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matematico di Ronconi e Barrow.

Come potrebbe finire questa storia? Magari la catena degli Alberghi infiniti potrebbe essere stanca di ospitare un numero infinito di clienti di un numero infinito di alberghi in un numero infinito di galassie. Deciderebbe allora di cambiare radicalmente la propria strategia commerciale. Deciderebbe di uniformarsi alla nuova moda e diventare l’albergo minimalista per eccellenza: L’Albergo Zero. Così la vita è più semplice. Non ci sono più stanze, né ospiti, né personale, né costi di gestione (anche la temperatura delle stanze viene mantenuta allo zero assoluto), nessuna perdita, nessun problema. È un po’ come un concerto di John Cage con 4 minuti e 33 secondi di silenzio o un quadro moderno costituito da una tela vuota.

Questo genere di cose costituirebbe la forma di arredamento e intrattenimento più naturale per l’Albergo Zero- con una copia del mio libro Da zero a infinito,

la grande storia del nulla in ogni stanza, se solo ci fossero delle stanze! Morale

cosmologica: forse l’Universo è infinito, è stato creato dal “nulla”, e un giorno tornerà al “nulla”, dopo essere diventato talmente complicato che non è più possibile mandarlo avanti.

Un altro possibile finale, che è una piccola variante di questo, potrebbe essere che la catena degli Alberghi infiniti si fonde con quella degli Alberghi Zero per dare luogo a un normale albergo finito, al nulla, o a qualche altra cosa strana- come il motel del film Psycho62 .

“Castello” che, partendo dalle premesse teoriche e dai materiali del suo studio del 1987, qui citato, arriva a prendere

in esame la riscrittura scenica ronconiana (pp. 11-60); oltre gli interventi dei curatori (il saggio già citato di Tessari è alle pp. 191-222, mentre la Andreini disserta sulla ‘fortuna del testo gaddiano e cura una conversazione con il regista, alle pp., rispettivamente, 243-286 e 287-296); completano lo scenario di indagine saggi di Ferdinando Taviani (su Gadda recensore di teatro, pp.61-98), Claudio Longhi (sui processi interpretativi della regia ronconiana, pp. 99-190) ,Franco Prono (sulla versione televisiva curata da Giuseppe Bertolucci, pp.223-242); chiude, infine, il volume una ricca appendice teatrografica e bibliografica su Gadda e sull’allestimento ronconiano, curata da Longhi (pp. 297-310); per una ricerca ragionata delle recensioni allo spettacolo si veda il volume contenente i numeri 19 e 20 de “Il Patalogo”, Ubulibri, Milano 1996, in part. le pagg.57-61.

62 Jhon D. Barrow, Infinities, contenuto nel programma di sala a cura del Piccolo Teatro di Milano, pubblicato in

occasione dell’allestimento dell’omonimo spettacolo per la Regia di Luca Ronconi ed andato in scena allo Spazio Bovisa dal 5 maggio al 1° giugno 2003; la citazione si riferisce alle pagg. 104-105.

Il Finale (così Barrow titola il frammento citato) della prima parte,

Benvenuti all’Albergo infinito, mi pare fortemente adatto a designare quel

concetto di “assenza”, territorio di soglia dove si annidano gli infiniti possibili, che dà sostanza al filo rosso in cui si dipana la matassa delle riflessioni che sto perseguendo in questo volume. Già in sede di premessa, del resto, avevo indicato nella tela bianca dei Suprematisti il segno forte, l’intuizione che designava perfettamente la zona di sospensione della percezione, o meglio, la zona delle infinite percezioni possibili. Mi pare si possa dire che questo frammento contenga più di un elemento significativo atto ad ascrivere Infinities nella categoria dei teatri/libro. Direi, di più, ci chiarisce la natura di ‘confine’ tra i codici espressivi che il teatro/libro assume. Il silenzio “musicale” di Cage o la tela vuota, cui Barrow si richiama costituirebbero “la forma di arredamento e intrattenimento più naturale per l’Albergo Zero” e, ancora, con raffinato amore per il paradosso, il matematico porrebbe una copia del suo libro Da

zero a infinito, la grande storia del nulla63 “in ogni stanza”, ma in un tale

tipo di albergo si assume l’assenza delle stanze. Per concepire l’infinito bisogna concepire il nulla: brividi leopardiani, come a dire che i corpi e le stanze che questi attraversano pongono in essere un gioco di presenza/assenza, come un continuo apparire e svanire della siepe che “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Un gioco di presenza- assenza, dicevo, chiamato a far saltare, attraverso i paradossi della logica matematica, i confini della percezione prospettica per costringere lo spettatore ad orientarsi o, meglio, a disorientarsi nelle linee di sguardo intersecantesi di molteplici orizzonti visivi. Leggiamo Ronconi:

Barrow ha dato un tono leggero, ironico, non pedante al tema e con un atteggiamento tipico degli anglosassoni, lontano dal nostro modo di comportarci, ha saputo dare alla materia di questo testo una leggerezza di trattazione che non coprisse, né impoverisse mai, in alcun modo la serietà dei propositi e degli argomenti. Dal canto mio ho cercato, con la stessa ironia e con la stessa leggerezza, di riproporre uno schema infinito allo spettacolo, cercando di tradurre la leggerezza del testo in uno spirito di gioco. Il che non vuol dire che il gioco non vada fatto seriamente, che sia qualche volta ilare e qualche volta sinistro, che presenti delle regole e che le regole siano molto severe, ferree, da scoprire giocando, ma che vadano rispettate anche se il tema dell’infinito nel testo di Barrow non sembra proporre coerenza, ma stravaganza, bizzarria, sconcerto sorpresa. Volendo dare una struttura “infinita” allo spettacolo è stato indispensabile, necessario, trovare una soluzione spaziale e temporale che la riflettesse. Qui la situazione temporale è stata offerta dalla simultaneità, la spaziale invece dalla moltiplicazione degli spazi, da cui deriva non un teorema, ma semplicemente il fatto che all’interno dello spettacolo c’erano tanti spazi

quante erano le sequenze. Ovviamente ciascuna di queste sequenze rimandava alle altre.64

Gioco, simultaneità e moltiplicazione degli spazi: chiavi d’accesso, queste, verso una drammaturgia che dimostri “altre possibilità di fare teatro, per esempio attraverso lo spazio e la dilatazione (o la contrazione) del tempo che sono diventati delle figure teatrali, delle strutture drammaturgiche da usare, esattamente come il dialogo o il personaggio, che sono stati usati per secoli”.65. Quest’ultima riflessione ronconiana ci

riporta, fortemente, alla natura di teatro/libro dello spettacolo Infinities. Annotiamo quanto, ancora Ronconi segnala, a proposito del lavoro dell’attore, nelle note del programma di sala:

Quello che, soprattutto, ho chiesto agli attori è la consapevolezza che il testo di Barrow è un testo frammentario che si compone di brani originali mischiati a brani di suoi saggi, ma anche di altri, in cui non esiste una continuità di personaggio. E il problema degli attori è stato quello di gestire, di volta in volta, in modi diversi, questa difficoltà e di stare in bilico, come funamboli, un po’ dalla parte dell’autore e un po’ dalla parte dello spettatore. Ma nel testo di Barrow si trovavano dimostrazioni e spiegazioni di tipo matematico-scientifico che né io né gli attori eravamo in grado di gestire, tanto che ci siamo dovuti documentare per sapere che cosa fossero quei presupposti. Così abbiamo scelto, per dare voce a questi dubbi, giovani studenti e ricercatori del Politecnico che, talvolta comportandosi come note viventi a pie’ di pagina, ci accompagneranno in un viaggio di scoperta66.

L’attore/funambolo, che dà vita ad un gioco teatrale di “simultaneità” e “moltiplicazione degli spazi”, non è chiamato a calarsi nell’entità arbitraria del personaggio ma nella funzione di un intrattenimento ludico centrato sui paradossi matematico-scientifici che arricchiscono la storia delle riflessioni sull’infinito da Georg Cantor in poi67. Come l’Alice che

attraversa i territori bizzarri, derivati dai giochi enigmistici cari al suo autore Carrol, l’attore di Infinities deve “smarrire” se stesso tra la

64 L. Ronconi, Movimento, metafora del tempo, testo raccolto da M.G.Gregori in J.D. Barrow, L. Ronconi,

Infinities, cit. pagg. 27-28.

65 Ivi, pag. 26. 66 Ivi, pagg. 28-29.

67 In una glossa esplicativa, contenuta nel suo testo, all’interno del programma di sala che qui stiamo citando, alla

pag. 130, J.D. Barrow scrive, tra l’altro, su Georg Cantor (San Pietroburgo 1845- Halle 1918): “Doveva restare un filo rosso della riflessione cantoriana lo studio della natura del continuo (ovvero l’insieme dei numeri reali) ed è in questo contesto che egli formulò l’ipotesi poi detta “ipotesi cantoriana del continuo”, per la quale non sussiste alcuna totalità infinita intermedia tra la potenza del numerabile e quella del continuo dei numeri reali”. Più avanti, a pag. 131 Barrow annota: “Cantor dimostrò che l’insieme di tutte le frazioni è numerabile, ma dimostrò anche che esistono insiemi infiniti più “grandi” del numerabile. Per esempio fece vedere che non è possibile “contare” i numeri con espressione decimale illimitata, i cosiddetti numeri reali. Con i numeri reali si raggiunge un livello di infinità ben più elevato, che è denotato con la locuzione potenza del continuo.”

bidimensionalità della pagina di un trattato matematico e la “necessaria” presenza corporea che lo riporti verso il mondo della percezione sensibile, quello dove l’attende lo spettatore che, a sua volta, verrà traghettato e “smarrito” tra le molte dimensioni di questo viaggio/gioco di conoscenza. Non a caso, a completare il cast di Infinities, Ronconi chiama, quasi una sorta di uomini/libro, giovani studenti e ricercatori del Politecnico destinati a configurarsi come “note viventi a pie’ di pagina”; al di là della funzione esplicativa che questi assumono, mi pare interessante sottolineare l’espressione adoperata dal regista, quel “note viventi” che li designa come corpi paratestuali nel percorso “frammentario” dello scritto di Barrow che, con una sapiente mise en

abyme, si trovano a svolgere il loro ruolo/funzione avendo tra le mani libri

di fisica e matematica, fogli e appunti, insomma quel materiale a stampa che li spiega in scena come corpi che si proiettano a rappresentarlo. Non è divulgazione, come Ronconi tiene spesso a sottolineare68, ma messinscena

degli innumerevoli strati in cui il sapere si tramanda, caselle-stazioni inserite nel gioco dei molteplici spazi in cui si articola “il viaggio di conoscenza” proposto nel teatro/libro di Infinities. A dimostrazione, se così si può dire, dell’elevazione all’ennesima potenza della categoria di teatro/libro per lo spettacolo ronconiano v’è l’alto grado di consapevolezza espresso da tutti coloro che, a vario titolo, ruotano intorno all’operazione le cui testimonianze sono raccolte nel già citato programma edito dal Piccolo nel 2003: da Pino Donghi, segretario generale della Fondazione Sigma-Tau, al filosofo della scienza Giulio Giorello, al professore di fisica generale Elio Sindoni e così via69. La maggior parte

degli interventi ( va ricordato che il volume edito dal Piccolo venne pubblicato in occasione della seconda edizione dello Spettacolo, andata in scena alla Bovisa dal 5 maggio al 1° giugno 2003) è costruita su un andirivieni di continui rimandi che vanno da Borges ai trattati di Galileo o, ancora, alle riflessioni di Leonardo da Vinci, tutti chiamati in causa, non tanto per aver affrontato, a vario titolo, il tema dell’infinito, quanto per essersi posto seriamente il problema della rappresentabilità di ciò che, a prima vista, appare irrappresentabile. Come dire che la frontiera attraversata da Ronconi con questo spettacolo viene a situarsi nel territorio del ‘viaggio mentale’, percorso del pensiero volatile che si spinge sino ad ardire il tentativo di rendere visibile ciò che è solo pensabile, anzi in frizione continua con i confini stessi del pensabile. Viene alla mente la ‘vertigine’ dantesca, esemplata negli ultimi versi del Paradiso, con la metafora del “geomètra” perso a misurare l’in-finita finitezza del cerchio: 68

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige Per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige, tal era io a quella vista nova:

veder volea come si convenne

l’imago al cerchio e come vi s’indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. All’alta fantasia qui mancò possa;70

L’eco delle vibrazioni delle terzine dantesche la sentiamo risuonare in questo frammento di Giulio Giorello dove sembra volerci segnalare che anche alla “fantasia” leonardesca “mancò possa”:

Trattare dell’infinito è…una vera e propria tentazione. Qualche secolo fa Leonardo da Vinci amava ricordare che dei quattro elementi della tradizione classica la terra è dotata della minor mobilità, mentre già l’acqua fluisce con maggior libertà pur non essendo volatile quanto l’aria, per non dire del fuoco che per la sua leggerezza tende al cielo: ma tutti e quattro erano superati appunto dalla mente che pare capace di volare per l’universo; eppure, perché “l’è finita”, anche la mente non si estende “infra l’infinito”! Tuttavia i “filosofi della natura”- che anticipano quelli che saranno gli scienziati-, gli “artisti” più “sovversivi”, i teologi eretici al punto di non temere di “finire in cenere” sono andati ben oltre i confini che suggerisce la celebre rappresentazione leonardesca di un uomo inscritto nel cerchio, immagine di ordine e simmetria. Così, la stessa modernità è nata come transizione “dal mondo chiuso all’universo infinito”- rompendo ogni involucro, come dichiarava audacemente Giordano Bruno nel 1584 e doveva poi ripetere in versi John Milton.71

Come si vede, le citazioni cui dà luogo Giorello si riferiscono tutte ad opere e pensatori che spingono la loro passione cognitiva ai bordi della percezione razionale, sfidando, con spirito prometeico, l’ordine e i confini stabiliti dall’unica mente autorizzata a travalicarli, la mente divina appunto. E il titanismo prometeico di un Giordano Bruno (autore peraltro amato da Ronconi72) sembra permeare di sé l’idea stessa di Infinities. Si

badi bene, è un titanismo che si affida all’esperienza umana come unico 70Paradiso, canto XXXIII, vv. 133-142; cito dall’edizione completa delle opere di Dante curata da Luigi Blasucci

per i tipi Sansoni, Firenze 1965, pp. 732-733.

71G. Giorello, L’infinito come dramma della mente, in J.Barrow, Infinities, cit., pagg. 37-38.

72Basti ricordare l’importante allestimento del Candelaio, prodotto sempre dal Piccolo di Milano nella stagione

2000-2001, senza dimenticare lo ‘storico’ allestimento del 1968 con le scene firmate da Mario Ceroli ed i costumi di Enrico Job, con a protagonisti, fra gli altri, Sergio Fantoni, Mario Scaccia, Valentina Fortunato, che debuttò al Teatro La Fenice di Venezia, nell’ambito del XXVII Festival Internazionale del Teatro, il 1° ottobre.

banco di prova dove sottoporre a verifica il percorso della conoscenza e, in questa chiave, come ci segnala lo stesso Giorello73, Infinities, nella

quarta stazione o stanza del suo percorso spettacolare, si richiama apertamente all’opera di Galileo, in particolare ai Discorsi e dimostrazioni

matematiche intorno a due nuove scienze, opera del 1638; qui il richiamo

al capovolgimento della visione del mondo è risolto da Ronconi con attori-acrobati che a testa in giù osservano un mondo rovesciato, un mondo messo sottosopra dalle rivoluzioni che la matematica è in grado di innescare nella percezione del reale. Del resto il richiamo a Galileo era stato fatto già in sede di presentazione dello spettacolo da Sergio Escobar, il quale traccia una solida linea di congiunzione tra il Galileo di Brecht- Strehler-Grassi e l’operazione promossa dallo stesso Piccolo Teatro e

firmata da John Barrow e Luca Ronconi74. Tanto nel caso del Galileo,

quanto in quello di Infinities, si trattava di affidare allo spazio del teatro una sorta di verifica dei poteri di una rivoluzione scientifica, di una secolarizzazione dell’atto cognitivo liberato da ogni assioma o dogma fideistico. Ma al di là della natura pedagogica e civile, quello che più conta sottolineare, soprattutto in questa sede, è l’esperimento compiuto nell’affidare allo spazio del teatro, ai corpi degli attori e degli astanti, la verifica di principi espressi in opere di impianto teorico; il passaggio dal codice propriamente scientifico del trattato al codice drammatico, infatti, consente di spostare sul piano della percezione diretta il capovolgimento del senso comune cui gli studi e gli esperimenti fisici e matematici, da Galileo in poi, ci hanno abituato. Da questo punto di vista, l’operazione ronconiana, inaugurata con l’allestimento del Furioso, tesa ad esperire, attraverso il confronto con codici altri dalla scena, nuovi modelli di percezione, giunge con Infinities ai bordi estremi della rarefazione dell’atto della rappresentazione: se la scienza stessa, infatti, dichiara che ogni rappresentazione del mondo può essere fallace, il teatro non avrà più nulla da rispecchiare o duplicare se non un viaggio fatto di ombre e di sorprese. Il teatro/libro, cosi inteso riporta la scena drammatica nel suo alveo di nascita, quale luogo dove si esperimenta la frizione-conflitto tra il visibile e l’invisibile. E se Einstein era stato costretto ad esclamare, dinanzi agli estremi della fisica quantistica, “Dio non gioca a dadi!”75, 73G. Giorello, L’infinito come dramma della mente, cit. pag. 38.

74S. Escobar, L’infinito e la ricerca della semplicità, ivi, pagg. 18-22. Su questi percorsi vedi anche A. Bisicchia,

teatro e scienza: da Eschilo a Brecht a Barrow, Utet, Torino 2006.

75La notissima espressione, che nella sua interezza suona: “Dio non gioca a dadi con l’Universo”, è adoperata da

Albert Einstein in una famosa lettera, datata 4 dicembre 1926, indirizzata al fisico Niels Bohr , avente a tema gli eccessi epistemologici e, per così dire, ontologici derivanti dal cosiddetto “Principio di indeterminazione” elaborato da Werner Eisenberg nel corso dei primi anni ’20 e posto a fondamento della Meccanica Quantistica. Stephen Hawking, con l’amore per il paradosso caro alla cultura anglosassone, gli risponde: “Non solo Dio gioca a dadi, ma li getta dove non possono essere visti”. Nel gioco di espressioni icastiche si legge il conflitto, assai antico nel

l’atto ludico della scena può consentirsi di sperimentare l’angoscia del nulla, lo smarrimento della solitudine, la fine di ogni principio di causalità. Il merito di Ronconi sta nel modo in cui usa la molteplicità e la simultaneità, dentro l’andirivieni di una circolarità labirintica che rende continuamente instabili e l’atto della percezione e l’atto della rappresentazione. È come se ci si trovasse per caso, per puro accidente, all’interno di un gioco di cui non si conoscono le regole, o meglio, le cui regole sono stabilite dall’atteggiamento non predeterminato che ogni singolo partecipante prenderà a seconda delle situazioni. È il colpo di grazia alla scena prospettica, alle sue convenzioni, alle sue leggi fatte di ‘sguardo’ e di orizzonte delimitato. “Una nuova avventura nel linguaggio del teatro”76, una avventura che ha radici profonde nell’inesauribile sfida

tra il finito e l’infinito, in quell’angoscia del divenire che è propria del pensiero occidentale, come ci ricorda, lirico e lucido, questo frammento della nietzschiana Gaia scienza:

“Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venir notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? […] Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; […] Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? […]Non dobbiamo noi stessi diventare dei …? […] Tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto siano mai state le storie sino ad oggi!”[…] A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. 77

pensiero filosofico-scientifico, tra il principio di causalità e quello di casualità. Einstein, in sostanza sostiene che è possibile determinare la postazione e la velocità anche delle particelle infinitesimali, mentre Eisenberg, Schrödinger e Dirac sosterranno la più completa instabilità delle particelle il cui comportamento nello spazio/tempo non è