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LINEAMENTI DI ANTROPOLOGIA DEI DISASTR

1.3 Verso un’antropologia dei disastr

In questa sezione, ci si occuperà di definire più precisamente il disastro attraverso i diversi approcci teorici e interpretativi per poi sottolineare la specificità della tradizione antropologica fino alla costituzione di una vera propria branca disciplinare chiamata

“antropologia dei disastri”.

1.3.1 Il dibattito sui disastri prima della “scienza” e delle scienze sociali: tra religione e filosofia

In Occidente ad aver influenzato maggiormente l'interpretazione e valutazione degli eventi catastrofici è la religione cristiana e il suo tentativo di stabilire una connessione persuasiva tra male fisico e male morale. Secondo questa visione, al verificarsi di un disastro, la ricerca delle cause si traduce in un processo di attribuzione di colpa che tende a spostare la questione sul piano dei valori e delle responsabilità individuali. La metafisica cristiana si regge su due principi fondamentali:

1- l'identificazione logica tra male e peccato;

2- la convinzione che l'uomo non sia in grado di redimersi servendosi unicamente delle proprie forze.

Leibniz a riguardo si pone la medesima domanda che tempo addietro si erano posti Agostino e Plotino 17: “Si Deus est, unde malum? Se Dio esiste, da dove nasce il male? E viceversa “Si

Deus non est, unde bonum? Se Dio non esiste da dove nasce il bene? Secondo il filosofo:

Noi che facciamo derivare tutto da Dio, dove troveremo la sorgente del male? La risposta è che essa deve essere cercata nella natura ideale delle creature, in quanto questa natura è presente nelle verità eterne che si trovano nell’intelletto di Dio, indipendentemente dalla sua volontà (Teodicea).

Egli dunque giunge alle stesse conclusioni cui era giunto Agostino: il male ha una natura puramente privativa, in quanto esprime la semplice mancanza di perfezione che necessariamente differenzia la creatura dal creatore. Il male non esiste come entità fisica, non ha un suo status ontologico. Plotino paragonava il bene al propagarsi della luce di una candela e il male non era altro che “laddove il bene (la luce) non arrivava”, ossia era una mancanza di bene. Come per Plotino, anche per Leibniz a esistere è solo il bene, l'essere, la perfezione; ma vi sono gradi diversi di essere, di bene, di perfezione. Dio permette i mali per realizzare un bene maggiore (Agostino) e le imperfezioni di una parte permettono di apprezzare ancor più la bellezza dell'insieme. Il male, essendo “mancanza di” è dunque puramente negativo: non 17. Leibniz nel 1697 scrive un trattato intitolato Saggi di teodicea. Sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male.

essere, non bene, imperfezione. Tutto ciò definisce il male metafisico, il male che nasce dalla mancanza di essere. Dal suo essere castigo e punizione deriva il valore formativo, educativo e pedagogico della sofferenza, anche in termini di messa alla prova della fede (Ligi 2009: 118) e il più grande esempio di questo aspetto è la passione di Gesù. In questa visione il male morale si configura come un abuso della libertà di Dio; ma se Dio non lo permettesse porrebbe dei limiti a quella libertà da lui stesso “donata” all'uomo. Egli dunque tollera l'abuso per permettere la libertà, bene maggiore; la libertà morale si presenta come la possibilità di commettere il male morale. Le obiezioni al dispositivo cristiano che interconnette simbolicamente male morale e male fisico dà origine a quella che verrà considerata la filosofia morale moderna.

Più in generale è proprio un terremoto a segnare la cesura tra il pensiero filosofico di tradizione cristiana e la filosofia moderna di cui l’Illuminismo rappresenta la più alta espressione. Alle ore 9,30 dell’1 novembre 1775 un terremoto di magnitudo 9, propagatosi da un punto a 200 chilometri a ovest-sud ovest di Capo San Lorenzo, nell’Oceano Atlantico, investì la città di Lisbona, in Portogallo, radendone al suolo buona parte e procurando la morte a quasi 100.000 persone, un terzo della popolazione cittadina. Trenta minuti dopo una serie di tre grandi tsunami si abbatterono sulla costa portoghese, devastando gran parte del territorio. Così afferma Ligi (2009: 119):

Il terremoto di Lisbona fu percepito dai contemporanei come un evento che, se da un lato riproponeva antichissimi enigmi (il senso del male, la giustizia di Dio, le colpe umane, ecc.), dall'altro determinava un modo del tutto nuovo di affrontarli.

Da questo terribile evento nasce e si sviluppa un approccio illuminista e post-metafisico legato ai concetti di rischio, di probabilità e di causalità, ricercando nella catastrofe una responsabilità umana. Il celebre dibattito tra Voltaire e Rousseau è rivelatore su questo passaggio. Per il primo il Bene e il Male esistono, non già come innocenza e colpa, bensì come felicità ed infelicità. Legati unicamente a una forma di causalità universale umanamente incontrollabile, presentano un irriducibile carattere di necessità di tipo meccanico in quanto “il Male non punisce, il Bene non ricompensa” (Barthes 2002: 84). L'umanità, inerme di fronte a questo meccanismo di cui essa stessa fa parte integrante, può unicamente tentare di comprenderlo tramite l'uso della Ragione. Di contro Rousseau riafferma la totale autonomia dell'uomo e la sua assoluta responsabilità per ciò che gli accade. Per il filosofo, l'ipotesi di Dio non solo non è più necessaria, ma funge da ostacolo alla corretta comprensione del mondo e dei nessi causali dai quali scaturiscono fatti di qualsivoglia specie. Rousseau, in una lettera

inviata il 18 agosto del 1756, entra in polemica con Voltaire, autore - all'indomani del sisma di Lisbona - del “Poema sul disastro di Lisbona”, manifesto del disincanto, della disperazione, del pessimismo. Il primo sembra negare la derivazione unicamente naturale delle catastrofi: non questa «aveva riunito in quel luogo - scrive Rousseau a Voltaire - ventimila case di sei o

sette piani». Se «gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto». È all'uomo, al particolare sviluppo storico della società,

quindi, che Rousseau imputa la radice della catastrofe.

Appare, dunque, chiaro come Rousseau, con uno scarto politico, elabori una disamina sorprendentemente innovativa che gli permette di distaccarsi dal dibattito tradizionale della teodicea, tanto da coloro che con Leibniz giustificano il male come un dettaglio nell'armonia prestabilita del migliore dei mondi possibili, opera senz'altro di Dio, quanto da coloro che si abbandonano a un disincantato, amaro pessimismo verso l'incontrollabilità della natura. A loro contrappone la speranza nell'unica delle catastrofi a sfondo ottimistico, la rivoluzione. Dalle riflessioni di Rousseau emerge il tema della vulnerabilità sociale (la quale verrà trattata più avanti) che ci offre una visione esterna del fenomeno secondo la quale le condizioni precedenti al disastro vanno comprese ed analizzate integrando le variabili fisiche con quelle socio-culturali. Ciò appare come preludio all'elaborazione del concetto di “incubazione sociale di un disastro”. Eppure gli storici hanno messo in luce come l’apprensione per gli imprevisti e le misure di prevenzione protezione ponessero già degli interrogativi ampiamente dibattuti ben prima del periodo illuministico (Revet 2009) come rimarca Ligi (2009: 121):

In Europa, nella seconda metà del Settecento, in un clima particolarmente drammatico, in cui gli animi erano già stati scossi dal terribile terremoto che, meno di dieci anni prima, nell'ottobre del 1746, distrusse Lima, la reazione intellettuale al disastro si configura dunque come l'ultima significativa ribellione all'ingiustizia divina e alle astruse ragioni teologiche invocate per comprendere il male: nasce qui la modernità.

L’antropologia dei disastri ha inoltre dimostrato che i molteplici scenari, dove s’incontrano quadri di pensiero predominanti per l’interpretazione e la comprensione delle catastrofi, entro un dato contesto e ventaglio di azioni messo in atto dalle diverse soggettività, potessero coesistere all’interno della stessa società.

1.3.2 Le origini: dall’approccio scientifico a quello antropologico

All’interno del grande mare della “conoscenza occidentale”, i disastri vengono generalmente definiti “naturali”, in quanto le cause fisiche sono riconducibili ad imprevisti di origine naturale, malgrado stiano aumentando sempre più i casi di disastri che potremmo definire di origine antropica. In generale, le catastrofi rimangono, ancora oggi, oggetto d’analisi delle così dette «scienze dure», come le Scienze della terra e l’Ingegneria (Gilbert 2009). Tuttavia, per le innegabili ripercussioni socio-culturali, nel XX secolo, esse sono diventate oggetto di studio anche delle scienze sociali, soprattutto dopo lo tsunami che nel 2004 ha colpito il Sud-Est asiatico e il passaggio dell’uragano Katrina in Louisiana nel 2005. La geografia, la sociologia, la psicologia, la storia, l’antropologia e la scienza politica hanno ampiamente contribuito a costruire il campo delle scienze sociali che si occupano dello studio di questi eventi e dei rischi “naturali”, secondo un approccio incentrato sull’uomo, piuttosto che sulla fisica dell’evento (non dimenticando però di considerare anche quest’ultima nell’analisi). L’origine di questo campo si articola su due branche: una centrata sulle conseguenze degli eventi calamitosi, l’altra piuttosto sulle loro cause (Revet 2011). Questa classificazione non è, però, rigida e ultimamente alcune ricerche si muovono lungo le due diverse direttrici.

La prima branca prende vita dai lavori delle scienze sociali apparse negli Stati Uniti, ai tempi della Guerra Fredda, con la nascita dei Disasters Studies. Essa consta di numerose ricerche che pongono l’accento sulle conseguenze sociali degli avvenimenti catastrofici, considerando le loro cause come esterne alla società coinvolta. Il loro contributo proviene dall’osservazione e analisi delle modalità con le quali gli individui e le società percepiscono il pericolo e reagiscono alle catastrofi, rientrando entro il quadro più ampio delle ricerche delle scienze della terra o delle scienze ingegneristiche che elaborano una prospettiva incentrata sull’imprevisto.

Le prime ricerche sistematiche sui comportamenti delle popolazioni in situazioni di crisi, finanziate dal Dipartiment of State degli Stati Uniti, dal National Academy of Sciences, dal National Opinion Research Center (NORC) e dall’University of Chicago, sono state condotte tra il 1949 e 1954. Centrate su ricerche di campo condotte in Nord-America, esse si ispirano ai lavori di autori che tra gli anni Venti e Trenta sono stati pionieri nell’applicazione dell’approccio socio-antropologico allo studio dei disastri; sopra tutti: Prince (1920), che ha lavorato sull’esplosione di un carico di munizioni nel porto di Halifax (Nuova Scozia, Canada), avvenuta il 6 dicembre del 1917; Carr (1932) che si è interessato allo studio dell’impatto delle diverse componenti della cultura in riferimento alle risposte sociali alle

catastrofi e Sorokin (1942) che si è concentrato sull’analisi degli effetti del disastro sull’organizzazione socio-politica. Le ricerche sui disastri promosse dal NORC avevano come fine pratico comune la valutazione degli eventi catastrofici, di origine naturale o antropica, come situazioni “di laboratorio”, sulla cui base si sarebbe arrivati a comprendere ciò che sarebbe avvenuto a livello socio-culturale nella società nord-americana in caso di attacco nucleare. Il sociologo C. Fritz, allora direttore del programma di ricerca, e alcuni ricercatori come E. Quarantelli, R. Dynes e J. Haas, si sono interessati, ad esempio, alle possibilità di panico o ai fattori che avrebbero favorito o no i saccheggi al verificarsi di questa eventualità (Fritz, Marks 1954). Il loro contributo è antropologicamente fondamentale, in quanto presenta per la prima volta quelle caratteristiche di ricerca che diverranno peculiari nello studio dei disastri, soprattutto in ambito statunitense, quali: l'invio di équipe sul luogo del disastro durante l'emergenza; l'impiego di tecniche di indagine qualitativa per la raccolta dei dati; l'interazione costante e diretta con gli interlocutori (Ligi 2009: 29). Queste ricerche si sono meglio strutturate, con la creazione nel 1963 del Disaster Research Center (DRC), inizialmente stanziato a Ohio State University e successivamente all’ University of Delaware: A partire dal 1962, il centro è stato finanziato dall’Ufficio della Difesa Civile. Il DRC è ancora oggi un centro molto attivo e produttivo, che influenza notevolmente gli approcci e le teorie attuali riguardo allo studio socio-culturale delle catastrofi a livello internazionale, attraverso strumenti quali l’International Research Committee of Disasters, l’International

Sociological Association (ISA) e la rivista International Journal of Mass Emergencies and Disasters. Tuttavia questi lavori sono ancora principalmente incentrati su ricerche di campo

eseguite in ambito nordamericano.

La seconda branca degli studi sui disastri nasce negli anni Settanta come reazione alla prima. A partire da alcune ricerche sviluppate nei Paesi del sud, designati a quel tempo come appartenenti al “Terzo Mondo”, alcuni autori hanno proposto una critica radicale della lettura imprevisto-centrica, mettendo in luce piuttosto i fattori strutturali e storici che costituirebbero, secondo questo approccio, le cause profonde delle calamità naturali (Copans 1975). La svolta disciplinare degli anni Settanta va di pari passo a un’internazionalizzazione crescente degli attori colpiti dalle catastrofi, per quanto concerne sia la sicurezza che la prevenzione (Revet 2009).

Sintetizzando, potremmo affermare che mentre, a livello teorico, gli studi degli anni Settanta sono stati dominati dall’elaborazione e dall’applicazione di un approccio interessato alla vulnerabilità, negli anni Ottanta-Novanta si è affermata l’idea del rischio, mentre gli inizi del Duemila sono stati caratterizzati dall’attenzione ai cambiamenti climatici e allo sviluppo

del concetto di resilienza. Potremmo concludere affermando che gli approcci non tecnicistici allo studio delle catastrofi sono essenzialmente tre (Ligi 2009: 28):

• sociologico, che affonda le sue radici soprattutto negli studi dei già citati Prince e Sokorin e che verrà potenziato e affinato dagli studi del DRC, soprattutto con i contributi di Quarantelli;

• geografico, che prese vita soprattutto dalle ricerche di Gilbert White, promosse dall'Institute of Behavioral Science di Boulder in Colorado e che ispireranno l'apparato teorico della Scuola ecologica di Boulder;

• antropologico, che trova le sue radici nei lavori di Wallace e che si basa sulla teoria culturale del rischio elaborata da Douglas e da Wildavsky.

Quanto argomentato mostra che, seppur ancora poco conosciuto, l'approccio antropologico allo studio dei disastri ha radici teoriche profonde e autonome, perché vanta quasi un secolo di storia, ricerche e teorizzazioni.