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Vulnerabilità sociale e vulnerabilità ambientale

LINEAMENTI DI ANTROPOLOGIA DEI DISASTR

1.5 Vulnerabilità sociale e vulnerabilità ambientale

è il frutto di una profonda ed elaborata costruzione operata con cognizione dai soggetti, i quali si auto-qualificano attraverso il senso che l'ambiente stesso incorpora (Massey, Jess 2001). Quest’ultimo è un contesto in continua mutazione che media il nostro stesso modo di concepirlo, che influenza le nostre percezioni e le nostre scelte. La vita umana è il risultato di questo scambio, con la consapevolezza che nulla è indifferente a qualsiasi altra cosa, intatto e senza contatto, ma che ogni parte contribuisce al tutto. La capacità umana di agire, o meglio, ri-agire o no di fronte ad un evento catastrofico non si manifesta mai con le stesse modalità, assume invece i connotati di pluralità multisituate, le quali dovrebbero essere osservate ed analizzate considerando alcuni aspetti di fondamentale importanza, quali:

• il livello di resistenza delle risorse naturali, in riferimento alla loro accessibilità o no; • le risorse culturali, sociali, politiche ed istituzionali, sufficientemente o insufficientemente valide;

• l’accesso all’informazione, sia essa adeguata o no; • la specificità del rischio a livello locale e globale; • le disponibilità tecnico-economiche;

• gli interventi esterni (pre o post-evento).

Il venir meno di uno di questi aspetti comporta la generazione di una potenzialità/vulnerabilità sociale, culturale, fisica, che potrebbe trovare le sue radici nelle condizioni pre-impatto, nel momento dell'impatto e successivamente durante l'emergenza e la ricostruzione. Nel caso di uno svantaggio si avrà una parziale o totale incapacità di re-azione di fronte alla catastrofe. Tuttavia il sistema culturale al quale una certa società fa riferimento solitamente produce un imput innovativo (ad esempio un feedback) atto alla risoluzione della crisi conseguente ad una catastrofe. La vulnerabilità, dunque, non è unicamente rilevabile in presenza di un rischio, in quanto il suo costituirsi precede la possibilità di quest'ultimo e si conclude prima e/o dopo il rischio, o potrebbe anche rimanere tale.

Il termine “vulnerabilità” deriva dal latino “vulnerare”, a sua volta derivante dall'etimo

vulnus che letteralmente significa: ferita o lesione, la quale può essere di natura fisica,

psicologica ma può essere estesa anche al venir meno o alla negazione di un diritto. Questa prima definizione letterale ci offre l'idea di vulnerabile come di tutto ciò che è esposto alla possibilità di essere ferito, violato, leso, colpito, percosso, offeso, tagliato, danneggiato. Così la parola vulnus sembra rinviare tanto all’azione del ferire (la causa, il colpo inferto da chi ha il potere e la possibilità di offendere recando un danno), quanto allo stato del soggetto che subisce (l’effetto, la violazione del corpo, dell’anima, degli affetti e simili.); il significato si estende anche agli aspetti psicologici ed emotivi. Un primo punto fermo derivante

dall’etimologia è legato all’aspetto di possibilità e non di stato, in quanto vulnerabile è chi potrebbe, potenzialmente, essere ferito, non chi è certamente ferito. Ad esempio i rifugiati politici, i richiedenti asilo, gli apolidi sono i migranti “forzati”, coloro che non hanno scelta: devono separarsi dalla propria casa, dai propri affetti, dal proprio paese, senza potervi fare ritorno. In tali storie è implicita una potenziale vulnerabilità; il senso di non appartenenza, in cui la persona si trova, lo espone a un rischio di disagio psicologico legato alla difficoltà di riconoscersi e di essere riconosciuto. Ma anche chi viene coinvolto da un disastro subisce la perdita del luogo di origine, delle proprie ritualità culturali, del proprio quotidiano. Si ritrovano catapultati nell'obbligo di dover gestire molteplici difficoltà di adattamento, l'angoscia di districarsi attraverso le norme nazionali ed internazionali che coordinano la fase emergenziale e la ricostruzione, il travaglio di dover seguire la scrupolosità fine a se stessa della macchina burocratica, la quale comporta spesso disagi, malesseri e rallentamenti.

Utilizzato in principio nel campo della fisica a indicare l'esposizione alla possibilità che un evento si presenti o ri-presenti in futuro, in generale, il concetto di vulnerabilità può indicare una condizione contraria a quella di sicurezza. In senso stretto, invece, esso rimanda particolare condizione di un individuo e/o società che può essere ferito o attaccato facilmente in quanto esposto all'attacco di una forza agente esteriore (Ciavolella 2013: 140).

La vulnerabilità ambientale –intendendo per ambiente la natura come luogo più o meno circoscritto in cui si svolge la vita dell’uomo, degli animali, delle piante – viene intesa sia in considerazione delle trasformazioni operate dall’uomo e dei nuovi equilibri, sia come patrimonio da conservare e preservare dalla distruzione, dalla degradazione e dall’inquinamento.

La vulnerabilità sociale è un concetto entrato nel lessico corrente in questi ultimi anni, in relazione alla tematica del rischio e del disastro. Partendo dalla constatazione che le cause dei fenomeni catastrofici sono la conseguenza di processi sociali e strutturali, si è giunti alla consapevolezza che l'evento calamitoso dovrebbe essere osservato, analizzato e studiato in rapporto al contesto sociale col quale impatta e viceversa (Ligi 2009). Infatti la vulnerabilità sociale è il risultato della somma di tante vulnerabilità individuali e soggettive, per cui davanti allo stesso rischio essa si presenta differentemente da soggetto a soggetto, per quanto la soggettività sia il frutto di una selezione di informazioni prodotte a livello sociale e si calcoli in funzione di fattori differenti: probabilità che un evento calamitoso si manifesti; intensità del suo accadere; fragilità e/o incapacità da parte dei soggetti colpiti di reagire ad esso (Ciavolella 2013: 141). Se da un lato si ha la percezione di vulnerabilità sia a livello individuale che sociale, dall’altro si osserva la parziale incorporazione del dato scientifico in essa presente, che si intreccerà con la conoscenza locale riguardo ai disastri e dalla cui

elaborazione conseguirà una determinata e specifica percezione del rischio, e un altrettanto particolare grado di vulnerabilità.

In senso strettamente scientifico la vulnerabilità è un concetto che ben si esplica in relazione ai concetti di adattamento e resilienza. Questo approccio rimanda all'idea di “sopravvivenza da evento” e presuppone l'esistenza, precedente alla catastrofe, di un equilibrio funzionale finalizzato al mantenimento dell'equilibrio, delle funzioni e degli organi della società. Esso implica inoltre che l'agire umano segua un meccanismo di azione-reazione, togliendo ai soggetti la possibilità di intervenire in maniera ponderata e attiva sulle cause che provocano condizioni disastrose. Gli individui vengono in questo modo costretti a rintracciare unicamente in se stessi il perché della propria condizione e le modalità attraverso le quali fronteggiare un cataclisma (Ciavolella 2013: 142). Nel linguaggio scientifico si tende a ridurre la vulnerabilità ad una mera strategia d'adattamento, intesa come messa in atto di piani, azioni e misure che permettano di ridurre al minimo conseguenze e danni causati da possibili cambiamenti climatici ed ambientali. Quest'operazione riduce la vulnerabilità territoriale e quella socio-economica a dipendere unicamente dai cambiamenti climatici, depoliticizzando le cause dell'instabilità umana e facendo gravare sul singolo la responsabilità per la propria condizione (Thomas 2008). Afferma Ciavolella (2013: 143):

Volendo far coincidere sicurezza e tolleranza, liberalismo e solidarietà civile, ci si orienta verso forme post-ideologiche di centrismo che evocano principi nominali, come i diritti essenziali, senza proporre un'idea di società differente.

Se si vuole comprendere una catastrofe nella sua complessità non si può prescindere dal considerare nell'analisi anche le nuove opportunità di sviluppo sociale, politico ed economico che potrebbero presentarsi in conseguenza delle trasformazioni del clima, dell’ambiente, della società e dei suoi effetti a livello collettivo ed individuale.

Dalla riflessione sui differenti significati assunti in base alle esperienze degli stessi vulnerabili, potremmo sintetizzare in tre aspetti (negativi) il concetto antropologico di vulnerabilità:

- non esiste un concetto universale e generico riferito in astratto ad una comunità; - non esiste come fenomeno a se stante, senza specificare chi è vulnerabile e a che cosa; - non è mai definibile in maniera irreversibile e immutabile, in quanto essa è storicamente e contestualmente variabile.

ambientale dato dalla logica dicotomica che distingue in maniera netta la sfera umana da quella ambientale (natura-cultura). Quest'idea non sembra però in grado di orientarsi verso lo sforzo di un approccio etico-olistico di una sfera in cui, al contrario, i vari elementi di cui è costituito il mondo si fondono, si congiungono, interagiscono, creando legami e relazioni reciproche.

Nel pensiero contemporaneo è ancora presente l'influenza del retaggio, da un lato della riflessione cartesiana, che profetizza una necessaria e netta scissione tra la mente e il corpo - riferendo la prima alla sfera spirituale, propria dell'uomo civilizzato, il secondo a quella naturale, posseduta dall'uomo primitivo- e dall'altro della teorizzazione kantiana, anch’essa dicotomica, che intende l’uomo come mente morale della natura e in possesso di un valore intrinseco in sé in quanto soggetto morale. Risulta, perciò, “umano-centrico” e alquanto riduttivo considerare che il resto (l’ambiente) sia un semplice strumento dell'uomo. La consapevolezza che bisogna conquistare deriva dalla constatazione che abbiamo a che fare con un unico ecosistema la cui caratteristica di separazione tra i diversi elementi che lo costituiscono è fonte anch’essa di vulnerabilità (Iovino 2004).

Dinnanzi a sistemi complessi, come quelli attuali, la logica preponderante si basa spesso sulla linearità deterministico-aristotelica che limita o devia il valore di una congiuntura tra elementi. Inoltre, Risulta, però, alquanto pericoloso parlare in termini dicotomici in quanto, lungi dall’idea che ormai possa essere una comoda scorciatoia mentale, essa stessa non è in grado di sostenere la logica necessaria alla complessità del mondo odierno, sempre molteplice. Il sistema di separazione tra umano e naturale, e la conseguente divisione mente/corpo, appaiono deficitari e poco efficaci, in quanto, nel dividere, esaltano gli schematismi propri di ciascuna cultura. Risulta, quindi, sempre più evidente che il nostro sistema sta rispondendo al problema del rapporto con l'ambiente in maniera inappropriata, sia dal punto di vista globale che locale, producendo una fusione del livello di conoscenza scientifica con la soggettività culturale. Insomma, tranne idee, teorie, modelli, non si riesce a produrre quanto necessita per la riduzione di vulnerabilità, ovvero distruggere i processi di differenziazione in tutti i livelli del sociale. A pagare maggiormente il costo delle conseguenze di questa inerzia sono coloro che partono svantaggiati, quelli culturalmente incapaci di reagire a certi disequilibri (per cause intrinseche ed estrinseche), o meglio che sembrano non reagirvi secondo schemi universalmente imposti dal potere dominante, in quanto elaborano modalità di reazione considerati inadatti e inefficaci perché non in grado di incorporare l’elemento globale. Il prezzo più caro della vulnerabilità si ha con la creazione di diversificate o più gravi diseguaglianze sociali, politiche ed economiche in coloro la cui capacità adattiva è stata forzatamente respinta e soffocata da meccanismi non accessibili, di fronte ad un rischio

comune a tutta l’umanità (Ligi 2009). Il pericolo più sentito è quello che rende impossibile qualsiasi decisione in merito. La stessa incertezza decisionale concorre, dunque, alla vulnerabilità. Potremmo affermare che, di fronte all’incertezza decisionale, si rafforza la tendenza a non scegliere affatto (Marinelli 1993).

Altre componenti che agiscono sulla vulnerabilità, oltre all’indipendenza degli elementi e allo svantaggio socio-economico, sono, in termini molto generici, la paura, l’incertezza, i luoghi comuni ai quali la gente è tenuta a credere e il fatto che sempre più la valutazione del rischio sia esternata o congegnata da approcci unicamente tecnico- ingegneristici, che davanti ad una catastrofe non prendono in considerazione l'elemento fondamentale: l'uomo e le sue costruzioni culturali. Il successo e l'efficacia nei casi di prevenzione del disastro o post-re-azione ad esso, si ha solamente rimuovendo le barriere all’adattamento, le quali sarebbero ben più visibili in seno ad uno spostamento culturale, ad una condivisione degli intenti e della scelte delle strategie da seguire, alle quali dovrebbero aderire tutte le soggettività coinvolte in forme analoghe e paritarie, in rapporto al proprio contesto e ad una maggiore consapevolezza delle ragioni che spingono i soggetti alla manipolazione di ciò che è parte della propria e personale esperienza. Risulta evidente dunque che le risposte umane ai cambiamenti climatici sono il prodotto della vulnerabilità e della sensibilità di un'unica biosfera, all'interno della quale sono presenti ed agiscono differenti fenomeni complessi, mentre le strategie a loro destinate sono ancora, purtroppo, esclusivamente e fallacemente unilineari, universalmente elaborate e globalmente imposte.