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MEDIA, STRATEGIE D'INTERVENTO ISTITUZIONALI E ALTERNATIVE “DAL BASSO”

PER UN'ARCHEOLOGIA DELLA CATASTROFE RIGENERATIVA

MEDIA, STRATEGIE D'INTERVENTO ISTITUZIONALI E ALTERNATIVE “DAL BASSO”

In questo capitolo si intende analizzare il ruolo dei media e delle autorità istituzionali in occasione del terremoto emiliano, dal punto di vista dei membri di Sisma.12, in una con le modalità alternative di risposta alla catastrofe da essi elaborate.

Come anticipato nelle pagine precedenti, il lavoro di campo è stato realizzato entro il contesto del dopo-sisma emiliano. Dalla ricerca etnografica uno degli aspetti emersi con più evidenza riguarda lo iato narrativo tra quanto proposto da autorità e istituzioni, e supportato dai media, e quanto affermato dai terremotati riguardo al dopo-disastro; una discordanza sulla quale Sisma.12 imposta la sua contro-informazione. Mentre le istituzioni, infatti, sostengono che la situazione nell’Emilia terremotata sia “ormai sotto controllo e risolta” e, da parte loro, di “aver fatto tanto durante questi anni per la ricostruzione”, i secondi lamentano che, a distanza di tre anni, si assiste ancora ad una situazione di stallo, di “NON-Ricostruzione” (quest'ultimo termine è stato coniato dai membri di Sisma.12 e viene utilizzato per indicare il lavoro svolto dalle istituzioni nel post-terremoto). Si vuole, dunque, rimarcare lo scarto tra le varie rappresentazioni del post- catastrofe, elaborate e proposte dai diversi attori in campo, implicati in un complesso processo di significazione: da un lato le istituzioni, sostenute dai media, dall'altro i membri del Comitato. Preso atto che quello istituzionale, quello dei media e quello degli attori sociali siano campi sociali differenti, e che ognuna di queste entità agisca spinta dalla volontà di raggiungere precisi fini, in questa sede interessa esporre come il rapporto tra questi tre agenti sia stato percepito ed esperito dagli interlocutori.

Dalla ricerca di campo il ruolo svolto dalle autorità e dai mass media, sia nella fase emergenziale che durante la ricostruzione, appare problematico, stante che queste due istituzioni risultano interrelate nel processo di rappresentazione del post-sisma, nella costruzione di un'immagine che stride fortemente con la narrazione e le rappresentazioni che provengono da parte dei terremotati. Durante questi anni (quasi tre) questi ultimi sono stati sommersi dall’onda lunga dell’incipiente disillusione e della rassegnazione, lievitata mano a mano che veniva messo in mostra il loro protagonismo passivo, soprattutto in coincidenza con la presenza periodica dei media, accompagnati dalle reiterate promesse pronunciate, a detta degli interlocutori, dai diversi partiti ad

ogni fase pre-elettorale. Alla luce dei loro racconti ci si è posti l'inevitabile domanda del perché, nonostante a livello nazionale venga fatta passare l'idea di una situazione sotto controllo e ormai risolta, lo stato in cui ancora versa la maggior parte dei terremotati e, in generale, la popolazione che abita la zona colpita dal terremoto, presenti ancora caratteristiche di forte precarietà. Come spiegare etnograficamente lo iato tra le dichiarazioni pubbliche delle autorità e ciò che invece i terremotati affermano di esperire? Quali ripercussioni esso comporta a livello socio-culturale e politico?

Sulla base dei risultati ottenuti, verranno esposte le obiezioni formulate dai membri di Sisma.12 alle narrazioni delle istituzioni, supportate dai media, riguardo alla fase emergenziale, nate dall'individuazione di alcune criticità e risultate, a detta degli interlocutori, false, ingannevoli ed inefficaci, pur essendo paradossalmente basate su presupposti ideali di verità ed efficacia. Inoltre, tramite l'analisi di quanto i media hanno voluto e potuto rappresentare all’interno del contesto preso in esame, si rifletterà anche sulle modalità di riportare fatti e testimonianze sui disastri. Un altro punto sul quale si rifletterà riguarda quanto le idee, le strategie e le pratiche “ufficiali”, elaborate e poste in essere nelle zone colpite da disastri durante la fase dell'emergenza e della ricostruzione, troppo spesso si fondino su presupposti inadeguati e preconcetti che devono necessariamente essere ridiscussi, in quanto generano modalità di azione inefficaci, volte all'estromissione dei soggetti colpiti dal percorso decisionale e operativo.

3. 1 Il mondo creato dai media: l'invenzione che fa notizia

In seguito al sisma di maggio i media hanno riportato la notizia per giorni, con servizi che si sono destreggiati tra l’ineluttabile violenza della natura, i salvataggi miracolosi e la sentita e condivisa solidarietà tra i sopravvissuti e da parte di benefattori “altrove”. Sono seguiti mesi di silenzio mediatico, interrotti da occasioni particolari, quali l'inaugurazione tra la fine del 2012 e l'inizio del 2013 dei MAP (Moduli Abitativi Provvisori), l'anniversario dell'evento (“a un anno da”, “a due anni da”) e scadenze elettorali amministrative e politiche. In questo modo i media hanno contribuito a creare una precisa visione della situazione post-sisma che come vedremo più avanti risulta in contrasto con la realtà esperita e raccontata dai terremotati. In questo paragrafo si opererà un'analisi della capacità dei media di rappresentare un dato evento, indagandone le modalità, per poi calare l'analisi nel caso concreto.

mondo odierno siano presenti ancora più gravi imperfezioni e rischi rispetto al passato, il vantaggio della nostra epoca sta nell’immediatezza e nella dimensione olistica delle informazioni nonché nella loro velocità di diffusione: l'informazione è divenuta il quarto potere. Il ruolo assunto nella contemporaneità dai media - con la complicità di una tecnologia che ha permesso alle informazioni di circolare più facilmente, con maggiore rapidità, per arrivare fino agli antipodi del mondo – ha sviluppato un potenziale illimitato di produzione e circolazione di discorsi, corpi ed emozioni dei testimoni di eventi particolarmente importanti per determinate comunità, creando un preciso pubblico destinatario di quei racconti (Demaria 2012: 14). Lo scopo è di attirare l'attenzione del lettore-ascoltatore-spettatore continuamente bombardato da immagini e informazioni, che spesso si contraddicono e ancor più spesso risultano manipolate per far notizia: viene così creata una palese distorsione della realtà, la quale è sempre mediata da interpretazioni, discorsi e procedure di traduzione. Così riporta la Benadusi (2011) in un articolo sullo tsunami del 2004 in Sri Lanka, dal quale emerge bene quanto detto finora:

Chiunque abbia assistito alla campagna mediatica legata all’imponente onda anomala dell’Oceano Indiano ricorderà lo shock e il moto di compassione suscitati, in quelle giornate natalizie, dalle immagini di panico, devastazione e dolore circolanti sui canali televisivi. La notizia è stata divulgata con forte clamore anche dai giornali, dalle principali antenne radio, locali e nazionali, e naturalmente ha avuto un grosso riverbero su internet, soprattutto grazie al fenomeno del “video- weblogging” o “vlogging”: una miriade di videoclip amatoriali girati in digitale e scaricabili con un semplice clic dai blog degli stessi film-maker, oppure da piattaforme di raccolta create appositamente per lo tsunami. La sensazione dello spettatore occidentale è stata quella di sentirsi risucchiato nel mezzo degli eventi in un lasso di tempo minimo, visto che molti dei video erano disponibili online poche ore dopo il disastro.

La capacità delle immagini proposte dai media riguardo a certi accadimenti di veicolare forme di adesione e di identificazione acritica dovrebbe essere ripensata, interrogandosi su come esse producano forme di azione in relazione all'evento che rappresentano e del rischio che esse degenerino in una spettacolarizzazione eccessiva e in una fascinazione della sofferenza. I modi e le forme del visibile, dell'immagine come prova, come possibilità di elaborare una differente conoscenza del mondo, influiscono sullo statuto delle immagini audiovisive, pilastri portanti della favola mediatica, che elaborano una certa rappresentazione del “reale” (Ivi: 91). Il rischio è che in questo processo si generi un mondo artificiale che nasce dall'interazione tra la fiaba mediatica e le necessità di prima pagina, un “spazio mediato” in un doppio senso: mediato, filtrato, distorto,

costruito in quanto rielaborato da un agente che fa da tramite tra noi e il mondo; mediato nella misura in cui a mettere in atto questo processo sono appunto i media stessi. L'invenzione di questo mondo terzo si genera tra quello del cittadino seduto in poltrona, lontano da ogni pericolo, che si sente vicino alle “vittime” solo perché, “spinto da un'egoistica volontà di sentirsi protagonista-eroe

e che pensa che mandare telefonicamente un piccolo contributo monetario risolva la situazione”50,

e quello di chi il dramma invece lo subisce in prima persona, senza alcuna possibilità di scelta. Hannah Arendt nel suo testo Sulla Rivoluzione (1999) ha elaborato il concetto di “politica della pietà”, utile in questo caso per meglio comprendere il processo messo in atto dai media e che interessa i soggetti coinvolti. Essa si caratterizza per due aspetti peculiari: da un lato la distinzione tra chi soffre e chi no; dall'altro l'insistenza posta sulla vista, sull'immagine, sullo spettacolo della sofferenza. Quest'ultimo è fondato sull'osservazione degli “infelici” - intendendo con questo termine coloro i quali, secondo graduazioni diversificate localmente e storicamente, patiscono la sofferenza, anch'essa di diverse forme e tipologie - da parte di quelli che non condividono le loro sofferenze, non ne hanno esperienza diretta e considerano come persone sfortunate. In questa logica, la felicità e l'infelicità sono due condizioni che definiscono insiemi separati nella misura in cui, da un lato, considerano gli infelici uniti entro una stessa massa di persone; dall'altro, per ispirare pietà, ha bisogno dell'emersione tra questa massa delle singole miserie. Per questo tipo di politica la miseria degli infelici non deve essere forzatamente giustificata: qualora si trovi costretta a scendere a patti con la giustizia ciò avviene sempre negativamente, soprattutto quando l'infelice è costituito in quanto vittima: la questione rimane prettamente retorica, senza accompagnarsi ad una messa alla prova (Boltanski 1993: 6). Così Ottavio, uno dei più rappresentativi interlocutori della ricerca di campo, si esprime a riguardo, durante un’intervista:

D: Ma per retorica tu che cosa intendi?

S: Per retorica intendo fare tutta quella serie di celebrazioni che possono essere in pratica il corrispettivo delle frasi fatte: “La repubblica italiana è fondata sulla resistenza!” e si […] i fascisti! Che al di là del fatto del…continuano a portare avanti un discorso che è un discorso di fatto assolutamente fascista […] che a quel punto…questa è la retorica!

D: E secondo te durante questo periodo di…tra l’altro non ancora trascorso, forse ancora ci sarà qualche strascico…questi servizi televisivi celebrativi riguardo il terremoto ad un anno dal terremoto, bla bla bla bla, utilizzavano della retorica? Della retorica…?

O: Spinta! Non solo della retorica, [ride] della retorica spinta! Ma anche lì, cioè, fai dei servizi televisivi, per che cosa? [...] Ma no, è chiaro che fanno della retorica e fanno della retorica spinta.

Però fanno della retorica spinta per un fatto, perché comunque la gente si sente più buon [pausa]. La logica cattolica dell’elemosina, è la stessa cosa! Cioè io non provo minimamente a togliere il povero dalla sua condizione di povertà. Gli do tutti i giorni le dieci lire, le cento lire, le…anche perché me lo ritrovo sulla porta della chiesa quando esco dalla casa, e quindi mi sento più buono perché metto in atto le cose che mi dice la santa madre chiesa e faccio la carità e questa cosa comunque mi, in qualche modo, gratifica, ok? Poi se quello resta lì tutta la vita non me ne frega un cazzo!

La politica della pietà deve affrontare una doppia esigenza: da un lato, in quanto politica, mira alla generalità, sottraendo, così, valore al locale; dall'altro riferendosi alla pietà non può esimersi dal tener conto dei singoli casi. Per attivare la pietà, infatti, corpi sofferenti devono essere mostrati in modo da colpire la sensibilità delle persone “felici”. Ma questi casi devono far risalire la singolarità in modo da dare corpo alla sofferenza, senza entrare nella peculiarità dei casi. Per essere una politica, essa deve trasportare, contemporaneamente, una pluralità di situazioni di infelicità, costruire una sorta di manifesto immaginario di infelici riuniti sia secondo ciò che li accomuna sia per ciò che li caratterizza nello specifico. Gli infelici mostrati non devono però essere particolarmente qualificati secondo rapporti di preferenza, iper-singolarizzatitramite l'accumulazione dei dettagli di sofferenza e sotto-qualificati. Le sofferenze mostrate devono fondersi in una rappresentazione unificata: singolari ma non meno esemplari. Questa visione delle vittime fornita dai media permette agli spettatori di coltivare il proprio sé, commuovendosi della propria pietà allo spettacolo della sofferenza altrui.

Lo statuto dell'esperienza traumatica non può però avere lo stesso pathos del suo racconto e la sofferenza a distanza, sentita da chi è testimone della testimonianza, non può raggiungere la rilevanza etica della sofferenza vissuta. L'empatia virtuale e non vicaria dell'esperienza suscita una reazione emotiva che convive con la consapevolezza che l'esperienza dell'altro non è la propria. (Demaria 2012: 48). Lo iato tra ciò che accade e le sue differenti rappresentazioni è un processo messo in atto in seguito al trauma culturale di cui parla Alexander, riempito di senso da specifici attori sociali, i quali ne propongono una precisa versione dei fatti. Lo studioso definisce questi agenti collettivi riprendendo il termine coniato da Weber di gruppi portatori, composti da quegli individui capaci di produrre significato nella sfera pubblica, i quali:

sono essi gli agenti collettivi del processo di trauma. I gruppi portatori hanno interessi sia ideali che materiali; sono situati in particolari punti della struttura sociale; ed hanno un talento discorsivo particolare nell’articolare le proprie rimostranze o le proprie rivendicazioni – ciò che

potrebbe essere chiamata “produzione del significato” – nella sfera pubblica (Alexander 2006:

142-143).

Interpretando alcuni eventi come significativi - perché traumatici, stravolgenti, catastrofici – essi divengono i trasmettitori di quella precisa versione dei fatti, “potremmo dire i destinatari

enunciatori di un atto linguistico che si rivolge a destinatari caratterizzati da circostanze particolari, oltre che da uno specifico contesto storico, culturale e istituzionale” (Demaria 2012:

54). Questo schema re-interpretativo della realtà diventa credibile se in grado di fornire risposte efficaci a domande cruciali di valore sociale. Questo avviene secondo un processo complesso il quale prevede, da un lato, che la nuova narrazione della violenza investa il passato di un altrettanto nuovo significato, spiegandone il perché della sofferenza; dall'altro, l'individuazione del gruppo d'individui colpiti, assegnandogli l'etichetta di “vittime” e un ruolo specifico.

Il discorso sotteso al trauma culturale deve poi ridefinire anche la relazione tra le vittime e il pubblico, specificando se queste ultime fanno parte di noi o se sono da considerare come dei soggetti estranei. Inoltre esso deve specificare chi è il vero responsabile, chi il nemico secondo i già citati processi di attribuzione di colpa. Sempre per Alexander, questo processo è tale da generare una macro-narrazione della sofferenza sociale tramite mediazioni inscritte nell'interazione tra le “aree istituzionali”. Tra queste i media svolgono un ruolo fondamentale, nella misura in cui non solo drammatizzano il racconto del trauma, ma ne specificano i modi di manifestazione e di attribuzione di ruoli e significati, nonché l'insieme di valori che prefigurano le relazioni tra i diversi attori sociali, definendo quali discorsi preferire per avviare processi di identificazione immaginativa o di catarsi emotiva (Demaria 2012: 55). La costruzione mediatica, dunque, si presenta come un processo che definisce il dolore patito da una comunità, identifica le vittime, attribuisce le responsabilità a specifici soggetti e stabilisce le conseguenze ideali e materiali dell'accaduto.

La politica della pietà necessita di trattare la sofferenza a distanza perché essa si fonda sul mostrare un ammasso di infelici che non sono presenti di persona (Boltanski 1993:16). Quando questi però si manifestano fisicamente, per invadere lo spazio morale dei felici, volendosi mescolare a loro, si trasformano in “arrabbiati” (Arendt 1999), perché contestano in questo modo le raffigurazioni del loro trauma che non condividono, proponendone di alternative. Per le persone non sofferenti il problema della distanza non si pone fino a quando le sofferenze degli infelici sono visibili da lontano, grazie ai media: esse diventano spettatrici informate ma senza il potere di agire in prima persona. Così Boltanski (1993: 24):

dell'incertezza rispetto all'azione richiesta, rendono sconcertante l'assimilazione - difesa per esempio dallo stesso Singer - tra l'esigenza di non uccidere e quella di non lasciar morire, e procurano un forte sostegno agli argomenti che ordinano l'obbligo di assistenza secondo un principio di distanza.

Il rischio, secondo Boltanski, è che la gerarchizzazione degli obblighi morali finisca col ridurre il sentimento della solidarietà comunitaria.

Nella nuova economia comunicativa dell'esperienza estrema, si tende sempre più a inseguire questa “singolarizzazione anonima” dell'esperienza traumatica, costruendo uno spettacolo del dolore declinato in varie forme. Secondo questa modalità si travalica il limite tra i diversi discorsi della testimonianza, tra oggettivo e soggettivo, tra giuridico, teologico, scientifico, politico, sociale, storico e culturale. Si tratta di generi ibridi, tramite i quali non è detto che si testimoni per mostrare la realtà, della quale esiste una pluralità di interpretazioni conflittuali da riscattare, ma in cui spesso è la testimonianza stessa ad essere tematizzata e l'intimità del suo soggetto messo al centro della comunicazione. Sono essi atti di presentazione tipicizzati, regolamentati e ritualizzati entro una specifica economia dello spettacolo e dell'attenzione (Thomas 2004). Aggiunge Demaria (2012: 68):

Entro questa economia, quando il genere implicato riguarda la rappresentazione o la commemorazione di eventi traumatici in esso si deposita la voce di chi c'è stato e anche di chi non c'è più, ma anche la verità e l'esperienza propria del “testimone secondo” - storico, critico, giornalista - a confronto con la presunta attendibilità che affonda nella sofferenza del sopravvissuto, o con l'evocazione del morto, del caduto.

Il confine tra fatti e finzione dovrebbe assumere una valenza etica nel rispetto del dolore dell'altro, che li separa legandosi alla sua storia e alla sua sofferenza (Peters 2001: 721-722) e, in questo contesto l'autenticità del testimone deve considerare l'intricata relazione tra se stesso, la sua testimonianza mediatizzata e il pubblico che se ne interesserà (Demaria 2012: 68).

É grazie soprattutto alla narrazione mediatica e ai discorsi degli specialistici che all’evento disastroso (allargando il concetto anche ai disastri di origine antropica come guerre e attentati) è stato affidato un ruolo fondamentale nel processo di creazione della nozione di vittima (Fassin, Rechman 2007). A questo proposito, durante la ricerca di campo si è assistito ad un proliferare - soprattutto in concomitanza con la commemorazione del terremoto - di luoghi comuni e pietismi,

costruiti attraverso l’utilizzo di enunciati in cui la parola “terremotato” - termine che come vedremo si carica di particolari significati - spesso è preceduta da aggettivi dequalificanti, come povero, sfortunato. A detta degli interlocutori questo sentimento di pietismo, superficiale e di dubbia utilità, ingabbia il terremotato entro la passività del suo essere “vittima”, definizione che esprime uno stato di passività e d’impossibilità all’azione. I soggetti interessati vengono immobilizzati dalla fatalità degli avvenimenti, resi inermi da un immaginario collettivo che li disegna come “perseguitati dalla malasorte”, “ignorati dalla fortuna”, senza averne colpa e senza avere la possibilità di operare un cambiamento a questa condizione. Defraudato della possibilità di contrastare il proprio destino infausto, egli è privato di ogni potere contrastivo, della sua carica attiva necessaria al mutamento, e questo atto viene perpetrato attraverso l’utilizzo di un discorso politico preciso e l’impiego al suo interno di parole, come quella di vittima, strategicamente selezionate. La ricerca di campo ha dimostrato che, pur in presenza di una diffusa attesa che la situazione venga risolta da qualcun altro (vedremo poi da chi), non tutti i terremotati hanno accettato lo status di vittima. Per questa specifica evidenza emersa dal campo è stato deciso di evitare l'utilizzo, in questo lavoro, della designazione di “vittima del terremoto”, azione impossibile da praticare in campo anglofono (earthquake victim) e francofono (victime du tremblement de terre) perché non esiste in queste due lingue una definizione differente né una parola specifica. Grazie alla ricchezza della lingua italiana, derivante forse dal fatto che la storia sismica del nostro Paese è ben più ricca di eventi di questo genere, si è dunque deciso di utilizzare la parola “terremotato” al posto di quello di “vittima” per due motivi specifici: si tratta di un termine neutro che, per ciò stesso, non da adito a interpretazioni pietiste,