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Memorie di un disastro: narrazioni e testimonianze

PER UN'ARCHEOLOGIA DELLA CATASTROFE RIGENERATIVA

2.2 Memorie di un disastro: narrazioni e testimonianze

Se diamo per assodato che l’esperienza disastrosa, oltre che vissuta ad un livello personale, viene esperita anche a livello collettivo - in quanto solo in questo modo è possibile avviare un processo condiviso di rigenerazione dell’universo di significati nei luoghi di distruzione e caos e del proprio essere mondo - urge chiedersi quale sia allora il legame tra quest'ultimo e il soggetto. Gli individui sono definiti dal mondo che abitano; a sua volta il mondo culturale è costituito dalle persone che si sentono parte di esso. I soggetti, allora, controllano la produzione della realtà e il loro posto al suo interno. In questo senso ciò che succede al mondo succede al sé e i “disturbi” conseguenti ad eventi catastrofici si presentano come un’epidemia metafisica che infetta la totalità del quotidiano: il disordine del mondo è il contagio metafisico del Sé (Nordstrom 1995: 136). La catastrofe nel suo verificarsi lascia un’ impronta che causa nei soggetti coinvolti un trauma; il quale si palesa in molteplici modalità, contestualmente determinate. Questo deve essere narrato e ricordato per essere ripensato e superato; e questo processo di donazione di senso che ricompone la memoria individuale dell'evento calamitoso o meglio delle varie modalità in cui esso è stato esperito dai soggetti. É grazie all'insieme di queste molteplici memorie che si costruisce quella collettiva.

Abbiamo precedentemente osservato quanto il concetto di trauma sia indissolubilmente legato a quello di memoria. Ma cosa è la memoria, soprattutto da un punto di vista collettivo? Cosa significa chiedere di ricordare a persone che hanno subito il trauma di vivere un disastro? Qual è il reale potere della narrazione che richiede lo sforzo cognitivo di ricordare, ovvero di rivivere momenti traumatici dell’esistenza? Che senso e quale scopo ha costringere gli interlocutori a questo supplizio? In questo paragrafo si tenterà di comprendere cosa significhi ricordare un evento calamitoso, farne memoria e, in questo modo, dargli un senso, ma da un punto di vista collettivo. Vedremo anche come essa possa essere soggetta ad abusi e alterazioni. Si tralascerà, dunque, tutta quell'ampia trattazione di casi di studio della memoria da un punto di vista personale di cui è ricca la già citata produzione delle discipline psicologiche e psichiatriche di fine Ottocento e inizio Novecento, in quanto in questo lavoro è la memoria collettiva ad interessarci a livello analitico.

A seguito di eventi traumatici come i disastri risulta impresa ardua narrare e provare a ricomporre quanto si è esperito. “La liturgia della parola, il ritornello della rielaborazione,

suonano in molti casi formule vuote” (Beneduce, 2010: 7). In questo struggente sforzo di

memoria l’antropologia può dare il suo contributo per costruire un senso al male e trovare nuove modalità di porvi rimedio, ed è proprio grazie al ricordo dei sopravvissuti, espresso

tramite il racconto, che l'etnografo interagisce con essi, apprende informazioni e interpreta la catastrofe come fenomeno socio-culturale. É innegabile che l'impresa del ricordare susciti un dolore intollerabile, la reiterazione visuale e sensoriale di un episodio che sembra essere refrattario a qualsiasi sforzo di delimitazione ed addomesticamento. Ricordare fa soffrire:

Siamo di fronte ad un duplice problema. Da un lato c’è l’enigma del ricordare esperienze atroci e memorie traumatiche, dal momento che questo ricordo, anche quando assume il significato di un atto politico, di denuncia, è non solo fonte di sofferenza, ma il paradosso stesso della condizione di sopravvissuti: forzati a confrontarsi, senza tregua, con l’incomprensibilità della loro condizione (Caruth 1996b: 25). Dall’altro, i saperi (psicologici) sono sollecitati con sempre maggiore frequenza a chiedersi se sia possibile ricorrere a strategie di cura fondate su altri presupposti, su altri «istituti culturali» (De Martino 1977), rinunciando alla pretesa che quelli oggi egemoni possono essere per chiunque ed ovunque utili o efficaci (Beneduce 2010: 9).

Così racconta ancora Norma27:

Eeeee...niente. Con tutt…ssss, la casa che roteava su se stessa, cioè, mi hanno preso su, ma ti dico, questa cosa di secondi è sembrata un'eternità. Allo stesso tempo io non ho un ricordo preciso di tutta sta cosa. Solo che ti han caricato…volati giù dalle scale. E mi sono trovata fuori che qualcuno aveva portato fuori anche la carrozzina. Mi son trovata lì, e mi son trovata vestita. Ma io ero in mutande quando...mutande e maglietta quando mi ha caricato dal letto Diego. E nessuno si ricorda chi ha preso i miei vestiti, chi mi ha vestito. Cioè c'è un panico tale in cui tu perdi veramente la consapevolezza del qui e ora, di chi sei e cosa fai e cosa sta succedendo. Perché l'adrenalina fa questo. Niente. Siamo usciti davanti a casa, così, annichiliti. Con un batticuore che mi torna a dirtelo. Cioè io a raccontare quel momento mi torna quella sensazione di vedere i muri che si piegano su di te! Mi spiego?

Assman (2002) ci ricorda che la memoria, aggrappandosi al reale, diviene il presupposto per creare diversificate immaginazioni del futuro; ovvero la memoria di ciò che è il nostro passato, il ricordo di ciò che abbiamo vissuto, soprattutto nel caso di catastrofi, ci rende consapevoli di differenze e contraddizioni tra tre dimensioni temporali ed esperienziali che si interconnettono l'una con l'altra: quella passata, quella presente e quella futura. Per quanto riguarda il terremoto emiliano nel compiere una comparazione tra le tre dimensioni, gli interlocutori, esprimono, come vedremo più avanti, una propensione verso l'avvenire, verso

un futuro diverso, sperato migliore per se stessi e per le future generazioni, non solo rispetto alla situazione presente ma anche in relazione al passato. I soggetti sono consapevoli del fatto che questo cambiamento in positivo non possa avvenire per mano di altri, ma che necessiti, affinché si verifichi veramente, dell'impegno e del lavoro attivo di coloro che il terremoto l'hanno subito in prima persona, ripescando proprio nella sofferenza, nel trauma condiviso la forza “per rialzarsi dalle macerie” (quest'ultima è un espressione usata molto spesso dagli interlocutori). Da quanto detto emerge il carattere rigenerativo dell'evento calamitoso, come di un motore che attiva determinate forze, prima sopite, e, tramite la presa di coscienza dei singoli, mette in atto specifiche volontà emancipatorie che spingono al protagonismo attivo dei terremotati stessi in nome dell'auto-determinazione per operare un mutamento della propria condizione.

Demaria, seguendo un approccio legato alla semiotica della cultura e alla semioscienza, utilizza nel suo lavoro (per altro già precedentemente citato) Il trauma,

l'archivio e il testimone (2012) un'idea di memoria come di un fenomeno culturale

esternalizzato, composto dall’insieme delle forme e delle modalità in cui si rendono disponibili nozioni e significati temporalmente e spazialmente differenti da quelli in cui sono stati prodotti (Demaria 2006; Demaria, Daly 2009). Secondo questa definizione è possibile considerare sì le condizioni materiali del disastro ma anche gli strumenti che permettono la sua iscrizione e trasmissione, oltre che i modelli, le forme e le pratiche che definiscono i generi che orientano, ma anche ripropongono, la narrazione dell'evento passato.

La nostra epoca, sempre più mediatizzata e tecnologizzata, è segnata dalla compresenza di diversi livelli e campi di esercizio delle memorie, dall'intrecciarsi di quella che vive nell'interazione quotidiana e di quella che riesce ad eludere il controllo dei singoli. In questo senso la memoria culturale non comprende unicamente le memorie originali a fondamento dell'identità culturale di un gruppo ma si riferisce, inoltre, alle modalità locali attraverso le quali le società riflettono, narrano, scrivono, interpretano e ritualizzano il loro passato. Questa memoria collettiva è frutto dell’insieme di quelle individuali e si nutre di ricordi caldi (da breve accaduti), riscrivendo quelli freddi. Essa è l'elaborazione di un effetto di senso, risultato della somma sia di ciò che è ricordato, il suo contenuto e i modi in cui è strutturato, sia dei significati che può assumere la pratica stessa del ricordo (Volli 2010). A livello di enunciazione di ciò che è accaduto l'effetto della memoria è prodotto dal suo uso pubblico, da pratiche e rituali più o meno fissi attraverso i quali la memoria collettiva decide se e cosa ricordare (Demaria 2012).

quelli considerati “traumatici” e da ricordare come tali in quanto accadimenti che sconvolgono profondamente i soggetti sia a livello individuale che collettivo, sfaldando le relazioni che riuniscono i membri di una comunità. Prendendo in esame i metodi di conservazione della memoria e quelli atti a tramandare i saperi nelle diverse culture, Severi (2004) ci ricorda che nelle diverse società, che fanno uso di essa come strumento per tramandare la propria cultura e che ancora si servono della memoria individuale, la trasmissione della memoria collettiva è attentamente controllata.

Essendo il trauma un'interruzione dei processi cognitivi attraverso cui si dà senso al mondo, una sua errata concezione può mettere in crisi anche la storia e la memoria di quel trauma e dell'evento che lo ha causato. Il recente dibattito dei Trauma e dei Memory Studies ha focalizzato l'attenzione sulle modalità attraverso le quali i soggetti producono culturalmente memoria di un evento in una modalità esternalizzata (Demaria 2012). La memoria è espressione del pensiero sociale, una forma attraverso la quale una data comunità seleziona e ri-costruisce socialmente il ricordo di un dato evento, rigenerando, in tal modo, la propria comunità: è in relazione ad essa che i soggetti rimodellano le molteplici forme di identità collettiva. La memoria non è, dunque, un dato naturale nè mero meccanismo neuro- psichico ma un processo di produzione di una serie di rappresentazioni tra loro collegate, che ne estromette di altre. “Tutti i gruppi elaborano una memoria “sociale”, un “fondo di

ricordi” di cui l'identità condivisa si alimenta. Tali ricordi sono sempre situati in relazione ad uno spazio e ad un tempo” (Fabietti in Fabietti, Matera 2000: 9).

Avere una memoria significa possedere una o più visioni del proprio passato attorno alle quali può esserci più o meno consenso. La sua funzione è quella di offrire una rappresentazione dotata di senso del proprio presente. Conseguentemente, la perdita della memoria è anche perdita di saggezza, conoscenza e cultura. Essa, però, non è mai totale: l’essenza del racconto, per resistere all’oblio, si aggrappa a ciò che si è esperito, in relazione al reale presente e si trasforma in qualcosa di nuovo e diverso (Severi 2004). La produzione culturale della memoria consiste nell'assumere determinati elementi caricandoli di un preciso significato simbolico socialmente condiviso e, contemporaneamente, nella rimozione di altri elementi dallo scenario che si vuole rappresentare. Ed è per questa ragione che la memoria si gioca anche tra ricordo ed oblio, in quanto l'evento scelto si articola grazie all'interrelazione tra questi due elementi:

Si può affermare il proprio presente (di individuo oppure di collettività) attraverso la continuità con il passato […] spingendosi fino all'esaltazione, alla celebrazione e alla commemorazione del passato, oppure attraverso una rottura radicale con esso[...]

spingendosi fino alla cancellazione, all'oblio, al divieto del ricordo; e tuttavia tra questi due estremi si colloca una serie continua di possibilità intermedie, ciascuna individuale solo in relazione alla situazione storica, sociale, culturale specifica che l'ha portata in atto (Matera

in Fabietti, Matera 2000: 17).

La memoria è, dunque, la facoltà grazie alla quale i soggetti stabiliscono correlazioni tra passato e presente. Per poter essere tramandata essa ha bisogno di precisi supporti, i quali consentono ad un gruppo di scegliere e di fissare ciò che va ricordato. La memoria è la sede dei processi di selezione, rimozione, interpretazione, elaborazione del proprio passato; questi processi, seppur legati alla dimensione individuale, assumono anche una valenza collettiva e sociale e, a questo livello, essa si ricostruisce continuamente attraverso il ricordo del passato, riproposto nel presente grazie a specifiche modalità: in questo modo si caratterizza come memoria culturale, dando vita ad una precisa identità. Essa ancora simbolizza lo spazio sociale attraverso un'attribuzione di senso che si ottiene grazie al recupero del ricordo, il quale, in quanto anch'esso culturale, da un lato si concretizza mediante un riferimento a simboli precisi (eventi, luoghi, oggetti) e alle narrazioni; dall'altro qualifica in un determinato modo la memoria:

Memoria e ricordo partecipano alla costruzione dell'identità, la quale si perpetua, riproducendo o riformulando se stessa, per via di meccanismi che si possono individuare a partire dalle rappresentazioni culturali tramandate [costituenti la memoria collettiva] che entrano in rapporto dialettico con la realtà (Matera in Fabietti, Matera 2000: 17).

Halbwachs (1976, 1987, 1988), uno dei primi antropologi ad essersi occupato di memoria collettiva, afferma che il ricordo di un passato condiviso si fonda su tre presupposti:

- il riferimento a precise coordinate spazio-temporali: nei luoghi, spazio e tempo si intersecano poiché i primi sono le tracce che gli eventi hanno lasciato nello spazio28;

- una relazione simbolica del gruppo con se stesso: esso elabora una specifica memoria di sé contrapposta a quella di “altri”;

- una ricostruzione continua della memoria: i fattori sui quali si fondano gli elementi di cui si compone il ricordo si trasformano in relazione al presente. In questo modo il nuovo può essere interpretato come un passato ricostruito.

Come già accennato, la memoria, per sussistere, ha bisogno di agganciarsi a riferimenti concreti: luoghi, oggetti, accadimenti. Sul piano temporale la memoria rievoca

28. Per l'importanza delle categorie “spazio” e “tempo” nell'analisi di un disastro cfr Capitolo 1, sottopar. 1.2.4, pag. 47.

eventi che essa stessa colloca in qualche punto nello spazio, nei “luoghi di memoria” su cui l'identità proietta e da cui trae la propria storia (Fabietti, Matera 2000: 35). Essi sono “siti” dalle molteplici forme in cui le immagini del passato coagulano i propri significati. Possono essere reali - in quanto in un punto preciso dello spazio si è manifestato un certo evento caricato dalla memoria di significato - o immaginari, perché prodotti di un'attività immaginativa, un'invenzione del pensiero collettivo. I luoghi di memoria sono dunque spazi fisici caricati di un valore totale, evocativo del senso di appartenenza degli individui ad un determinato gruppo. Mentre per quanto riguarda oggetti e luoghi è la caratteristica di concretezza e fisicità che ne svela le motivazioni che spingono a creare da essi memoria, per quanto riguarda gli eventi, per poter essere investiti del potere di evocazione mnemonica necessitano della testimonianza, senza la quale esso è destinato a scomparire per il passar del tempo e per effetto dell'oblio. Il testimone è, dunque, un elemento chiave per avviare il processo di costruzione del passato (Fabietti, Matera 2000: 91).

La testimonianza può essere intesa come una modalità di conoscere l'altro, in un rapporto dialettico con un altro capace di raccontarci in modo differente (Ricoeur 2002). In questo senso essa acquista una valenza epistemologica per la quale ogni soggetto non può fare a meno della conoscenza che gli viene da altri soggetti (Demaria 2012). La testimonianza è matrice delle nostre “credenze giustificate” che dipendono dai rapporti che intessiamo con gli altri (Garavaso, Vassallo 2007). Non ci può essere testimonianza senza narrazione nella misura in cui è nel rapportarsi agli altri che la propria esperienza acquista senso. Così afferma Demaria:

Perché infatti un ricordo non si fissi e non divenga un'ossessione, esso deve essere inter-agito e narrato, e in questo modo partecipare alla costruzione di un frame comune, entro configurazioni in cui esperienze simili possono essere ricordate [...] La memoria come pratica sociale e individuale […] trasforma il trauma […] in una narrazione (Demaria 2012:

75)

Narrare, dunque, è utile anche a riacquistare un controllo su se stessi, ricostruendo un equilibrio tra ciò che è rimasto inscritto nel corpo e l'incapacità del soggetti di esprimerlo in parole. Elaine Scarry (1990) afferma che il dolore acuto resiste al linguaggio, lo distrugge. Ciononostante la risposta umana per trovare un significato ad esso contrasta questa distruzione, “capovolge la funzione de-oggettivizzante del dolore imponendo al dolore stesso forme di oggettivazione” (Ivi: 20-21). Il soggetto, per tradurre in parole un'esperienza refrattaria alla messa in parola, costruisce un nuovo linguaggio. La narrazione è dunque lo

sforzo di dare forma al dolore, investigandone le origini spazio-temporali, per costruire una biografia che dà senso alla sofferenza (Good in Quaranta 2006). Il dolore è il prodotto di un'elaborazione culturale e le diverse modalità attraverso le quali l'esperienza viene narrata e dunque rappresentata prendono forma dai riferimenti cultuali, sociali, storici e politici poiché l'essere mondo dei soggetti è sempre situato entro queste coordinate (Pizza 2005: 108).Così scrive Ivo Quaranta (2006: 197-198):

Se le narrazioni sono considerate non come mere “rappresentazioni” dell'esperienza, ma come dispositivi attraverso cui si costruiscono, si elaborano trame di significati, che danno senso all'esperienza, allora la testimonianza di chi soffre può valere come occasione per lavorare alla ricostruzione di un mondo sovvertito dall'irruzione di una presenza inedita.

Il testimoniare è un processo comunicativo prodotto dall'interrelazione tra esperienza e discorso, manifestazione e crisi della presenza. Esso è un'azione, un evento puntuale, ma anche l'elemento che raccoglie quell'evento e lo moltiplica nell'atto verbale. Nel portare testimonianza molteplici livelli e modalità di essere del reale si intrecciano: dall'evento narrato inteso nel suo palesarsi in un momento preciso, singolarità irripetibile, all'evento come esortazione alla sua attribuzione di senso. Questo processo viene messo in atto grazie a diverse narrazioni, pratiche e discorsi costruiti per essere replicati e rinnovati (Frosh 2011; Derrida 1998). Ma della testimonianza si può anche abusare, deformandone o addirittura contraffacendone il valore e il significato, i quali possono anche venire popolarizzati o banalizzati (Demaria 2012: 63). Questo succede, come vedremo nel capitolo successivo, soprattutto per proporre una particolare idea dell'evento, istituzionalizzata, mediatizzata e socialmente imposta.

Il testimone è tale in quanto portatore di coscienza, sapere e volontà di raccontare, che lo definiscono anche rispetto ad un'autorità, rispetto al potere di (ri)definire una realtà. La testimonianza offre una procedura per la risoluzione o la negoziazione dei conflitti sociali determinati dallo scontro tra le differenti interpretazioni di ciò che è accaduto. É una pratica trasformativa che presuppone una narrazione e la presenza del testimone che diviene parte dell'evento. Attraverso l'enunciazione del testimone avviene un distanziamento dal passato, situato temporalmente in modo differente rispetto al presente. La posizione del testimone è così “generatrice di eventi e di identità” (Thomas 2011:99): la presenza trascorsa del passato che torna ad essere presente è una “presenza presente”, meccanismo sul quale si fonda la costruzione comunicativa di una memoria pubblica. Il testimone è dunque al crocevia di

diversi processi comunicativi, elabora una particolare produzione discorsiva, che può essere ridistribuita socialmente (Friedman 2005; Rentschler 2004). Così Demaria (2012: 69): “La

testimonianza è una particolare forma culturale di significazione e di comunicazione che attraversa diversi generi e formati e che, come rituali moderni, presenta sia un alto grado di plasticità, sia una relativa plasticità”. La testimonianza entra nella memoria collettiva di un

gruppo, di una comunità, di una nazione e la trasformazione del trauma in un'esperienza narrabile e memorabile è utile ai singoli, ma anche alla collettività: esse provano, grazie al ricordo individuale, a ricomporre la loro memoria sociale (Ivi: 71).

Gli eventi della memoria sono figure del ricordo, punti di riferimento fissi attraverso i quali il presente si richiama al passato. In tal senso posseggono un valore fondante poiché legittimano l'identità presente di una collettività rievocandone la storia condensata in una figura del ricordo. A questo proposito lo psicologo e filosofo francese Pierre Janet propone la distinzione tra memoria traumatica, che ripete semplicemente il passato, e memoria narrativa, che racconta il passato in quanto tale. Sempre secondo l'autore il lavoro dell'oblio risulta fondamentale per l'efficacia della cura, in quanto il narrare è un atto di “presentificazione”, di auto-rappresentazione e di auto-osservazione attraverso cui le persone costruiscono e rigenerano il presente in quanto tale, comunicando le proprie esperienze agli altri: in questo modo la memoria risulta un atto sociale. Secondo questo approccio per acquistare il potere di presentificazione sono necessari entrambi, l'assimilazione e l'oblio, ovvero l'elaborazione e la soppressione di alcuni accadimenti del passato.

La storia, dunque, è un simbolo, una rappresentazione culturale in cui la realtà di un accadimento svolge un ruolo marginale, in quanto ciò che è importante è l'efficacia simbolica, la capacità di evocazione e di coesione che possiede un evento della memoria. In questo senso le figure del ricordo sono finzione, nel senso che sono costruzioni culturali socialmente