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Trauma: un concetto polisemico e multifattoriale

PER UN'ARCHEOLOGIA DELLA CATASTROFE RIGENERATIVA

2.1 Trauma: un concetto polisemico e multifattoriale

È possibile considerare il termine “trauma” eludendo le differenze che distinguono le diverse modalità di essere mondo, al di là della comune accezione di vittima? È utile considerare le radici sociali, politiche e storiche del trauma, della sofferenza, della memoria, della precarietà e delle discriminazioni, ineluttabili conseguenze delle catastrofi, senza ridurre il dolore di chi ne rimane coinvolto ad un principio psichico imposto e categorizzante che appiattisce le specificità e ignora i vincoli della Storia ai quali i soggetti sono sottoposti? L’antropologia è capace di ascoltare e supportare gli oppressi senza sminuire “il loro tormento

e la loro inquietudine entro il perimetro di un concetto, uno solo: trauma?” (Beneduce, 2010:

4).

In questo paragrafo si proporrà una riflessione sul concetto di trauma, con focalizzazione sugli elementi che interessano l'analisi antropologica. Non si opererà, dunque, una trattazione dettagliata di questa tematica da un punto di vista psicologico (anche se si dialogherà con questo approccio) in quanto non è l'obiettivo principale in questo lavoro. Si tenterà di epurare il concetto di trauma da superficialismi che spesso ne sminuiscono il senso, dimostrando quanto esso sia fondamentale per la comprensione di come i soggetti implicati nei disastri pensino ed interpretino la propria esperienza traumatica, di come essi la utilizzino per rigenerarsi e di quanto sia importante elaborare nuovi paradigmi e nuove modalità dal carattere interdisciplinare, ma accomunate dalla pratica dell'etnografia, che riportino queste esperienze rispettandone il senso per chi le ha vissute.

Le catastrofi sono accadimenti con caratteristiche peculiari che squarciano profondamente le persone, sia a livello individuale, nell'interiorità dei soggetti, sia a livello

collettivo nei rapporti tra gli individui che fanno da collante socio-relazionale. Un trauma conseguente ad una catastrofe sconvolge violentemente le vite dei soggetti e, riverberandosi a livello sociale, provoca una rottura del contratto fiduciario con la società di appartenenza - il quale permette a ciascuno di riconoscersi come parte di una comunità (Demaria 2012: 12). In questo modo vengono messi in discussione i valori che accomunano gli individui entro una particolare forma di umanità. Ma quali concetti possono rientrare nella categoria di trauma? Quali definizioni sono utili all'analisi antropologica e quando e dove si sviluppa il filone di studi ad essa dedicati?

Etimologicamente il termine traûma (di derivazione greca) è l'atto risultante dal

titròskein che significa “ferire”, nel senso di “perforare”, “bucare”. Così riporta Demaria

(2012: 27) in una nota:

Traûma, secondo i lessici etimologici, si forma a partire dal radicale tro- ma su analogia con traûma (“frammento, pezzo, brano”; il verbo è thràuo, “faccio a pezzi”). Dunque, se si volesse speculare, il traûma è contemporaneamente l'esito concreto del “forare/ferire” (il “foro”, la “ferita”) ma anche il “frammento” che ne rimane, il residuo concreto dell'atto traumatico.

É a partire dal V secolo a. C. che esso assume il significato di “sconfitta”, “disfatta”. In questa significazione il vocabolo acquista senso sia metaforico che collettivo come “ferita pubblica” e quindi si avvale di un senso condiviso e collettivizzato. Conservando il primo significato riportato, il termine comincia, a metà dell'Ottocento, ad essere utilizzato in ambito clinico per designare esperienze di sradicamento e di shock, favorite dall'industrializzazione e dalla presenza sempre più invadente delle macchine e delle tecnologie nella vita dei soggetti (Ivi: 28). Luckhurst (2008) riferisce del carattere oscillante del lemma riportando il suo significato di fattore che provoca da un lato una cicatrice fisica, un'ingiuria incisa sul corpo; dall’altro una ferita psichica che penetra fino al recondito. In questo senso esso: “apre in modo violento

dei passaggi tra sistemi fino a quel momento separati, creando connessioni imprevedibili che confondono e turbano” (Ivi: 3).

La base teorica da cui partire per comprendere il trauma e le sue diverse significazioni è l'opera di Freud, dagli studi sull'isteria condotti insieme a Breuer, fino a L'uomo Mosé e la

religione monoteista (2003) scritto tra il 1892-1895, passando per Al di là del principio di piacere (1986) del 1920), per quanto egli non abbia mai elaborato una trattazione composita e

trauma, il padre della psicanalisi non attribuisce direttamente all'esperienza l'effetto traumatico, ma al suo ritorno, come memoria alle sue reminiscenze, in un momento particolare della vita del soggetto in cui egli ha la maturità e la coscienza di comprendere l'entità di ciò che ha subito. Il sintomo è curabile solo alla luce del ricordo e della sua narrazione in quanto gli affetti devono essere tradotti in parole per dare all'evento traumatico una precisa attribuzione di senso.

Questa sorta di latenza, di periodo di gestazione del trauma era già stata messa in evidenza dal neuropatologo francese Jaen-Martin Charcot e dai ricercatori dell'ospedale parigino della Salpêtrière, secondo i quali l'isteria traumatica era dovuta a scompensi psicologici, non anatomo-psicologici; essa dunque non era riconducibile ad un processo di causa-effetto. Per questi studiosi il trauma è il risultato di una costellazione interrelata di sintomi che si palesano quando si verifica un “incontro” tra due eventi diversi: l'uno, non ancora assimilato perché il soggetto non ne è cosciente; l'altro, in sé non traumatico, ma capace di risvegliare la memoria del primo.

A questo proposito sembra utile riportare un evento della mia personale esperienza di campo: ricordo che un mattino di giugno del 2013 Oreste, uno dei miei maggiori interlocutori, membro di Sisma.12, venutomi a trovare per parlarmi della sua esperienza del terremoto, è arrivato a raccontarmi un episodio della sua infanzia, che lo aveva “traumatizzato e reso ciò che era diventato” (queste le sue parole). Il ricordo di questo evento, a detta di Oreste, era diventato più limpido e atroce al verificarsi del terremoto, e sembra averne esacerbato gli effetti sulla sua persona: la sensazione di angoscia, irrequietezza, incertezza e solitudine di quel passato si era ripresentata negli stati d'animo successivi al terremoto.

Il trauma emerge, dunque, come il risultato della dialettica tra due eventi, la quale comporta una latenza temporale che rende il passato accessibile attraverso un atto procrastinato di presa di coscienza, di comprensione ed interpretazione:

La latenza e le azioni differite causate dal trauma mettono, in altre parole l'accento sulla temporalità di un evento che non è colto come traumatico fino al suo ritorno: è in questo senso che non vi possono essere narrative lineari del trauma, le parole che provano a coglierlo marcate da un tempo che frattura il rapporto di causalità che convenzionalmente viene posto tra eventi tra loro legati da una successione cronologica (Demaria 2012: 31-32).

Secondo quanto argomentato non vi è una fenditura cognitiva netta tra ciò che si verifica all'esterno e ciò che accade all'interno del soggetto traumatizzato. La memoria traumatica risulta quindi come irresoluta e cangiante in quanto il suo significato le viene conferito dalle

motivazioni inconsce.

In Al di là del principio di piacere Freud, riprendendo i suoi precedenti studi sul trauma, lo definisce come la mancata elaborazione di un evento passato che non riesce a divenire memoria conscia. Lo studioso tornerà sul concetto di trauma ne L'uomo Mosé e la

religione monoteista, dove egli insiste sul trauma come una ferita ai danni del corpo e dei

processi di percezione, sia individuale che collettiva, che crea un'imposizione con una violenta intensità psichica, al contempo indipendente dall'organizzazione degli altri processi mentali. Freud era convinto che la coscienza potesse essere intimamente scalfita dagli eventi, che, come memorie particolari, influiscono sulle modalità attraverso le quali i soggetti vivono il presente e su come venga elaborata e trasmessa la memoria, sia individualmente che collettivamente (Demaria 2012: 35).

Tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX si sviluppa negli Stati Uniti e in Europa una copiosa varietà di lavori sul trauma. Uno dei tanti studiosi ad essersi dedicato alla trattazione di questa tematica è il medico inglese, contemporaneo di Freud, William Brown, il quale elabora una teoria secondo la quale ciò che ritorna nella sintomatologia traumatica sono le emozioni vissute durante l'evento traumatico ed è la loro repressione a determinarne i sintomi. Questa teoria venne rifiutata da chi era convinto che ad avere un ruolo fondamentale nella ricostruzione della memoria fosse la dimensione cognitiva dell'evento. Secondo questa prospettiva la cura, per essere efficace, doveva rendere il paziente in grado di superare la paura di conoscere una certa parte di sé, recuperando in questo modo una specifica relazione con se stesso, ricomponendo così il suo ego dissociato. Da questa teorizzazione emerge la possibilità di una memoria emotiva, rifiutata, però da William James (psicologo e filosofo statunitense) e Edouard Claparède (psicologo e pedagogista svizzero), i quali negano la possibilità di provare un'emozione come qualcosa di passato: essa è sempre esperita nel presente, malgrado si leghi ad un evento del passato. Il primo inoltre chiarisce che ciò che emerge alla nostra coscienza non è la memoria di un sentimento passato, ma un nuovo sentimento che viene esperito nel presente. Dunque il trauma non può essere recuperato dall'inconscio semplicemente perché non vi abita, nella misura in cui esso diviene la rappresentazione dissociata o repressa dell'evento (Demaria 2012: 37).

Nel 193422 lo psicoanalista Sàndor Ferenczi afferma che perché il trauma si manifesti è necessaria una precedente sensazione di sicurezza di sé e, nel mondo circostante, da parte dei soggetti coinvolti, un'esagerata fiducia che poi si rivelerà illusoria. La nozione di fiducia acquista in questo discorso un duplice valore: biologico e morale (Ferenczi 2004). Per l'autore

22. Nel 1934 sull' «International Zeitschrift für Psychoanalyse» appare un articolo di Ferenczi nel quale egli esprime questa idea.

superare il trauma necessita della capacità di elaborare idee precise riguardo ad un cambiamento in senso favorevole proteso al futuro, antidoto al malessere ed al disagio creato da un evento traumatico. Si sopporta dunque il dolore grazie alla speranza che prima o poi tutto finirà (Beneduce, 2010: 79). Si cerca di trovare una via d'uscita alla situazione di sofferenza: non è forse qui evidente la forza rigenerativa dei soggetti traumatizzati protesa all'avvenire?

Queste sono le basi teoriche (criticate e superate) sulle quali, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, si sviluppa il campo trans-disciplinare di matrice anglosassone denominato Trauma Studies, un ramo del più ampio campo dei Memory Studies, che presenta al suo interno una certa varietà che va dai lavori critici letterari, ai lavori sulle arti visive, a quelli psicologici, sociologici e storici. Entro questo filone il trauma viene inteso come un motore di precarizzazione delle basi reggenti l'ego o l'identità di una comunità lacerata da un evento traumatico. Sempre secondo questa scuola esso può ricomparire come sintomo ripetuto in modo coatto, scatenando meccanismi psico-semiotici, culturali e sociali ai quali consegue una crisi dei processi di significazione e di rappresentazione degli eventi e della loro esperienza. Inoltre i discorsi elaborati sul trauma lo traducono come il tentativo di costruire una possibile memoria individuale e collettiva (Demaria 2012: 38). Uno dei più autorevoli rappresentanti di questo approccio, Cathy Caruth, elabora una nozione di trauma che ricalca quella fornita in ambito medico:

Una risposta, a volte ritardata, a un evento o a eventi dirompenti che prende la forma di allucinazioni, sogni, pensieri e comportamenti ripetuti e intrusivi che vengono generati da quegli stessi eventi, che inoltre producono un intorpidimento che può aver inizio durante o dopo l'esperienza, e possibilmente un incremento (oppure un rifiuto) degli stimoli associati all'evento (Caruth 1996b: 4).

L'autrice elabora, in una prospettiva a metà strada tra l'approccio medico e quello della critica letteraria, l'idea di trauma come dissociazione, rileggendola come un'interruzione dei processi di elaborazione dell'esperienza traumatica. Nel soggetto traumatizzato, non riuscendo egli a rappresentare la propria esperienza, il trauma si ripete in modo coatto e compulsivo, ma non diviene memoria semantica: non vi è recupero del suo significato, ma solo una messa in atto dell'evento (Demaria 2012: 39).

che esso ci pone davanti all'esigenza di ripensare la nozione di evento traumatico e le modalità secondo le quali la memoria viene strutturata. Inoltre ci fa riflettere su principi e connotati attraverso i quali gli eventi vengono scelti per essere ricordati, sulle tattiche che gli attori sociali mettono in atto per dare senso alla loro esperienza traumatica. Secondo i Trauma

Studies ad aver esacerbato la nozione di trauma nella sua accezione corrente è stato l'avvento

di un'epoca dominata dall'imperialismo e dal colonialismo che costituiscono le radici del così detto “Secolo breve”, segnato dall'esplosione di due guerre mondiali e di innumerevoli altre atrocità, dove l'Olocausto è stato eretto come l’esempio massimo della crudeltà umana (Leys 2000, Kansteiner 2004).

Come già richiamato è soprattutto la psicoanalisi ad essersi preoccupata di definire il trauma e di trovarne rimedio. Essa ha costruito intorno a questo concetto una complessa teoria del tempo, della memoria, della verità. Nel 1980 compare nella terza edizione del Diagnostic

and Statistical Manual of Mental Disorder dell'associazione degli psichiatri statunitensi la

categoria del Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD), la quale ha permesso di classificare i diversi disturbi derivanti da situazioni traumatiche, partendo dall’analisi del caso specifico dei soldati sopravvissuti alla guerra in Vietnam, decretando un nesso causale tra sofferenza psichica e coinvolgimento in azioni stressanti e/o rischiose. Esso definisce il trauma come un evento «al di fuori del range dell'esperienza umana ordinaria». Sebbene questa modalità di classificazione del trauma e dei suoi sintomi abbia avuto una marcata supremazia nelle diagnosi dai suoi esordi in poi, recentemente gli approcci umanistici che si sono dedicati allo studio di questo concetto ne hanno messo in evidenza un punto fortemente critico: essa infatti esclude dalla diagnosi la dimensione sociale e politica della sofferenza e del trauma, non tenendo conto delle loro differenti espressioni. Il PTSD rimane, dunque, un modello interpretativo deficitario - ancora oggi molto utilizzato in contesti “disastrati”, soprattutto nel campo della clinica psichiatrica - che pretende di descrivere il trauma in maniera unica univoca ed unificante, avendo la velleità di elaborare una struttura universale di effetti psichici, determinati, in verità, da eventi diversi e pretendendo di curarne i sintomi con tecniche che promuovono l’alienazione dalla storia dei soggetti “traumatizzati” (Beneduce 2010: 10). Inoltre la pratica psicologico-psichiatrica convenzionale tende a medicalizzare i disturbi piuttosto che a comprenderne e risolverne le cause. Ritornando al caso preso in esame, subito dopo il terremoto in Emilia, il numero dei casi di sintomatologie post- traumatiche sembra essere cresciuto esponenzialmente, così come l'utilizzo di psicofarmaci e ansiolitici23. Dal diario di campo:

23. Per questi dati, non ufficiali, si rinvia all'articolo de L'Huffington Post “Terremoto in Emilia: aumenta il consumo di psicofarmaci del 30% in 4 mesi. L'allarme dal congresso dei medici di famiglia” del 04/10/2012 e all'articolo del Fatto Quotidiano “Terremoto Emilia, il 60% dei medici di famiglia visita ancora nei container” del 6 ottobre 2012.

Sabato dopo l'assemblea siamo andati in pizzeria e a tavola è nuovamente uscito il discorso terremoto. Oreste ha detto che molti, dopo il terremoto hanno avuto problemi psichici e che c'è stato, a quattro mesi dal terremoto, un incremento esponenziale del 30% nell'uso degli psicofarmaci. Lui sembrava preoccupato (Note di campo del 18/02/2013).

Nel 1987 la psicologa statunitense Francine Shapiro elabora un nuovo modello psico- interpretativo del trauma denominato Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) - “desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari”. Questa tecnica psico-terapeutica viene oggi applicata in campo clinico per affrontare i disturbi dettati da esperienze traumatiche (Fernandez, Maxfield, Shapiro, 2009). Essa si struttura secondo una procedura articolata su otto fasi, con l’obiettivo di lavorare su esperienze e ricordi traumatici, alla base di problemi e disturbi determinati dall'aver vissuto una o più esperienze traumatiche. Per aiutare il soggetto ad accedere al ricordo e a metabolizzarlo, gli viene chiesto di concentrarsi sulla parte più disturbante del ricordo e su tutti i suoi aspetti (immagini, cognizioni negative, emozioni negative, sensazioni corporee), mentre viene indotta una stimolazione bilaterale degli occhi (una rotazione completa al secondo, in un arco di tempo che va dai 20 ai 60 secondi circa). In questo processo il soggetto crea materiale più adattivo che viene integrato con le memorie traumatiche. L’aspetto disturbante del ricordo traumatico viene così risolto (almeno questa è la convinzione), ottenendo una ristrutturazione delle cognizioni associate e una visione più positiva ed adattiva (Wilson, Becker, Tinker 1997)24. Evitando di addentrarci troppo sull'argomento, emerge chiaramente come anche questo nuovo paradigma riduca il sintomo, e dunque il trauma, ad una dimensione esclusivamente psico- biologica ed individuale, introducendo anzi un aspetto neuronale nell'analisi risolutiva, ed estromettendo l'apporto del contesto socio-culturale, storico e politico in cui i soggetti vivono.

Operando una critica antropologica alle modalità di analisi e di risoluzione del trauma finora esposte, si potrebbe affermare che tanto la psicologia quanto la psichiatria, dalla fine del XIX secolo agli anni Ottanta del XX, abbiano partecipato in maniera esplicita alla legittimazione dell'imposizione di un comportamento “consono”, socialmente considerato “normale” in risposta agli eventi traumatici, stigmatizzando e trattando come “devianti stati di malattia mentale” quelli uscenti da quella normalità. É evidente il ruolo politico e il fondamentale apporto dei saperi medico-psciologici nel legittimare forme “sanitarie” di potere ancora oggi preponderanti, ma sempre più oggetto di critiche da parte dell'etnopsichiatria e dell'antropologia, soprattutto medica, (e non solo).

Malgrado si debba riconoscere che le pratiche terapeutiche e le riflessioni sul trauma siano procedure che delineano una precisa e utile topografia della memoria, secondo l’approccio antropologico, nella diagnosi del disturbo PTSD e dell'EMDR è riscontrabile l’espressione di quei processi di reificazione che caratterizzano la medicina e la psichiatria contemporanee (Taussig, 2006), le quali hanno avuto un ruolo importante nel caldeggiare l’imperialismo culturale (Hacking 1998: 230) del modello “Occidentale”. Adottando questo schema, che impone una specifica idea di trauma e quindi di cura, si mette in atto una forma di colonizzazione della sofferenza. Avvalersi di un unico e circoscritto paradigma di trauma, globalmente imposto, incentiva una precisa forma di soggettivizzazione, intesa nel doppio senso foucaultiano di forza che “rende soggetto e che assoggetta”; essa si impone al soggetto dall’esterno, da un lato opprimendolo, dall’altro delineandone le caratteristiche peculiari e formandone le condizioni d'esistenza. In questo modo il soggetto risulta governato e contemporaneamente indebolito dal potere, incarnandolo ed interiorizzandolo. L'individuo è assoggettato, nella misura in cui diventa subordinato al potere, tramite lo stesso processo attraverso il quale diventa soggetto. La sottomissione risulta una condizione della soggettivizzazione (Butler 2005: 7-8) e il processo di significazione e di spiegazione del trauma nella sua forma diagnostica può essere considerata come una sua modalità (Beneduce 2010: 11-12).

In verità le riflessioni sul trauma presentano anche elementi che rimandano a questioni di tipo storico, politico, sociale ed antropologico, quali: la rappresentazione del tempo e della morte di una data società, spesso costruite a partire da catastrofi o lutti collettivi; la possibilità di decidere i ritmi e gli oggetti del commemorare; il conflitto tra il dovere di memoria e la necessità di dimenticare (Beneduce, 2010: 12), le capacità propos-attive elaborate e poste in essere dai soggetti per risolvere e fuoriuscire dalle situazioni traumatiche causate da un disastro, intese come modalità rigenerative localmente e storicamente determinate che la catastrofe stessa ha fatto emergere. Ma se oggi parliamo così tanto di trauma non è forse perché facciamo parte di un’umanità che è, contemporaneamente, traumatizzante e traumatizzata? Parafrasando Pulcini (2009) così riporta Beneduce (2010: 35):

Un'epoca traumatizzata parla di trauma sempre più spesso, moltiplica i suoi progetti umanitari e incoraggia la proliferazione dei suoi esperti psico-traumatologi perché, così facendo, attenua l'insostenibile consapevolezza di scoprirsi un'epoca traumatizzante, un'epoca immersa nella paura e nell'incertezza, dove si fa fatica ad ammettere la propria vulnerabilità, la propria condizione di soggetti non sovrani.

Ormai parte del linguaggio comune, la nozione di trauma è diventata una locuzione culturale e una categoria psichiatrica produttrice di una precisa nozione di persona, concepita in modo individualistico e biomedico. Considerato in questa accezione superficiale, esso può