e ogni tanto ammetto di essermi sentita di troppo, di non sapere cosa fare in alcuni momenti, se dire qualcosa, se stare ad osservare… è un argomento che anche negli incontri mensili che facciamo in associazione avevo sentito accennare, ma non immaginavo fosse qualcosa di simile.»

(Nadia).

La madre sociale presenta allo stato dell’arte un numero più complesso di situazioni da affrontare, non solo nell’intimità delle mura domestiche (nella relazione con la madre biologica), ma nell’incontro con la società più ampia che non possedeva sino a qualche tempo fa strumenti analitici per decifrare le esperienze di genitorialità di persone omosessuali. Numerose sono le esperienze raccolte durante gli anni di campo che evidenziano il sottile, ma profondo, scarto tra queste due figure che se lavorano per farsi riconoscere entrambe come genitori, si scontrano quotidianamente con una società che ne nega l’esistenza. Vi è tuttavia una differenziazione di livelli, riassumibile con una frase che è stata sovente evocata, “la società non è pronta, i singoli lo sono”. Le istituzioni (scuole, ospedali, anagrafe ecc.) seguono le regole imposte dallo stato, quando i singoli cercano di comprendere queste realtà, trovandosi spesso ad interagire con loro. Le madri incontrate hanno spesso evidenziato il loro essere riconosciute nell’informalità del quotidiano, ovvero del far parte di quelle posizioni o ruoli sociali che ufficialmente non potrebbero spettare loro. Tutte le madri sociali sono state concordi nell’affermare che siano “legalmente emarginate” e che

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questo scarto legislativo provochi nei fatti uno scarto reale, ma che sia profondamente eroso dalle loro esistenze e capacità di mettersi in gioco.

«All’inizio un po’ di timori, dubbi o semplice curiosità…ma poi sono diventata addirittura la rappresentate di classe! Quindi c’è una sorta di fiducia e riconoscimento del ruolo che rivesto per mia figlia. Questo poi non viene concretizzato, perché devo comunque avere la delega e tutte le menate varie. E questo è seccante, è come continuamente dire che io per mia figlia non sia nessuno, è come dire che non abbia nessun ruolo…»

(Marika).

Il ruolo della madre sociale è costruito come “evento sociale” e non è un elemento che è stato colto nell’immediatezza. Le madri sociali hanno raccontato spesso di non essere riconosciute nel ruolo di madre, ma di venire interpretate come figure vicine alle cerchie di amicizie: un’amica intima, una zia, una tata. Questa non comprensione si è verificata inizialmente anche nelle cerchie di amicizie o dalla società più ampia che identifica la gestazione come una manifestazione fisica che “si vede”, e pertanto si rivolgeva alla madre biologica come l’unica che poteva avere diritti sui minori. Se spesso sono evocate situazioni di marginalità, al contempo sono state evidenziate le potenzialità di certe madri sociali che, pur non avendo legalmente e in parte socialmente nessun riconoscimento, hanno acquisito progressivamente la fiducia e gli spazi della genitorialità. Queste potenzialità non sono il frutto di semplici avvenimenti, ma si configurano come il risultato di un lento lavoro di riconoscimento che entrambe le madri hanno assiduamente cercato nell’incontro con l’esterno.

«Io ogni volta mi presento. Lo devo fare. Entro in classe, in un ospedale, dal pediatra e finisco con un punto interrogativo. “Posso?” E questo crea inevitabilmente un disagio, uno scarto. Cambierebbe tantissimo se ci fosse scritto da qualche parte che io sono la mamma due. A quel punto, il punto di domanda si trasformerebbe in un punto. Darebbe più sicurezze.»

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(Marika).

Nell’esperienza di Marika due insicurezze, legate alla non riconoscibilità sociale della maternità, si sommano: non aver portato la gravidanza e l’inesistenza di un documento che la identifichi. La finzione attribuita alla figura della co-madre può essere compresa come una forma di violenza strutturale operata dall’apparato governativo. Essa si riferisce ad un tipo di violenza che viene perpetuata invisibilmente ed inflitta attraverso le istituzioni. Difatti la disuguaglianza sottolineata a livello burocratico si ripercuote sugli equilibri domestici. Le insicurezze che nascono da questa condizione sono legate soprattutto a situazioni future che non potranno essere affrontate senza una certificazione che evidenzi l’esistenza di un legame affettivo e di filiazione tra madri e figli. Ad esempio, in caso di malattia o morte della “madre di pancia” si dovranno attivare delle strategie per evitare di spezzare il legame di continuità affettiva con i propri figli.

«Non si difende solo la biologia, ma anche la struttura.» (Elisa).

Alcune madri sociali hanno raccontato di aver provato in più occasioni “emozioni strane”. Pur sottolineando di essere “le altre madri” hanno spesso sottolineato la difficoltà di certe situazioni, dovute al proprio posizionamento: “Non sono padre, ma alla fine faccio cose simili a quello che mi sono sempre immaginata che i padri facciano”.

Note dal diario di campo, Roma 5/02/2015

All’inizio dell’intervista Nadia ed Katia hanno precisato l’interscambiabilità dei ruoli tra le due madri. Poi Nadia (madre sociale) ha iniziato a raccontare alcuni particolari che hanno sottolineato l’aspetto della marginalità vissuta da parte sua in alcune occasioni. Quando Katia ha comunicato di aspettare un bambino, la cerchia di amicizie si riferiva solo a lei per fare domande o per complimentarsi del percorso

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intrapreso. Nadia ha poi raccontato di aver svolto mansioni che generalmente spettano ai padri, alle dimissioni della compagna dall’ospedale.

L’assenza di un nome per considerarsi provoca difficoltà di rappresentarsi pubblicamente come madri. “Non si difende la biologia ma la struttura”, con questa frase Elisa ha spesso precisato di aver svolto alcune azioni di maternage con un certo impaccio, non con la stessa disinvoltura della madre biologica. Non perché meno in grado di eseguire accudimento e cura della figlia, ma perché il sostrato sociale le rimandava continue disconferme rispetto al ruolo genitoriale. Quando i racconti sfiorano tali tematiche, vengono spesso sottolineate contemporaneamente tutte le pratiche messe in atto al posto della madre biologica, diventando delle “super co-mamme” (tesi magistrale non pubblicata). Queste ultime svolgono la maggior parte delle funzioni domestiche (dall’accudimento alle varie pratiche di cura) per bilanciare quello che molte donne hanno definito il “peso della concretezza della simbiosi”. Dalle analisi delle interviste difatti, le altre madri hanno sostenuto di aver partecipato non solo ai momenti del quotidiano, ma a importanti azioni quali il taglio del cordone, l’aver preso per prime in braccio il figlio a seguito del parto, essere state le prime ad averlo allattato ecc. In altre parole, vengono performate alcune azioni che bilancino invisibilmente il peso tra le due maternità.