Il processo di definizione delle nozioni di ‘democrazia rappresentativa’ e di ‘democrazia diretta’ viene ad assumere un’importanza centrale intorno alle riflessioni sulla cosa pubblica nel corso dell’Ottocento, dopo una fase di incubazione risalente al secolo precedente. È un processo di definizione parallelo, da cui le due nozioni vengono ad assumere nitidezza in senso contrappositivo, marcando i tratti di distinzione fino all’elaborazione di un’immagine dei due fenomeni come inconciliabili, segni di tempi diversi e applicabili a entità statuali di diversa entità (non di meno in termini di estensione geografica).
Probabilmente l’opera più diffusamente riconosciuta come cruciale in relazione a tale processo di definizione è il celebre saggio di Benjamin Constant La libertà degli
Antichi paragonata a quella dei Moderni74. In tale lavoro, con il quale Constant si
inserisce nell’annosa querelle des Anciens et des Modernes75, l’argomentazione contrappositiva che oppone la democrazia diretta alla democrazia rappresentativa viene a svilupparsi attraverso il parallelismo tra queste e, rispettivamente, la ‘libertà degli antichi’ e la ‘libertà dei moderni’. La prima è direttamente ricollegabile all’Atene delle πόλεις (V-IV sec. a. C.), e consisteva nella partecipazione diretta alle decisioni riguardanti l’intera collettività. Si trattava di una partecipazione non mediata: ogni
74 Il Discours De la liberté des Anciens comparée à celle des Moderne venne pronunciato
pubblicamente (consentendo all’autore l’elezione alla Camera dei deputati) nel febbraio del 1819 all’Athénée Royal di Parigi.
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cittadino titolare di diritti politici poteva prendere parte alle riunioni e concorrere alle decisioni mediante il voto, attraverso cui «i cittadini riuniti in assemblea (Ecclèsia) deliberavano76 sulla guerra e sulla pace, sui trattati di alleanza da concludere con gli stranieri, sulle leggi, sui bilanci, sul comportamento delle più alte magistrature»77.
L’individuo, però, pur ‘libero’ in quanto partecipante diretto alle decisioni collettive, «non aveva concessa nessuna indipendenza individuale, tanto che Constant afferma: «presso gli antichi, l’individuo, quasi sempre sovrano negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati»78. La critica intrapresa dall’autore verso la democrazia diretta degli antichi si nutriva, tra le altre, di due argomentazioni di punta volte a screditarla come metodo di governo per gli Stati moderni e contemporanei: in primo luogo, essa si adattava solo a quelle realtà che, in quanto piccole e poco popolose, avrebbero materialmente consentito la riunione di tutti i cittadini titolari di diritti politici; in secondo luogo, essa si fondava sulla schiavitù, giacché è grazie al lavoro degli schiavi che i cittadini liberi disponevano del tempo necessario per partecipare alle assemblee.
Si tratta di argomentazioni chiaramente di derivazione liberale, giacché è proprio con l’affermarsi economico della borghesia (nell’Europa moderna) e con il consolidamento del suo ruolo politico che la rappresentanza (e con essa la teoria della democrazia rappresentativa) diviene l’elemento cardine della forma di stato liberale, come già in parte ricostruito nel Cap. I, dove si è messo in luce il suo rilievo nel Parlamento inglese come elemento di limitazione e controllo verso il potere della Corona (un elemento che aveva segnato l’affermazione dello Stato liberale come superamento dello Stato assoluto).
La rappresentanza rispondeva inoltre al principio della divisione del lavoro, in un contesto ove «è stato soprattutto a causa dell’affermazione dell’economia di mercato che gli individui, impegnati nelle attività economiche, non hanno avuto più sufficiente tempo da dedicare all’esercizio diretto delle funzioni pubbliche»79: la borghesia, in sostanza, per dedicarsi in modo sicuro allo sviluppo delle attività economiche aveva
76 Per non creare confusioni, qui il verbo ‘deliberare’ è stato utilizzato come sinonimo di ‘decidere’ e non
nel senso attribuitogli dalla teoria deliberativa, in seno alla quale assume il significato – recepito dall’ingl. ‘to deliberate’ – di ‘discutere (dialogando)’.
77 R.BIN,G.PITRUZZELLA, Diritto pubblico, G. Giappichelli Editore, Torino, 2012, p. 61. 78 Ibidem.
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bisogno di soggetti – rigorosamente da selezionare al suo interno – a cui delegare l’esercizio delle funzioni pubbliche. L’elemento della rappresentanza, ereditato dal diritto privato e da alcuni esponenti del contrattualismo, avrebbe dovuto costituirsi sull’affidabilità di tali soggetti nel gestire il mandato, orientato anche a minimizzare il grado di invasività dello Stato sulle attività private.
È pertanto in questo contesto che si sarebbe sviluppata – congiuntamente con il primo nucleo fondante dei diritti e delle libertà costituzionali (i c.d. diritti “di prima generazione”80) – la ‘libertà dei moderni’, consistente «nell’attribuzione all’individuo di una sfera di autonomia e di indipendenza dallo Stato e nella protezione dei suoi beni»81. La rappresentanza consentiva a molti elettori (soggetti economicamente centrali nelle società di riferimento), quindi, uno spazio di desiderata separatezza dal coinvolgimento diretto nella cosa pubblica, ove dedicarsi alla propria crescita economica rassicurati dalla presenza di rappresentanti nella sede di dibattito e decisionale per eccellenza (il Parlamento) impegnati nell’approvazione di norme giuridiche conformi al perseguimento dei loro interessi di classe.
Un rilevante cambio di prospettiva nel modo di concepire il rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa (e di definire ciascuna singolarmente) si può riscontrare nel passaggio dallo Stato liberale alla forma di Stato di tipo democratico-pluralista. È in questa fase che la natura contrappositiva del rapporto tra le due nozioni cede il passo ad una “tendenza alla riconciliazione”, determinata dalla necessità di strumenti e istituti giuridici maggiormente idonei a collegare le istituzioni e i loro procedimenti a masse di cittadini sino ad allora esclusi dai processi decisionali del precedente Stato “monoclasse” di tipo liberale. La generalizzazione (o, nei casi meno avanzati, almeno l’estensione) del diritto di voto aveva modificato in profondità tanto aspetti legati alla rappresentanza (i partiti politici divengono, da appannaggio del notabilato, partiti di massa), quanto quelli legati alla portata degli istituti di democrazia diretta: si pensi ad esempio al caso italiano, dove proprio ad un referendum (il referendum istituzionale del giugno 1946), per la prima volta a suffragio universale, venne affidata la scelta tra forma monarchica e forma repubblicana (in un contesto di
80 Si tratta in particolare del diritto alla vita, all’integrità fisica e il diritto di proprietà, accompagnati dal
riconoscimento dell’uguaglianza (in senso giuridico-formale e non sostanziale), della libertà di pensiero, di religione, di espressione, di associazione, e dal diritto all’elettorato attivo e passivo.
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riedificazione morale e materiale del paese, in cui muoveva i primi passi l’imminente processo costituente repubblicano e democratico).
L’integrazione tra istituti di democrazia diretta e di democrazia rappresentativa si è però concretizzata in disposizioni costituzionali che hanno continuato a marginalizzare la prima in favore della seconda, così che (più che di integrazione) sembra maggiormente opportuno parlare di un tentativo di temperamento della rappresentanza attraverso inserimenti “accessori” – spesso occasionali o eventuali – di democrazia diretta.
Tra questo tipo di esperienze è possibile ricordare il caso italiano, ove la Costituzione predispone strumenti quali la petizione (art. 50), l’iniziativa legislativa popolare (art. 71) e l’istituto referendario (art. 75 nel caso di quello abrogativo di legge statale e art. 138 Cost. per quello previsto – in forma eventuale – all’interno del procedimento di revisione costituzionale). L’attuazione di tali strumenti è risultata difficoltosa, minata soprattutto dall’assenza di norme che rendano obbligatoria la conclusione del procedimento di presa in considerazione di petizione e iniziativa legislativa popolare e dall’elevata manipolabilità dei quesiti referendari.
L’unica esperienza attualmente interessata in modo stabile dal ricorso agli strumenti di democrazia diretta (data la frequenza di tale regolare del ricorso) è rappresentata dalla Confederazione elvetica, dove essa trova un riscontro strutturato a tutti i livelli di governo (nazionale, cantonale e comunale) e dove a caratterizzare il ricorso ai suoi strumenti tipici è la possibilità, per i cittadini, di bloccare una legge o una modifica della costituzione decise dal Parlamento, mediante referendum, o di ottenere una modificazione della legislazione esistente (o della stessa Costituzione) attraverso lo strumento dell’iniziativa popolare. In relazione alle modalità di voto si segnala che due Cantoni (Glarona e Canton Appenzello Interno) presentano una votazione di tipo tradizionale, il c.d. Landsgemeinde (mediante alzata di mano), mentre negli altri Cantoni sono disposti strumenti di voto per corrispondenza o al seggio.
Interessante è anche come tra gli istituti di democrazia diretta possano rientrare anche quelli orientati alla revoca popolare del mandato di un dato rappresentante eletto. Tipico di alcuni Cantoni svizzeri è l’Abberufungsrecht, attraverso il quale un certo numero di cittadini può sottoporre a proposta di revoca il Parlamento e, in alcuni casi, il Consiglio esecutivo del Cantone. Un istituto analogo è previsto negli Stati Uniti, dove
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assume il nome di recall e prevede la possibilità che una certa percentuale di elettori possa chiedere la rielezione di un singolo (parlamentare, magistrato o funzionario elettivo). Ricorrendo a tale istituto si è proceduto, nel 2003, con le elezioni governative della California per eleggere il governatore della California, a seguito della petizione per il recall dell’allora Governatore in carica, Gray Davis.
A caratterizzare la democrazia diretta è dunque il fatto che, a differenza di quanto avviene nella democrazia rappresentativa, i membri del corpo sociale non si trovano nell’obbligo delegare la propria porzione di sovranità (e dunque il proprio potere politico), disponendo di mezzi e strumenti volti all’esercizio diretto di essa, proponendo e votando le norme giuridiche (o l’espunzione di esse dall’ordinamento, come nel caso del referendum abrogativo), senza la mediazione di rappresentanti. Non è di poco conto il fatto che ciò possa valere (sia pur in modo eventuale, qualora i voti favorevoli espressi dai rappresentanti raggiungano la maggioranza richiesta dal procedimento c.d. “aggravato”).
Naturalmente non mancano critiche a questo modello (specie da parte dei sostenitori della rappresentanza), culturalmente fondate sulle considerazioni di Constant e, ancor di più, su interpretazioni di queste che risultano piegate alla volontà dell’utilizzatore politico di turno, dopo che l’autore è stato fatto «oggetto di una serrata strumentalizzazione ideologica per tutto il Novecento»82.
Agli scettici verso l’estensione del ricorso agli strumenti di democrazia diretta hanno risposto diverse teorie recenti (molte delle quali orientate verso approcci non solo teorici, ma anche operativi). Tra queste spicca la teoria di Murray Bookchin (con riguardo alla possibilità di implementazione di tali istanze nelle realtà contemporanee), il quale – alla luce di criteri quali efficienza e praticabilità – concepisce, quali spazi ideali per questo tipo di gestione della cosa pubblica, territori e realtà circoscritti, come collettivi, quartieri, paesi, riuniti in federazioni orizzontali, tali da garantire una partecipazione effettiva, efficiente e popolare (un modello indubbiamente interessante come spunto per la gestione dei problemi derivanti da globalizzazione e crisi
82 Per un approfondimento sul punto, si veda G.SCIARA, “Recenti studi sul pensiero politico di Benjamin
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economica, nel pieno rispetto e con fini di collaborazione verso le comunità locali più varie).
A caratterizzare una democrazia di tipo rappresentativo, invece, è il fatto che gli elettori selezionano, attraverso lo strumento del voto, i loro eletti perché essi li rappresentino, nelle sedi decisionali preposte, con lo scopo di governare e legiferare. Da rilevare come il citato strumento del voto, con il quale si fa coincidere l’atto più significativo della democrazia rappresentativa, non vada tanto inteso come uno strumento volto al concorrere a determinare una data politica pubblica, una norma, un provvedimento o una qualsiasi decisione, ma sia da intendere come uno strumento volto alla mera selezione (elezione) di coloro che saranno chiamati a decidere in concreto (con conseguente separazione della sovranità in due componenti scisse: da un lato la sovranità intesa come titolarità formale di se medesima, che rimane sempre in capo ai cittadini, mentre, dall’altro, possiamo osservare come l’esercizio della sovranità – ossia l’atto concreto del decidere – venga così trasferito in capo ai soli governanti).
Quanto appena detto affonda le sue radici nella teoria Kelseniana (che ha costituito la base teorica delle forme contemporanee di democrazia rappresentativa), la quale assume, quale elemento essenziale della democrazia reale, il metodo di selezione dei rappresentanti, e cioè l’elezione: la democrazia rappresentativa si distingue, in buona sostanza, per le regole specifiche che presiedono e caratterizzano la selezione delle élites di governo (concentrate, appunto, sul momento elettorale e sulla rappresentanza).
L’aspetto cruciale è, come indicato dall’aggettivo “rappresentativa”, quello della rappresentanza, e si presenta storicamente attraversato da due grandi questioni, delle quali la prima concerne i poteri del rappresentante, mentre la seconda il contenuto della rappresentanza. Il primo aspetto si pone il problema di come, qualora Tizio si trovi a rappresentare Caio, lo rappresenti effettivamente; due sono le opzioni emerse nel divenire storico moderno e contemporaneo: o in qualità di delegato (ossia come semplice portavoce, il cui mandato è, in misura variabile, limitato e revocabile qualora esercitato contravvenendo il contenuto del mandato) o in qualità di fiduciario (con il potere di agire, in questo caso, con una certa libertà, sulla base della legittimazione scaturita dalla fiducia dei rappresentati, dei quali può interpretare gli interessi operando senza vincolo di mandato, con un apprezzabile margine di discrezione). Il secondo
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aspetto indaga invece il ruolo che viene a rivestire il rappresentante rispetto ai rappresentati: il primo può infatti rappresentare i secondi con riguardo ai loro interessi particolari o col fine di dare risposta loro interessi generali di cittadini.
Ciò detto, è facile delineare il rapporto che si instaura fra rappresentanza degli interessi particolari e figura del delegato e, simmetricamente, fra rappresentanza degli interessi generali e ruolo del fiduciario. In quest’ultima tipologia di rapporto risiede l’essenza intima della democrazia rappresentativa: il rappresentante, in un ordinamento politico di questo genere, è infatti caratterizzato da due tratti tipici. Il primo pertinente al fatto che, godendo della fiducia degli elettori, una volta eletto perde cospicuamente responsabilità di fronte all’elettorato, divenendo non revocabile (o comunque molto difficilmente). Il secondo riguarda invece il fatto che il rappresentante non è responsabile proprio in quanto chiamato a difendere l’interesse generale, e non quello degli elettori: i rappresentanti – non rappresentando una categoria, ma gli interessi generali – hanno finito per costituire una categoria a sé stante, quella dei politici di professione (ampiamente descritta già da Weber, che coniò il termine), sempre più distante da un raccordo concreto con la società civile e le sue esigenze.
Quest’ultima considerazione (unita al fatto che le forme di partecipazione tradizionali, per prime quella partitica e quella elettorale, costituiscono la base della macchina democratico-rappresentativa, senza ulteriori aperture ai destinatari delle politiche) è il prodromo della comprensione della crescente disaffezione (se non in alcuni casi rifiuto) verso il modello rappresentativo. Di qui lo sviluppo di un sentito bisogno – da parte dei governati – di forme nuove di partecipazione, volte alla ri- consegna al cittadino del ruolo di soggetto attivo nelle decisioni di pubblico interesse: a tale esigenza tentano di dare risposta gli strumenti della democrazia partecipativa e della democrazia deliberativa, concepibili come possibili risposte alle “sfide aperte” dal cammino rivolto alla «democratizzazione della democrazia (U. Allegretti)», in vista di un concreto allargamento della partecipazione dei cittadini.
Si ribadisce che queste due tipologie non vanno interpretate alla luce della convinzione (spesso ideologica e aprioristicamente antisistema) che esse possano divenire alternative rispetto alla democrazia rappresentativa (né alle specificità degli istituti diretti), ma che invece possano co-adiuvarla e integrarla, giacché non mettono in discussione l’indefettibilità delle sedi costituzionali della rappresentanza, ma ne
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auspicano un’efficace operazione di adeguamento ai mutamenti e ai bisogni della società (attraverso la pratica di un metodo inclusivo e pluralista di coordinamento e attivazione dei processi).