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Il rapporto uomo-ambiente: processi antropo-poietici come costruzioni culturali Insistere sulla dimensione sociale e culturale di un disastro non significa negare

LINEAMENTI DI ANTROPOLOGIA DEI DISASTR

1.1. Il rapporto uomo-ambiente: processi antropo-poietici come costruzioni culturali Insistere sulla dimensione sociale e culturale di un disastro non significa negare

l’importanza della sua dimensione fisica. Tuttavia, piuttosto che considerarlo come un semplice fatto dato dalla natura, l’antropologia affronta il tema del disastro come un fenomeno che rivela il rapporto particolare che l’uomo, e la particolare società che ne è colpita, intrattiene con la natura e più specificatamente con il proprio ambiente di vita. Prima di presentare i concetti utili all'analisi di una catastrofe occorre, dunque, fare un passo indietro ulteriore, per comprendere come la disciplina antropologica ci offra gli strumenti per interpretare il rapporto uomo-natura, più in particolare, riguardo le modalità attraverso le quali gli esseri umani costruiscono se stessi in un rapporto talvolta dialettico, talvolta armonico, con il proprio ambiente.

1.1.1. L’uomo e l’ambiente circostante

Secondo l’antropologia, un elemento centrale per la comprensione dell’uomo e della sua storia è sempre stato il suo interagire con l'ambiente, in particolare il suo re-agire a condizioni climatiche e fisiche avverse. È stato dimostrato come col tempo l'umanità sia riuscita a sviluppare capacità di adattamento alle situazioni più sfavorevoli, anche se spesso con risultati devastanti sull'ambiente. Tramite un percorso plurimillenario l'uomo ha mutato e adeguato le proprie capacità psico-fisiche al proprio “circostante esperienziale”, costituito da luoghi antropizzati, spazi umanizzati, abitazioni, oggetti; in generale, tutto ciò che abitiamo, che esperiamo e che è palcoscenico conoscitivo e conosciuto del nostro vivere, che trasformiamo e che a sua volta ci trasforma. Ne consegue, dunque, uno stretto legame di mutua influenza e reciproca metamorfosi tra uomo e natura. Così asserisce Signorelli (1992: 44):

Non va mai dimenticato che i prodotti dell'attività mentale dell'uomo sono in diretto rapporto con le aperture e i limiti impostigli dalla sua natura, sia in assoluto sia in rapporto alla specifica situazione ambientale nella quale si trovi ad operare.

Da quest'affermazione consegue l'idea del rapporto tra società e ambiente come una forma complessa di interscambio, che coinvolge contemporaneamente la sfera materiale e quella simbolica dell'attività e dell'esistenza umana (Hoffman, Oliver-Smith 2002).

1.1.2. La costruzione dell’umanità nel rapporto con l’ambiente e l’indeterminatezza

Da quanto detto si potrebbe dedurre che le strategie adattive che l'umanità escogita in un processo continuo di re-invenzione si basano su quattro punti fondamentali: la tecnologia, l'organizzazione sociale, le credenze religiose e i valori, “frutti impuri” dell’intelligenza umana dettata soprattutto dallo stare “insieme” dei soggetti in comunità; e proprio dall’organizzazione sociale e comunitaria sono state pensate ed elaborate le strategie di adattamento all’ambiente. Grazie a queste strategie l’uomo ha avviato un lungo processo di costruzione dell'umanità in grado di sopperire alle lacune della “costituzione biologica” dell'uomo, cosciente della propria finitudine e imperfezione. L'assunto da cui parte il progetto antropologico è che l'uomo si percepisca imperfetto e che si completi attraverso la cultura. A questo proposito, Remotti (1999) focalizza la sua attenzione sul concetto di antropo-poiesi. Il termine, di derivazione greca – poièin, “fare, costruire”, e ànthropos, “uomo”, “essere umano”, è utilizzato dall’autore nell’accezione di “costruzione dell'uomo” e, secondo tale prospettiva, gli esseri umani, oltre che società e ambienti, hanno da organizzare e costruire se stessi. I presupposti che hanno ispirato questa prospettiva sono:

- l'ampio ricorso, nell'ambito delle scienze sociali, a concetti che esprimano l'idea di costruire, del fare, del creare, dell'inventare e quindi a un paradigma costruttivista;

- la constatazione che l'idea del “fare umanità” trova riscontro in ambito etnografico.

Il presupposto fondamentale è che l'umanità non sia cosa data, ma al contrario, il prodotto di un lungo e complesso processo attraverso il quale essa viene modellata.

Le motivazioni che spingono l'umanità a compiere questo atto vanno ricercate, sempre secondo Remotti (Ibidem), nella teoria dell'incompletezza biologica dell'uomo, terzo elemento su cui si basa la prospettiva antropo-poietica, che ne chiarisce l'imprescindibilità e l'universalità. Esistono di questa teoria diverse versioni (quelle elaborate da Herder, Gehlen, Geertz, per citarne alcune), ma il tratto che le accomuna tutte è l'idea secondo la quale la natura biologica dell'uomo sarebbe caratterizzata da lacune e carenze, tali da rendere problematica, se non addirittura, impossibile la sopravvivenza. Quest'ultima è resa possibile

dall'intervento della cultura, dimensione che nell'organizzazione umana ha avuto uno sviluppo particolare. La cultura, dunque, ripara e corregge le carenze biologiche dell'uomo e ne colma le lacune: essa è un fattore biologicamente irrinunciabile poiché interviene a completare un essere che altrimenti rischierebbe l'estinzione.

Il poiein è un'attività consapevole di finzione, come nel latino “fingere” nel senso di “modellare”, “costruire” qualcosa che non esiste, “inventare” qualcosa che verrà poi fatta passare per realtà autonoma e indipendente. Ogni progetto antropo-poietico, colmando lo iato tra il biologico e il culturale, sottende una definizione di umanità, etnograficamente variabile, che funge, contemporaneamente, da modello di comportamento (Remotti 1999). A questo proposito così afferma Ciavolella (2013: 147):

Secondo Geertz e altri la cultura sarebbe una risposta universale alla finitudine umana, ma essa può prendere infinite forme particolari, a seconda di quel preciso modello di umanità che gli individui e le culture si pongono come obiettivo per il proprio completamento. Ciò che è veramente condiviso universalmente dall'uomo è la sua apertura al ventaglio infinito di forme di umanità che egli può assumere reagendo alla sua imperfezione e indeterminatezza.

Per capire pienamente a cosa dà origine il lavoro antropo-poietico potremmo servirci della nozione di habitus elaborata da Bourdieu (1972; 1980a). L'autore ne parla come di un sistema di strutture cognitive e motivazionali composto da un insieme di disposizioni durevolmente inculcate che vengono acquisite dai soggetti in maniera permanente. Essendo costituito in maniera contingente dalle necessità economico-sociali, esso è contemporaneamente prodotto della storia, poiché genera delle pratiche sia individuali che collettive, che produttore di storia, in quanto si costruisce in relazione al mondo pratico che gli è proprio (Piasere 2002). Partendo da queste premesse Bourdieu (1980a: 88-89) afferma che certe condizioni:

Associate ad una classe particolare di condizioni di esperienza producono degli habitus, dei sistemi di disposizioni durevoli e trasponibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, ossia in quanto principi generatori e organizzatori di pratiche e di rappresentazioni che possono essere oggettivamente adattate al loro fine senza supporre l'intento cosciente a dei fini e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli, oggettivamente regolate e regolari.

Come sistema acquisito di schemi generativi esso da un lato assicura l'attiva presenza delle esperienze passate che, depositate in ogni individuo come schemi di percezione, di pensiero e

di azione, garantiscono la conformità delle pratiche e una certa loro costanza (sebbene mai assoluta e sempre uguale a se stessa) attraverso il tempo; dall'altro favorisce la produzione libera di quei pensieri, quelle percezione e quelle azioni, inscritti nei limiti inerenti alle condizioni particolari della sua produzione. Esistono tanti habitus quante sono le diverse forme di umanità ed essi emergono come una presenza agente del passato che funge da capitale accumulato, «rendendo ogni attore sociale un mondo nel mondo» (ivi: 94). Essendo i diversi habitus una forma di incorporazione della storia, le pratiche che da essi scaturiscono sono mutualmente comprensibili, trascendendo le intenzioni soggettive e i progetti coscienti. Da ciò prende vita un mondo di senso comune che tende ad armonizzare le esperienze (Piasere 2002). Particolarità dell'essere umano, dunque, è la capacità di produrre idee e rappresentazioni che costruiscano l'ambiente nel quale egli stesso vive attribuendo significati alle cose di cui egli fa esperienza (Fabietti, Malighetti e Matera 2002: 24). Questa capacità scaturisce dalla consapevolezza da parte dell'uomo della propria precarietà e fragilità, in quanto egli ha sempre dovuto fare i conti con le minacce alla propria incolumità presenti nell'ambiente. Così riporta Ciavolella (2013: 147):

Il mondo là fuori è una selva oscura che, ben prima di essere spazio fisico, è uno spazio morale di incertezze e minacce. Come la foresta dell'immaginario europeo, è uno spazio selvaggio, opposto al mondo domestico, in cui si nascondono forze ignote e in cui l'uomo si trova disorientato. Di questo mondo là fuori, però, non fa parte solo lo spazio fisico esterno, ma anche tutte quelle forze che agiscono sull'uomo e nei confronti delle quali l'uomo si sente minacciato: il tempo, con i suoi passati e i suoi futuri; gli esseri umani, imprevedibili fonti di pericolo.

1.1.3. Pensare l’ambiente, pensare socialmente

I soggetti interagendo gli uni con gli altri, costruendo azioni e codificando aspettative condivise, intessono tra loro dei legami basati su una comune esperienza, mai la stessa, ma in qualche modo similare. La visione del mondo, la percezione e l’organizzazione dei luoghi e delle relazioni tra i vari individui, costituiscono il quadro concettuale entro il quale si inscrivono le attività collettive, le riflessioni, le credenze e il senso dell’esistenza che caratterizzano ciascuna cultura. Attraverso questi contatti reciproci le persone creano le strutture sociali, le rappresentazioni dello spazio e dell’universo - che possono assumere forme diverse secondo il contesto entro il quale vengono elaborate6 - e le gestiscono dalla

loro posizione all'interno della struttura stessa (Hannerz 1998).

Tradizionalmente queste differenze hanno indotto molti studiosi del passato a interpretare in maniera errata il "pensiero primitivo" o "selvaggio", definito come incapace di elaborare concetti astratti e, di conseguenza, una comprensione razionale dei fenomeni dell’universo. Lévy-Bruhl (1971), ad esempio, riteneva che le rappresentazioni spaziali di molti popoli, cui attribuiva una mentalità primitiva, rappresentassero significative differenze rispetto alla nozione di uno spazio continuo e omogeneo, all’interno del quale si collocano gli oggetti della percezione.