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4.1 Il dibattito tra la scuola classica e la scuola positiva

Nel 1890 entra in vigore il codice penale Zanardelli attuando i principi liberali di quella che convenzionalmente viene chiamata “scuola classica del diritto penale”, scuola proiettata verso la prospettiva garantista tracciata dal pensiero illuminista. Negli stessi anni di elaborazione del codice si consolida un ulteriore e non meno importante indirizzo ideologico e culturale, espressione della cosiddetta scuola positiva, che ha nel giurista Enrico Ferri il suo esponente di massimo spicco. Relativamente al processo di codificazione, quest’ultimo studioso prende una forte posizione di contrasto lamentando la repentina conclusione dei lavori e la mancata valutazione delle sue proposte. Si apre pertanto un acceso dibattito che vede le due scuole contrapposte. La scuola classica, che si esprime attraverso il pensiero di Francesco Carrara, rivendica una forma di maggiore continuità rispetto ai principi espressi dall’illuminismo schierandosi contro quell’impostazione utilitarisica che aveva caratterizzato il pensiero liberale alla fine del settecento e promuovendo la sostituzione del concetto di utile sociale con una visione metafisica e astorica del diritto penale269. La scuola classica si fa infatti promotrice di un sistema di diritto penale scientifico, astratto ed immutabile, indipendente dalle contingenze politiche e sociali, e ancorato ai valori della ragione assoluta270. «Tutta la immensa tela di regole che col definire la suprema ragione di vietare, di reprimere, e di giudicare le azioni dei cittadini, circoscrivere entro i dovuti confini la potestà legislativa e giudiziaria – deve infatti secondo Carrara - risalire, come alla radice maestra dell’albero, ad una verità fondamentale»271. Questa verità è - prosegue ancora il Carrara - che «il delitto non è un ente di fatto, ma un ente giuridico [….], perché la sua essenzialità deve consistere impreteribilmente nella violazione di un diritto»272.

Secondo questa visione la scienza del diritto penale fonda il suo rigore non sul metodo sperimentale (come le scienze naturali), bensì sul fatto di operare con concetti precisi e rigorosi perché razionali ed universali basandosi non su un codice derivante dall’arbitrio e

269 C. F. GROSSO , Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra 800 e 900, in Storia

d’Italia,Torino 1997, p. 11.

270 Ibidem.

271 F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, vol. I Lucca 1889 pp. 27-

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dalla volontà umana, ma su un codice eterno di ragione273. Su questa base il diritto penale, sganciato dalle contaminazioni del mondo e della politica e dalle tensioni sociali, viene presentato come un sistema che trova in se stesso e nella costruzione razionale degli istituti generali e speciali la sua ragion d’essere, a prescindere dalle finalità alle quali tendono concretamente le legislazioni nella seconda metà dell’Ottocento274.

Contrariamente la scuola positiva, con l’opera di Lombroso, Ferri e Garofalo, valuta il reato da una prospettiva sostanzialmente diversa. Questo è infatti ricondotto in una concezione deterministica della realtà, nella quale l’uomo risulta inserito, e di cui il suo comportamento è, in fin dei conti, espressione. Il reato è un fatto umano individuale casualmente determinato e la misura della pena risponde al principio della “pericolosità sociale” e non più alla gravità del fatto commesso.

La Scuola positiva traspone nel diritto penale i fermenti sollevati dagli studi naturalistici e da una cultura che ambisce darsi dimensioni europee, sulla scia dei profondi rivolgimenti operati da uomini come Comte, Darwin, e Spencer. La figura del delinquente sbiadisce dietro l’atomizzazione del delitto e la pretesa di ancorare la giustizia penale ad un’idea assoluta, configge con un metodo che si dichiara agnostico verso tutto ciò che trascende l’esperienza275. Il diritto penale si spoglia della sua «metafisicità» accantonando progressivamente i concetti di «colpa» e di «retribuzione». Riecheggia il principio che nessun condannato è colpevole, perché il suo delitto è figlio dei condizionamenti socio- economici che ne hanno determinato la genesi. La pena, pertanto, non può fungere da retribuzione di un fatto sganciato dalla colpa, perché se non c’è imputabilità, non c’è castigo276.

L’attenzione è rivolta alla pericolosità sociale del reo, intesa come vera e propria patologia da curarsi con appropriati trattamenti. Secondo Ferri, infatti, l’antisocialità è «determinata da tendenze congenite per atrofia del senso morale, oppure da condizioni psicopatologiche clinicamente precisate, o ancora da prevalenti influenze dell’ambiente familiare o sociale»277. La sanzione di conseguenza è un mezzo giuridico di difesa contro il delinquente che va riadattato alla vita sociale. Cambiano completamente i presupposti della responsabilità penale: i classici sostengono infatti che il reo è libero di scegliere fra il bene e il male, cioè fra l’osservanza o la violazione del diritto, e, se si sceglie il male, la

273 M. A. CATTANEO, Pena diritto e dignità umana, Torino 1990, p. 8. 274 C.F. GROSSO, Op., cit., p. 12.

275 E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria. Bologna 1980, p. 24. 276 E. FASSONE, Op., cit., p. 27.

277 E. FERRI, Relazione al progetto preliminare del codice penale in ID., “La scuola positiva” Torino

punizione deve essere proporzionale alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito commesso e la pena in tale contesto assolve unicamente ad una funzione retributiva. I positivisti affermano invece l’esigenza di comprendere il reato non arrestandosi di fronte alla tesi indimostrabile di una causazione spontanea dello stesso attraverso un atto di libera volontà, ma cercando di ritrovare tutto il complesso delle cause nella totalità biologica e psicologica dell’individuo, e nella totalità sociale in cui la vita dell’individuo viene determinata278. Diventa prioritario il concetto di difesa sociale: laddove viene meno l’elemento della pericolosità la pena stessa potrebbe infatti essere derogabile. Si introduce un elemento di flessibilità, non legato alla “clemenza” dell’autorità, ma all’oggettiva e contingente condizione psichica e sociale del giudicato ed è così che si arriva ad ammettere che la condizione di recupero sociale diventa condizione del diritto di punire. La sanzione preventiva è specificatamente destinata a rimuovere le cause della devianza e della conseguente pericolosità sociale dell’autore del reato e la sua durata deve necessariamente essere indeterminata nel tempo. Alla tradizionale sanzione a termine fisso della scuola classica, proporzionata alla gravità del reato, viene pertanto sostituita una misura di difesa sociale “che non deve avere un termine prefisso ma durare tanto tempo quanto sia necessario perché l’individuo divenga adatto alla vita libera; e quando esso sia incorreggibile deve durare a tempo assolutamente indeterminato279.

A chiusura del lungo dibattito tra le due scuole viene promulgato il codice Rocco che risente inevitabilmente dell’influenza ideologica di entrambi gli orientamenti teorici. Si afferma pertanto un sistema duale diviso tra il concetto di responsabilità individuale (libero arbitrio) e di pericolosità sociale (prevalenza di fattori socio-ambientali). Questo fa sì che nel sistema sanzionatorio sia prevista, da un lato, l’applicazione di una pena retributiva e, dall’altro, l’applicazione di quelle che vengono definite misure di sicurezza che rispondono al criterio preventivo280.

278 A. BARATTA, Criminologia critica e critica del diritto penale, Bologna, 1989, p. 33. 279 Cfr. E. FERRI, Relazione al progetto preliminare del codice penale, Milano 2004.

280E. DOLCINI, voce Codice Penale, in Dig. Disc. Pen., Torino, 1994, pp. 270-271. Sull’adesione

espressa del legislatore del 1930 al general-prevenzionismo, si espresse lo stesso ministro Guardasigilli: “Delle varie funzioni, che la pena adempie, le principali sono certamente la funzione di prevenzione generale, che si esercita mediante l’intimidazione derivante dalla minaccia e dall’esempio, e la funzione cd. satisfattoria, che è anch’essa, in un certo senso, di prevenzione generale, perché la soddisfazione che il sentimento pubblico riceve dall’applicazione della pena, evita le vendette e le rappresaglie” (Relazione al Re sul codice penale) come si può notare, al momento retributivo viene assegnato un ruolo non autonomo, “ma strumentale rispetto all’obiettivo dalla prevenzione generale” (G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2001, p. 648). Si veda a questo proposito di S MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, Op., cit., p. 89. L’autore riferendosi a Roxin, afferma:“Considerazioni di prevenzione generale o speciale, potrebbero, infatti, portare all’inflizione di una sanzione sproporzionata, mentre la retribuzione di colpevolezza, legando l’entità della pena alla