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LINEAMENTI DI ANTROPOLOGIA DEI DISASTR

1.2 La dimensione umana del disastro

A partire dalle considerazioni generali precedenti sul rapporto dell’uomo con l’ambiente, possiamo ora cominciare a delineare la dimensione sociale e culturale di quel fenomeno “ambientale” e quell’evento “temporale” che è il disastro per mostrare la necessità di un approccio antropologico al suo studio. È all’interno di questa complessa e articolata riflessione antropologica sullo stare al mondo dell’uomo e sulla sua definizione come essere sociale e culturale nell’interazione con il suo ambiente – e le sue minacce – che è possibile comprendere l’importanza di questa prospettiva nello studio dei disastri.

1.2.1 Limiti e fallacia della “risk analysis”

Con l’espressione risk analysis si designa un approccio disciplinare al problema delle catastrofi con gli strumenti tipici della matematica, giungendo all'elaborazione di un sistema idoneo alla rilevazione oggettiva dell’accettabilità del rischio. Essa è posta in connessione con processi di tipo economico e industriale e/o con fenomeni naturali come cause potenziali di un disastro. I principi sui quali si basa sono:

• che l'opinione pubblica è composta da individui singoli e autonomi, che pongono in essere un atteggiamento razionale nel valutare la possibilità che si verifichino determinati rischi ai quali sono esposti;

• che il rischio sia un costrutto concettuale di tipo probabilistico, descrivibile mediante la frequenza attesa degli eventi indesiderati;

• che per la valutazione dei beni individuali si debba ricorrere a un calcolo costi/benefici

basato sulla loro “monetarizzazione” (Marinelli 1993).

La produzione storica del concetto di disastro è essenzialmente di tipo fisico e viene inteso come “evento grave, improvviso ed imprevisto”. L'analisi delle condizioni di pre- impatto si basa unicamente sul miglioramento dei modelli esplicativi geofisici, degli strumenti di rilevamento e delle carte di zonazione del pericolo sismico e dei movimenti di massa. Conseguentemente la gestione sociale del rischio ambientale appare come profondamente asimmetrica e fondata sulla presunta egemonia del sapere tecnico-scientifico che, in quanto tale, viene comunicato e imposto alla popolazione. Il presupposto essenziale è che questo tipo di sapere possegga la capacità di condurre ad una comprensione completa della natura e alla sua gestione attraverso l’applicazione di modelli probabilistici. Il tutto trova le sue salde radici sulla convinzione, di derivazione positivista, che la conoscenza tecno-ingegneristica sia in grado di offrire una comprensione completa e oggettiva della natura tale per cui sarà possibile gestirla con sicurezza (Ligi 2009).

Questo modello teorico, infatti, lega il concetto di rischio a quello di probabilità, si basa sulla frequenza degli eventi e giustifica le scelte e i comportamenti individuali come il prodotto di un minuzioso calcolo costi/benefici. I soggetti, pertanto, determinano le loro scelte in base a parametri di natura meramente monetaria, calcolandone guadagni e perdite. Se un individuo non è in grado di valutare in maniera adeguata i rischi delle proprie decisioni, significa che la sua razionalità presenta una carenza conoscitiva. Questo conduce a una nuova dicotomia tra esperti e popolazione che richiama e ripropone quella tra primitivi e moderni: da un lato la gente comune (primitivi) produttrice di luoghi comuni, credenze (sempre false), comportamenti irrazionali che compongono il pensiero sociale; dall'altro gli esperti (moderni) portatori di dignità scientifica e di verità, fondata sulla ridotta possibilità di errore scientifico, sulle conoscenze (sempre vere) e sui comportamenti razionali che compongono il pensiero scientifico. Per quanto un approccio tecno-centrico allo studio e alla valutazione delle catastrofi sia indispensabile, esso da solo presenta dei limiti dal momento che, in numerosi casi (terremoto in Giappone del 1995 e in Cile del 19607) esso si è rivelato inadeguato per comprendere, prevedere ed evitare un disastro (Alexander 2000). Infatti, sottovaluta e non considera affatto la natura sociale della razionalità (Shrader-Frechette 1991; Lupton 1999; Caplan 2000) e l’esistenza di diverse forme di pensiero razionale all’interno della modernità.

L'errore fondamentale di quest'approccio, secondo le teorie più aggiornate, sta nell’applicare ai calcoli una finzione concettuale, dettata dalla convinzione della superiorità del calcolo matematico e dell’applicabilità delle leggi fisiche. Secondo questa teoria il 7. Per una più esaustiva trattazione di questi casi cfr. Ligi G, 2009, Antropologia dei disastri, Laterza, Roma- Bari, pag. 12-13

soggetto che percepisce il rischio è provvisto di una razionalità oggettiva, grazie allo studio della quale è possibile elaborare una valutazione delle scelte e dei comportamenti da questi ultimi messi in atto. Tutto ciò comporta una deculturalizzazione degli individui, considerati essere immuni dall'influenza del contesto e totalmente slegati dai principi morali, sociali e politici e dalle dinamiche economiche insiti nel sistema socio-culturale al quale appartengono. Gli individui vengono cristallizzati entro modalità di agire e pensare universali e prevedibili che producono comportamenti razionali posti in essere sulla base di calcoli meramente matematici e logici, senza tener conto della natura sociale-culturale della razionalità (Ligi 2009) ed estromettendo le variabili che le credenze, la morale, la politica e l'etica possono apportare.

Il tentativo di formulare un metodo oggettivo per ridurre e rendere accettabile l'incertezza rispetto al futuro si è scontrato con la pratica impossibilità di ricondurre entro un unico schema analitico la pluralità dei processi di percezione e imputazione sociale del rischio. Anche quando il costo per superare il gap di conoscenza non è sopportato dal singolo e l'informazione aggiuntiva diviene disponibile, ciò non modifica necessariamente i comportamenti nel senso previsto dal modello della scelta razionale (Trentini 2006: 70).

Da quanto argomentato emerge un altro dato importante, già posto in evidenza a suo tempo da Durkheim e Mauss: i metodi del pensiero scientifico occidentale sono essi stessi delle istituzioni sociali. Non esiste una distinzione netta tra pensiero sociale e pensiero scientifico, per la semplice ragione che gli stessi scienziati fanno parte di gruppi in cui si produce e si scambia un certo sapere secondo certi costumi di pensiero e in base a determinati modelli culturali (Kuhn 1978). È, inoltre, fondamentale tener conto del fatto che, nel momento in cui il salto di conoscenza viene colmato e gli individui apprendono le informazioni necessarie per una scelta che conduca a precisi benefici, non è detto che il loro pensiero si modifichi secondo il modello previsto dalla risk analysis. Al contrario, spesso accade, come già precedentemente dimostrato, che molti soggetti continuino a mantenere comportamenti pericolosi nonostante siano a conoscenza dei rischi che comportano. Questo perché la razionalità è una costruzione sociale, un artificio che le singole società sottopongono a un processo di naturalizzazione. Di conseguenza, anche il concetto di sicurezza è un prodotto culturale: ogni società stabilisce ciò che è abbastanza sicuro, andando così a determinare i criteri utili nella costruzione di un sistema di contenimento dei rischi (Schwarz, Thompson 1993; Lupton 1999).

fenomeni naturali e sul proprio destino, è oramai una favola scientifica, emerge sempre più chiaro come in realtà il mondo sia sempre più ignoto e incomprensibile. L'accumulazione progressiva e la sempre più accurata specializzazione delle tecniche di conoscenza scientifica hanno acuito lo iato tra la consapevolezza individuale e le leggi che ordinano l'eco-sistema. Il sapere scientifico appare come una formula magica perché pretende che l'uomo interagisca con un mondo sempre più artificiale e mediato, di cui abbiamo scarsa esperienza. Così riporta in proposito Ciavolella (2013: 159):

Se la scienza ha raggiunto livelli inimmaginabili nel poter modificare la vita degli uomini, dal punto di vista individuale essa rimane perlopiù un sapere e una forza occulta, a causa della complessità crescente del pensiero scientifico e della realtà in quanto modellata dalla tecnica.

A partire dalla valutazione della scienza come una “stregoneria superiore” (Gramsci 1975) ha preso piede, dagli anni Settanta, la consapevolezza che lo sviluppo della scienza e della tecnologia aveva reso ancor più vulnerabile la vita umana (Ciavolella 2013: 159). Il sapere scientifico richiede un atto di fede: credere a ciò che essa propone come verità, senza porsi ulteriori domande. L'approccio tecnico-ingegneristico, smascherato ormai della sua infallibilità, necessita, per essere efficace, di un'adeguata integrazione (mai di una sostituzione) con l'approccio socio-culturale per cogliere le variabili contestuali dalle quali dipendono le reazioni sociali che si attivano durante e dopo l'accadimento, in funzione del tipo di cultura specifico posseduto da ciascun sistema sociale.

1. 2. 2 Dimensione socio-culturale e dimensione socio-economica del disastro

Frequenti sono i casi nei quali per la popolazione locale si rivela impensabile abbandonare il proprio luogo di residenza, nonostante la consapevolezza dell'alto grado di vulnerabilità alla quale si è esposti. Per quanto questa ostinazione possa risultare paradossale, inspiegabile ed irrazionale ad una più profonda ed attenta analisi, la decisione di non abbandonare il proprio villaggio, la propria terra, la propria casa, i propri affetti e le proprie relazioni, pur consapevoli del rischio al quale si è esposti, deve per forza essere spiegata da fattori socio-culturali (Ligi, 2009). Questo sia nei casi in cui le persone siano state avvertite dagli esperti del pericolo, sia nei casi i cui le comunità conservino nella propria memoria storica il ricordo di precedenti catastrofi abbattutesi in quei luoghi (Signorelli 1992).

Questo atteggiamento è stato definito da Roberto Almagià (1910), geografo italiano esperto di frane del territorio italiano, come “attaccamento al loco natio”, sentimento che ha profonde radici sociali,in quanto connesso a fattori socio-culturali e a rapporto indissolubili di memoria e identità collettiva con il territorio. Sebbene si tratti di un concetto elaborato agli inizi del Novecento, sembra essere ancora di attualissima applicazione. Così afferma Almagià:

Per quanto la carità del loco natio – in alcuni casi mirabilmente tenace – renda restii gli abitanti ad abbandonare il proprio paese, anche quando questo, sbranato dalle frane, appaia inesorabilmente condannato a rovina, tuttavia a lungo andare la necessità si impone. Talora un nuovo paese sorge in località più sicura, ma il più vicino possibile, magari su un altro fianco della stessa collina (Almagià 1910: 391-392).

Il nesso uomo-luogo genera una forma di razionalità cognitiva per la quale la percezione del rischio è da rapportare al rifiuto di abbandonare il proprio luogo d'origine, perché in esso si ritrovano i riferimenti culturali e sociali, i legami, le relazioni, la storia, gli affetti che gli individui sono renitenti ad abbandonare in quanto consapevoli di andare incontro ad una forma di de-culturazione, molto più difficile da affrontare e gestire di una catastrofe.

Questa riflessione sull’attaccamento al luogo natio per persone esposte ad un rischio di disastro è solo un esempio per insistere sul bisogno di iscrivere l’analisi dei disastri nel quadro del rapporto culturalmente mediato e storicamente costruito di una comunità con il proprio luogo. Così conclude Ligi (2009: 48):

La corretta comprensione di un disastro dipende anche dall'interpretazione dello spessore storico, economico, affettivo, simbolico, spesso esplicitamente religioso e rituale, del nesso uomo-luogo che caratterizza ciascuna comunità. Si tratta allora di mappare, etnografare e comprendere forme altrettanto differenti, specifiche e locali di percepire e valutare il rischio.

[…] Sono proprio questi orientamenti “culturali”, in senso antropologico, che plasmano la

vulnerabilità sociale di una comunità rispetto ad un certo tipo di evento estremo.

Altri esempi possono però fornirci altri elementi di riflessione. Se talvolta le popolazioni rifiutano di lasciare il loro luogo natio per attaccamento, è anche vero che spesso, in caso di calamità, la comunità locale o alcuni settori di essa, siano impossibilitate a lasciare i propri luoghi nonostante siano minacciate da un cataclisma. Semplicemente, esse non se ne possono andare, poiché non hanno altra alternativa che vivere esposti ad un rischio. È il caso soprattutto di gruppi che si trovano “ai margini”, abitano aree entro le quali le condizioni di

subalternità , così come le dinamiche socio-economiche, rendono le loro vite precarie in una in una società al contempo inclusiva ed escludente. Questo ci fa pensare, dunque, che oltre agli aspetti socio-culturali sono le strutture della disuguaglianza socio-economica che devono essere ugualmente prese in considerazione. Questa prospettiva esplicativa può essere avvicinata all'approccio analitico di Paul Farmer (1996), per il quale gli atti di comunità emarginate si configurano come scelte obbligate, dettate dalla “violenza strutturale”: una tipologia di violenza che opera sugli individui ponendo dei limiti alla loro capacità di scegliere e agire e che si esprime nei termini della disuguaglianza sociale.

Abbiamo visto che, per spiegare le scelte, i comportamenti e le strategie di azione dei soggetti di fronte ad un rischio di disastro, esistono teorie esplicative differenti, ma che non si escludono a vicenda. Per fare un esempio di quanto appena esposto farò riferimento ad una mia ricerca di campo, effettuata nel 2009, sulle risposte socio-culturali elaborate in risposta allo tsunami del 2004 in Sri Lanka. Uno degli obiettivi di questa ricerca era di comprendere perché i locali continuassero a costruire case e alberghi a ridosso della battigia, per quanto consapevoli del rischio cui andassero incontro. Sebbene in una visione tecnicistica sembri (apparentemente) logico, dopo uno tsunami, aspettarsi come prima reazione un ripiegamento volontario dei gruppi verso l'entroterra, che, oltretutto, era stato incentivato dal governo srilankese tramite finanziamenti per chi si fosse trasferito almeno a tre chilometri nell'entroterra, la risposta offertami dagli interlocutori è stata spesso la stessa: per la loro quotidiana sopravvivenza essi devono continuare ad avere a che fare con i turisti, i quali esprimono specifiche richieste riguardo al loro luogo di vacanza, che deve rispecchiare determinate aspettative “esotiche” e “paradisiache”. Per rispondere alle esigenze della domanda turistica, unica fonte certa di sostentamento per numerose famiglie, essi devono rimanere dove maggiore è la possibilità di fare business. Eloquente è il frammento di un'intervista sviluppata nel 2009 col vecchio proprietario di un albergo, ormai fatiscente perché le sue mura vengono inesorabilmente erose dalla forza delle onde, tanta è la vicinanza al mare:

D: why did they build the house in the same place close to the beach? R: yeah, no beaches is nice and people like to live by the beach, no? D: people live like... or people want to stay here for the tourist?

R: oh, like...here we are living from the our business our lifes...is from tourism, you know, if I live like five hundred meters in land and I build the restaurant nobody will come, no? tourist come because I have the restaurant on the beach and you know…and the guest house and

people like to stay on the beach no?

D: yeah, but you know, that is very dangerous for you, for your parents…so… R: yeah, that’s I have to move in land!

D: I understand…yeah! It would be better if you build a new house may be… R:...one kilometre inside…

D: yeah! Why you? R: I need…that’s what I…

D: you, but your parent are here, is dangerous for them!

R: yeah!yeah! is quiet, can just make it easy rebuild the house you need a lot of money and […] we have our business, our living and all the things here, no, you know8.

Se i turisti continuano a richiedere alberghi con viste a picco sull'oceano, tra l'ipotetica e remota probabilità che si verifichi nuovamente uno tsunami e la quotidiana necessità di sopravvivere, non v’è scelta, anche a scapito della propria vita.

Così, alla luce di quanto affermato, potremmo asserire che gli attori sociali spesso risultano, in tutta la loro drammatica precarietà, vittime di violenza strutturale, che non lascia loro possibilità alcuna di poter decidere delle proprie sorti, ma anzi li costringe a compiere azioni e assumere atteggiamenti che si rivelano pericolosi per la loro incolumità. Se è vero, infatti, che i fattori culturali hanno un ruolo nel rendere gli individui vulnerabili ai disastri, è vero anche che in molti scenari essi hanno un potere limitato o incompleto. La vulnerabilità al disastro è, certamente, un fattore culturalmente determinato, ma presenta, anche, delle cause di carattere sociale e politico.

Per un'analisi completa ed efficace dei disastri è necessario, dunque, valutare l’equipollenza di tutti gli elementi coinvolti in questo processo, partendo dal presupposto che i fattori socio-culturali sono diversamente calibrati nei differenti contesti e periodi. Inoltre, consapevoli dell'esistenza precaria che alcune soggettività sono costrette a condurre, è urgente operare analisi più approfondite e sistemiche sulle dinamiche di potere insite nel sistema di gestione dei cataclismi per valutare chi è maggiormente esposto al rischio e per quali ragioni, onde identificare ed emarginare le forze coercitive che cospirano per promuovere la differenza e la sofferenza.

1.2.3 Disastri e precarietà esistenziale

Nelle analisi predittive e risolutive delle catastrofi esiste sempre uno scarto di

comprensione tra la valutazione scientifica, basata sulla misurazione aritmetico-quantitativa della gravità del disastro e l'atteggiamento posto in essere dai soggetti coinvolti che trova formazione nell'esperienza. Due posizioni che, se correlate nell'analisi, porterebbero ad una migliore comprensione delle catastrofi.

Come si vedrà più avanti, i disastri sono eventi particolarmente drammatici in quanto scatenano, innanzitutto, uno sconvolgimento del mondo esteriore al quale si somma lo stravolgimento del mondo interiore di chi vi rimane coinvolto. Ne consegue uno shock antropologico (Beck 1995) che trasforma irreversibilmente il modo di pensare e di comportarsi degli individui, non solo riguardo alla tecnologia e all'ambiente, ma anche alle concezioni e ai riferimenti al sé identitario e alla propria cultura. Ligi (2009: 108) asserisce:

I terremoti (come pure gli altri eventi naturali estremi e i disastri tecnologici) provocano altrettanto gravi terremoti invisibili, che scuotono il mondo interiore delle persone coinvolte, così come distruggono il loro microcosmo esterno. Si generano sindromi da stress post- traumatico che accompagnano una sorta di shock antropologico.

Poiché tale, il disastro trasforma in maniera irreversibile le modalità con cui le persone pensano la tecnologia e l'ambiente, in riferimento all’incontestabilità del sapere scientifico riguardo alle catastrofi e alle esperienze degli individui esposti a questa tipologia di rischio (Beck 1995).

L'evento calamitoso, causando una vera e propria crisi di senso9 e il collasso del

quotidiano (De Martino 1959), accentua e rende ben manifesto un grave senso di disagio e incertezza, esperito ed espresso in molteplici e differenti modi da chi vi rimane implicato. Il senso d'impotenza di fronte alla forza devastatrice della natura si oppone tenacemente alla voglia di tornare alla “normalità". Ogni disastro, infatti, non frantuma unicamente il “circostante esperienziale” dei soggetti, ma ne distrugge anche i fondamenti culturali. Immediatamente sono le idee di normalità e quotidianità della vita a venire messe in discussione. Questo aspetto, nel caso del terremoto emiliano, è emerso in maniera notevole dalle parole degli interlocutori. Paradigmatico in proposito il frammento di un'intervista a Norma (il nome è inventato come tutti quelli che figureranno in questo lavoro), dalla voce profonda e ruvida, che nella sua corporeità riporta i segni della precaria esistenza della sua fisicità. Mentre mi racconta di quella terrificante seconda scossa fuma in continuazione delle sigarette, il cui odore mi pizzica le narici, e lo fa con avidità e convinzione, quasi ogni boccata le desse la forza per continuare il suo racconto. I gesti nervosi che accompagnano la sua narrazione rivelano la sua emozione, malcelata dietro una rigidità che richiama un profondo 9. Si tornerà su questo concetti di crisi nel Capitolo 2, par. 2.3, pag. 133.

senso di dignità e una verace/impellente necessità di narrazione:10

No! La tua quotidianità sparisce di colpo e diventa un’altra…quotidianità. Alla prima tempesta è venuto giù tutto, perché poi anche lì (ride) bisogna vedere come uno si attrezza o meno eh…eeeeh eccetera eccetera (pausa). Dopo abbiamo tir…cominciato a tirar bene i teli, dopo…man mano…impari vivendo quali sono le cose giuste da fare, no? Come sempre poi nella vita impari, non nasci mai imparato…impari strada facendo. Che certo errori li paghi salati.

Il lavoro antropo-poietico di conferimento di senso a questi eventi da parte delle comunità implica uno sforzo culturale notevole. Da tutte queste ragioni si desume che per arrivare a comprendere gli effetti che una calamità produce nel momento del suo impatto su una comunità è necessario sottoporre ogni azione umana, tanto individuale quanto collettiva, ad attenta indagine (Ligi 2009).

Al verificarsi di un cataclisma, conseguentemente all'esperienza fisica del dolore e dell'incognita della morte, scaturisce l’inevitabile riflessione sul senso del male, ossia sulle spiegazioni che i sopravvissuti elaborano sulle sue cause. Questo sapere, culturalmente e