Lo scopo della pena
3.2 La nascita della prigione
Superata la visione puramente afflittiva e vendicativa, escluso ogni ricorso alle punizioni corporali, la prigione si palesa come nuovo modello di sanzione. Questa viene considerata una forma di pena più umana, ma soprattutto più idonea a soddisfare una pluralità di esigenze. La detenzione è infatti in grado di garantire il rispetto del principio di certezza del diritto, in quanto suscettibile di essere rigorosamente misurata nella sua afflittività attraverso la durata del tempo sottratto alla libertà del condannato. La privazione della libertà è prospettabile, inoltre, «come castigo egalitario che accomuna il ricco e il povero, il nobile e il plebeo, il giovane e il vecchio, l’uomo e la donna; e risponde, pertanto, alla esigenza di un trattamento giuridico uniforme che è il riflesso della tutela assoluta di ogni persona quale centro di polarizzazione dei diritti costituzionali inviolabili»198.
Ciò nondimeno la prigione incrementa un sistema che monetizza i castighi in giorni, mesi, anni e che stabilisce equivalenze quantitative delitti-durata. E da qui, probabilmente, l’espressione così frequente, così conforme al funzionamento delle punizioni, benché contraria alla teoria scritta del diritto penale, che si sta in prigione per pagare il proprio debito. Di fatto, attraverso l’opera dei riformatori si predispone un apparato normativo in cui sia il reato, sia la pena attraverso il calcolo del tempo di lavoro passato in carcere, possano essere suscettibili di una rigida valutazione economica (nel senso più ampio che si può dare a questo termine). Del resto, il tempo è denaro. Poiché in una società basata sullo scambio, qualsiasi bene colpito è valutabile economicamente, un tempo determinato da scontare (lavorando) in carcere può ben
196 Cfr, J. P. MARAT, Disegno di legislazione criminale, Milano, 1971, p. 33. 197 C. BECCARIA, Op., cit., p. 119.
ripagare l’offesa commessa199. Il doppio fondamento, giuridico-economico da una parte, e tecnico-disciplinare dall’altra, sono presenti anche nel pensiero di Beccaria: «la pena più opportuna – egli scrive - sarà quell’unica sorta di schiavitù che si possa chiamar giusta, cioè la schiavitù per un tempo, delle opere e della persona alla comune società, per risarcirla, con la propria e perfetta dipendenza, dall’ingiusto dispotismo usurpato sul patto sociale»200. Prelevando il tempo al condannato, secondo i riformatori, si traduce concretamente l’idea che l’infrazione lede, al di là della vittima, l’intera società, ed inoltre questa pratica consente allo Stato di affermare la propria presenza senza intaccare gli interessi di un’economia di mercato indispensabile alla sua stessa sopravvivenza.
Ed è così che la pena si impone come frutto di una scienza dagli effetti minuziosamente calcolati, prefiggendosi di difendere la società dal crimine e da ogni forma di attentato a quei valori fondamentali divenuti irrinunciabili, senza prescrivere una vendetta, o la redenzione di un peccato.
I riformatori affermano che le punizioni vanno eseguite pubblicamente, essendo un esempio per tutti. «Perché ciò accada, è necessario un repertorio molto articolato di pene pubbliche, capaci di rispecchiare le diverse fattispecie di reati, di commutare gli interessi particolari in generali e di trasmettere messaggi di ammonizione visibili a chiunque». É perciò un paradosso che dal XVIII sec in poi si sia invece sviluppato un sistema punitivo in cui la prigione diviene la modalità sanzionatoria applicabile virtualmente a tutti i tipi di reato201.
L’impresa di riforma morale cessa a questo punto di essere un’autodifesa penale, per trasformarsi in un rafforzamento del potere dell’autorità stessa, che partendo dal concetto di «statalizzazione della giustizia», arriva a teorizzare forme di controllo
199 D. MELOSSI - M. PAVARINI, Carcere e fabbrica alle origini del sistema penitenziario, Bologna
1977, p. 109.
200 C. BECCARIA,Op., cit., p. 97.
«panoptico»202, in cui la repressione fisica è progressivamente sostituita da una struttura di dominio dolce, ma estremamente efficace203.
Nel progetto dei giuristi riformatori, scrive Foucault «la punizione è una procedura per riqualificare gli individui come soggetti di diritto»204. I regimi delle prigioni mirano alla correzione dell’individuo, mirano a riqualificare il reo come cittadino, ma la punizione è una tecnica di coercizione, e come tale opera processi di «addestramento del corpo». La prigione interviene mirando ad impossessarsi del corpo del detenuto, a esercitarlo, ad addestralo, ad organizzarne il tempo e il movimento per riuscire infine, a trasformarne l’anima205.
Foucault nelle sue opere evidenzia come il passaggio verso un sistema punitivo razionale e certo, è in realtà una manovra obbligata ai fini della conservazione del potere. La sua analisi mette in evidenza come una società uniformemente punitiva, in cui i castighi risultano inevitabili, necessari, simili, e senza scappatoie possibili, facilita il riconoscimento da parte dei cittadini di un codice morale fatto di principi e valori sui quali fondare la forza politica dello stesso ordinamento giuridico. Ed infatti, il senso di sfiducia nei confronti di un sistema come quello che nell’ancien r ègime, trascinava con sé, centinaia e migliaia di ordinanze mai applicate, di diritti che nessuno esercitava e di regole a cui masse di persone sfuggivano206. Ciò, non poteva assolutamente collimare con le nuove esigenze economiche e soprattutto con il timore del crescere dei movimenti popolari, che rendevano necessario un altro sistema di “quadrettatura” della società e un esercizio del potere ben più sottile e serrato. Proprio per questo, i grandi
202Il panoptismo, inteso come principio di sorveglianza centrale, comincia poco a poco a modificare il
sistema carcerario e l'architettura penitenziaria. Da qui l’effetto del Panopticon: indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicuri il funzionamento automatico del potere. Secondo le parole di Bentham, «Far si che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se è discontinua nella sua azione; far si che la perfezione del potere tenda a rendere inutile la continuità del suo esercizio; che questo apparato architettonico sia una macchina per creare e sostenere un rapporto di potere indipendente da colui che lo esercita».
203 D. GARLAND, Op.,cit., p. 190. Prosegue l’autore: «I rapporti di potere così costruiti sono, in un certo
senso, automatici e oggettivi, dipendono dalla distribuzione degli spazi e dalla visibilità, più che dalla forza o dalla volontà di coloro che ricoprono posizioni di potere».
204 M. FOUCAULT, Op., cit., p. 143.
205 D. GARLAND, Op., cit., p. 187. Vedi a cura di A. BARATTA, Principi del diritto penale minimo. Per
una teoria dei diritti umani, come oggetti e limite della legge penale, in “ Dei delitti e delle pene”, 1985, p. 446, in cui si evidenzia, come in realtà la situazione illustrata, rappresenti in realtà il successo storico dell’istituzione carceraria, se la si studia dal punto di vista delle sue funzioni reali. Essa serve innanzitutto a differenziare ed amministrare una parte dei conflitti esistenti nella società, come “criminalità”, cioè come un problema sociale legato alle caratteristiche personali di individui particolarmente pericolosi, il quale richiede una risposta istituzionale di natura tecnica: la pena, il trattamento del deviante. In secondo luogo il carcere serve alla produzione e riproduzione di “delinquenti” e serve sempre di più, a rappresentare come “normalità” i rapporti di disuguaglianza esistenti nella società, e alla loro riproduzione materiale e ideologica.
rituali del castigo, costituiti dai supplizi destinati a provocare effetti di terrore esemplari ma a cui molti colpevoli sfuggivano, spariscono di fronte all’esigenza di una universalità punitiva che si concretizza gradualmente nel sistema penitenziario207. Il passaggio dalla brutalità delle pene proprie dell’ancien regime alla umanizzazione tanto ostentata dai riformatori è, secondo Foucault, il frutto di un calcolo razionale208. I movimenti di riforma difficilmente sono determinati da petizioni filosofiche o dall’improvvisa preoccupazione per i propri simili. Ma è, piuttosto, il principio fondamentale e ben conosciuto del tornaconto personale che determina l’introduzione di politiche differenti. In termini politici e di interessi di potere l’umanizzazione illuminata è il risultato di un processo di adattamento e di revisione proporzionale all’evoluzione dei processi storici ed in particolare di quelli economici209. Infatti, come Rusch e Kirchheimer210 ci illustrano, verso la fine del XVI secolo, l’economia e lo sviluppo demografico di parecchi Stati europei iniziano a subire mutamenti profondi. In netto contrasto con quanto accadeva nel secolo precedente ci si trova a dover fronteggiare una spaventosa difficoltà nel reperire forza lavoro, idonea a soddisfare le esigenze delle nuove forme di produzione211. Da qui la necessità da parte dei governi, di predisporre politiche sociali che rispondano a queste esigenze. Si tenta pertanto di ovviare il problema con una serie di misure restrittive delle libertà personali per far fronte ad una rarefazione della forza lavoro che stava seriamente compromettendo la stabilità dello stesso ordine sociale. Nell’elaborazione di questa analisi, il contributo di Rusch e Kirchheimer mette in evidenza come il corpo del reo non può essere assolutamente danneggiato, in quanto considerato come un bene collettivo, utile ai fini
207 Ibidem.
208L FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, in Dei delitti e delle pene 1985, pp. 504 -505. L’utilitarismo
penale è a parere di Ferrajoli una dottrina ambivalente. L’autore distingue due differenti versioni, “a seconda- egli scrive- del tipo di scopo assegnato alla pena e al diritto penale”. Prosegue spiegando che “Una prima versione è quella che commisura lo scopo alla massima utilità possibile da assicurare alla maggioranza dei non devianti. Una seconda versione è quella che commisura lo scopo alla minima sofferenza necessaria da infliggere alla minoranza dei devianti. Sta di fatto che a detta dello stesso Ferrajoli le dottrine utilitaristiche dell’Ottocento sono tutte orientate verso modelli correzionalistici o intimidazionistici di diritto penale massimo o illimitato. È questo il periodo storico in cui si incomincia a stabilire un rapporto diretto, tra l’utilità della pena e l’esigenza umanitaria di mitigazione delle pene. Si prospetta la soppressione della pena capitale a favore di pene che ledano la dignità umana il meno possibile ma, allo stesso tempo, si legittima lo sfruttamento del detenuto per un tempo illimitato all’interno di carceri che di umano hanno sicuramente ben poco. I riformatori del XVII sec. rivendicano un esercizio legittimo del potere: «La tirannia fronteggia la rivolta; esse si richiamano l’un l’altra. Doppio pericolo. Bisogna che la giustizia criminale, invece di vendicarsi, finalmente punisca».
209 D. GARLAND, Op., cit., pp. 184-185.
210G. RUSCHE,O. KIRCHHEIMER, Pena e struttura sociale, Bologna 1978, pp. 62 – 64. 211 D. GARLAND, Op., cit., pp. 138-139.
dell’incremento della forza lavoro212. Per comprendere la logica del tempo, basta soffermarsi sulla delibera di istituzione della Zuchthause di Amsterdam, che recita come segue: «Dal momento che numerosi malfattori, perlopiù giovani, vengono giornalmente arrestati nelle strade di questa città e la magistratura esita a condannarli a pene corporali o alla detenzione a vita, la questione è stata posta […] se non sia consigliabile erigere una casa e decretare che i vagabondi i malfattori, i furfanti e qualsiasi altro individuo di questa razza vengano colà rinchiusi e posti al lavoro al fine della loro correzione»213. Ecco perchè la pena non può più essere concepita come distruzione del corpo per vendetta o come esempio e si concretizza nell’infliggere la maggiore sofferenza possibile senza danneggiare il corpo214.
Attraverso le analisi politico-sociologiche di Rusch e Kirchheimer ed in forma ben più sottile attraverso il contributo di Foucault, si interpreta il ricorso alla punizione alla stregua di uno strumento legale necessario per il raggiungimento di un più ampio fine. Un fine che risponde alla logica del controllo, esercitabile in modo efficace allorchè la paura e il timore derivanti dalla forza coattiva del diritto, svolgono un ruolo di primaria importanza.