• Non ci sono risultati.

Riflessioni a margine di una riforma

6.3 L’esperienza Italiana

6.4 Riflessioni a margine di una riforma

A questo punto diventa doveroso soffermarsi, ancora una volta, sul distacco che ormai si è palesemente creato tra la mediazione “pura” e la mediazione penale. Il distacco si evidenzia nel momento in cui il principio viene applicato al campo giuridico. È necessario, pertanto, stabilire se ci si è trovati di fronte alla contaminazione di un concetto o allo smascheramento dello stesso. La massima attenzione si è mostrata per una teoria che voleva indicare un percorso per arrivare all’incontro reale tra le parti e creare uno spazio all’interno del quale poter intraprendere un’attività per la risoluzione dei conflitti, che maturano all’interno di determinati contesti376. Si è mostrato interesse per una pratica che è stata traslata nell’ambito penalistico al fine di costruire un’alternativa alla giustizia tradizionale, sebbene le sue origini prescindessero dal contesto giuridico. Nonostante gli sforzi non si è riusciti a dare all’istituto in questione

374 DE LEO; La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive; Milano, 1999; 375 A. CERETTI; Più riparazione meno pena; in www.galileo.it.

la credibilità auspicata, tanto che i sostenitori della cosiddetta mediazione “pura” lamentano la contaminazione dell’istituto che si è irreversibilmente piegato alla logica del diritto.

Il diritto penale rappresenta il mondo della staticità, dei fatti già accaduti di cui si vuole scoprire la “verità”, individuare un responsabile, irrogare una sanzione, il tutto per riaffermare l’ordine stabilito dalla legge377. La mediazione si prefigge, invece, l’obbiettivo di confrontare e comporre verità relative, perché connesse ai vissuti personali dei protagonisti della vicenda e così di entrare all’interno di rapporti vivi, dinamici, e di tentare un incontro personale, che coinvolge, ma allo stesso tempo trascende, l’evento puntuale. È sicuramente molto difficile far parlare tra loro due persone che utilizzano lingue diverse, a meno che una delle due faccia proprio il linguaggio dell’altra. Questo è quello che probabilmente è accaduto nel momento in cui la mediazione è stata inglobata dal sistema penale. Si è raggiunto un compromesso e questo ha reso illusoria l’idea di poter creare un’ alternativa al modello tradizionale di giustizia dal momento in cui la mediazione vi è stata inserita pienamente. Il risultato è che «si osserva il passaggio da una logica di alternativa alla giustizia ad una logica di alternative giudiziarie»378. Nell’ambito del procedimento risulta difficile immaginare, come sia possibile arrivare a quella compartecipazione a livello emozionale e di conseguenza alla comprensione dell’evento medesimo, come viene indicato in ambito teorico. Come evidenziato da Messner, in realtà, la mediazione è orientata primariamente alla soddisfazione degli interessi della vittima, non siamo di fronte a “partner contraenti” che sulla base dell’autonomia privata possono determinare in prima persona, se pervenire ad una risoluzione del conflitto e con che modalità379. Qui si tratta di stabilire unicamente il tipo e l’entità della riparazione che il reo dovrà offrire alla vittima. I ruoli delle parti sono già predefiniti, da un lato la vittima, dall’altro il reo. Non potrà accadere che lungo il percorso di mediazione risulti il reo stesso vittima. Infatti in dottrina si sconsiglia l’utilizzo della mediazione nei reati in cui la posizione della vittima e dell’autore del reato non sono nettamente distinte, ossia quei reati in cui entrambe le parti sono ugualmente responsabili380.

377 G. MOSCONI, La mediazione. Questioni teoriche e diritto penale; in “ Dei delitti e delle pene”; 2000,

III; p 58.

378 A. WYVEKENS, Op., cit., p. 31.

379 C. MESSNER, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale; in “Dei Delitti e del pene”;

2000, III; p. 101.

La mediazione viene proposta, quindi, solo davanti ad un reo che ammette la propria colpevolezza e si dimostri pentito e intenzionato a riparare le conseguenze del suo atto. Ovviamente, da ciò si evince che la questione su chi riceverà giustizia non si pone: se l’assegnazione dei ruoli non è più in discussione, quando la mediazione inizia essa non è che un rituale, un cerimoniale dal finale già prestabilito.

Forse a questo punto potremmo addirittura affermare che risulta difficile contaminare un concetto che in realtà mostra dei punti oscuri, anche se considerato nei suoi aspetti più puri. Se realmente si riuscisse a raggiungere un livello di comunicazione superiore, un incontro a livello del cuore, i ruoli stessi non avrebbero più senso di esistere. Quando invece si sostiene di poter riconoscere la sofferenza dell’alto attraverso il perdono, si presuppone comunque un livello di colpevolezza. Si rientra ancora una volta nella contrapposizione tra ciò che astrattamente è definito “bene” e ciò che è definito “male” utilizzando quelle verità artificiali e del tutto relative che alimentano un diritto in cui la divisione rappresenta la regola e l’unione, l’eccezione. Il perdono è un concetto che male si colloca laddove una fusione reale si vuole raggiungere ma sicuramente risulta estremamente appropriato se lo si applica ad un istituto in cui, il più delle volte, l’autore del reato è costretto a recitare una parte per ottenere un procedimento di indulgenza sottomettendosi alla volontà di un altro uomo che difficilmente si considererà un suo pari. E ancora una volta il timore del castigo, si traduce in quella “minaccia penale” che, in questo caso, induce il reo alla conciliazione. In caso di esito negativo si prevede, infatti, la prosecuzione del procedimento e l’applicazione di sanzioni meno dure ma sicuramente effettive considerando il divieto di sospensione condizionale della pena. Una conciliazione così impostata, non solo risulta ben lontana da quella volontarietà, da quella spontaneità che la dovrebbe contraddistinguere, quanto si caratterizza per essere essa stessa una sanzione, o comunque per avere un valore ad essa equivalente. La pena non è unicamente quella che determina una incidenza sulla libertà personale del reo, pena può essere anche l’imposizione di un’attività riparativa verso la vittima. La finalità perseguita è la stessa, ossia, la ricerca di un riequilibrio dell’ordine violato, ottenibile

sia attraverso l’inflizione della pena propriamente detta, sia attraverso un sacrificio dei diritti patrimoniali del colpevole a favore della vittima381.

La mediazione risulta così uno strumento-sanzione per mettere d’accordo le parti al fine di ottenere un risarcimento o altra modalità compensativa. Gli aspetti materiali, vista la loro centralità, non possono certo essere considerati accessori. Il diritto cerca di stabilire delle certezze di fronte alla complessità dei rapporti e dei conflitti intersoggettivi e questo tentativo necessita di concretezze. Da qui la rilevanza dell’aspetto materiale della riparazione intesa come quel qualcosa che attesta in maniera incontrovertibile che le parti si sono confrontate e hanno raggiunto un accordo talmente soddisfacente da giustificare l’abbandono dell’inflizione di una pena tradizionale. Di fronte agli occhi dell’ordinamento non sarebbe mai sufficiente una maturazione interiore dei due soggetti, un incontro “a livello del cuore” privo di qualsiasi conseguenza, si necessiterebbe sempre di una prova, anche simbolica, perché in questo sistema la materialità equivale a certezza. Non solo quindi l’aspetto materiale, la riparazione, nel procedimento in questione ha carattere fondamentale e non accessorio, ma l’aspetto più propriamente personale, come già evidenziato, non trova reale collocazione. A tutto ciò dobbiamo aggiungere che nell’ordinamento italiano l’opera di conciliatore è affidata direttamente al giudice, quella stessa figura chiamata a irrogare la sanzione in caso di prosecuzione del procedimento per esito negativo della conciliazione. Potrebbe sembrare una contraddizione in termini, ma non lo è, o meglio non lo è nell’ambito della visione prima descritta. Se l’intento fosse stato quello di promuovere un incontro delle parti su un piano interpersonale, interiore, apparirebbe ancor più lampante la assoluta incompetenza del giudice in questione, che per quanti corsi integrativi possa frequentare, non potrebbe mai assumere un ruolo, che difficilmente gli stessi “professionisti” (operatori psico-sociali) possono affermare di svolgere efficientemente. Ma se si tratta di favorire un incontro tra le parti al fine di raggiungere un accordo sull’aspetto della riparazione delle conseguenze del reato, allora la figura del giudice appare appropriata.

381 G. FLORA, 2002, Op., cit., p. 150.