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Nell’incontro che abbiamo avuto quest’autunno, e di cui ho già detto nel capitolo dedicato, Giuliano Vasilicò ha inteso, generosamente, farmi omaggio di una serie di suoi scritti rinvenuti nel mare magnum delle sue carte. Di ‘inedito’, in senso stretto, non v’era nulla se non lo ‘scartafaccio’ di una sorta di ‘memoria culturale’ cui, mi ha detto, da tempo sta lavorando e che intende, ritengo giustamente, mantenere per sé finché non riterrà il lavoro maturo per la pubblicazione; del resto se c’è un punto su cui non v’è luogo ad incertezza è senza alcun dubbio la fascinazione dell’ ‘inconcluso’ con la quale fa i conti l’intera opera dell’artista. Sta di fatto, nondimeno, che, di comune accordo, abbiamo rinvenuto fra le carte due interventi, stesi in due momenti differenti, ma ugualmente significativi, della sua attività: il primo è del 1976 e porta il titolo L’operazione

sperimentale ed apparve su un numero di una rivista trimestrale dedicata

alle arti e alla letteratura “Carte segrete”, diretta da Domenico Javarone e Gianni Toti. Per intendere le ‘tensioni culturali’ che animavano la sede prescelta da Vasilicò per questo intervento, credo sia interessante leggere un frammento di una lettera del condirettore Toti:

... Il continuo spostamento da un'area semantica all'altra è ormai la condizione creativa minima per poter continuare a "descrivere l'universo" e contemporaneamente a "continuarne la creazione", e la critica estrema del pensiero può essere perseguita proprio dai linguaggi artistici in lotta permanente contro se stessi e le proprie soglie critiche. Quindi Carte segrete […] per la ricerca di questi buchi neri delle lingue e dei linguaggi…

La lettera è del maggio 1987 ed è indirizzata a Giorgio Di Costanzo (è archiviata nel sito del poeta-scrittore), ma il tono complessivo che, del resto, si evince anche dal frammento, è quello di una rivisitazione delle ragioni fondative della rivista, ragioni che spingono ad ospitare, appunto interventi di artisti che sono portatori di un inquieto spostamento “da un’area semantica all’altra”, in particolare portatori di “liguaggi artistici in lotta permanente contro se stessi e le proprie soglie critiche”: sono, queste, griglie d’appartenenza che attengono pertinentemente all’attività di Vasilicò.

Il periodico dedica al regista una ventina di pagine nel numero 32 (pp. 59-77) e il titolo completo della sezione a lui dedicata recita (ne riproduco

anche le differenti ‘altezze grafiche) Per un autocoscienza critica- IL

DELITTO E IL TEATRO (ovvero “il delitto del teatro” e “il teatro del delitto” e…)- GIULIANA MORANDINI presenta GIULIANO

VASILICO’ che offre le sue note di regia e di autore su L’OPERAZIONE

SPERIMENTALE. Riporto l’incipit ‘lussureggiante’ della Morandini

anche perché restituisce, fedelmente, il clima di ‘passione culturale’ con cui venne percepito, soprattutto nei circoli culturali romani degli anni ‘70, il teatro di Giuliano Vasilicò:

Un trono di doratura sinistra e velenosa come il gorgoglio del giusquiamo, in una cripta di nera opacità. Nella stessa cripta carrette lugubri e la cecità di sangue del Terrore, delle esecuzioni e degli orgasmi. Poi, questa volta in una landa di futuribile siderea congelazione, bacheche con cadaveri di omicidi bianchi ammirati come pezzi di necrofilia body-art. Da Elsinore a Sodoma a Babilonia, Giuliano Vasilicò, tende con tenacia e dolore il suo discorso sul Potere e sulla Violenza, sulla morsa dialettica che inesorabile li stringe, e caparbiamente si ancora, con ossessione da scultore furente, alla forsennata fisicità di supporti tragici, all’esplosivo magma di materia e d’orrore che l’Istituzione mostruosamente, e di continuo, genera, parto di morte.

Il frammento è alle pp. 60 e 61 del numero citato e prosegue con un’accurata descrizione delle vicende biografiche del regista intrecciate con la sua produzione e formazione culturale (nelle note del capitolo dedicato, del resto, ne ho già dato contezza). Qui mi basta annotare l’icasticità con la quale, in poche righe, l’autrice riesce a rendere il ‘segno’, il ‘geroglifico’ plastico e figurativo che si è andato configurando nei primi cinque anni di attività di Vasilicò, dal 1971 al 1976; si tratta di un viaggio che porta il regista dall’Amleto al progetto proustiano, passando attraverso le “carrette lugubri e la cecità di sangue del Terrore, delle esecuzioni e degli orgasmi” delle 120 giornate sadiane.

Lo scritto di Vasilicò, che riporto per intero nei ‘documenti’ pubblicati in questa Appendice, attraversa l’esperienza che dall’allestimento dell’Amleto (1971) lo porta, via via, attraverso il progressivo formarsi e consolidarsi del suo ‘gruppo storico’, alla scelta ‘forte’ di affrontare e di traghettare in scena alcuni grandi classici della letteratura europea e, in particolare, alla prima scelta d’impatto in questa direzione: l’opera del Marchese de Sade (1972). Il documento segna, con evidenza, sia pure dentro un dire ancora intriso di motivazioni politiche di ‘purezza rivoluzionaria’ stile anni ’70, segna dicevo la strada (un approccio quasi ossessivo) con la quale il regista costruisce i suoi teatri/libro: rinvenire la genesi dell’opera negli snodi del dolore ‘privato’ dell’autore, mettere in scena questi snodi stessi: “La seconda realtà da tenere presente è quella di

de Sade-uomo, della sua tragica esperienza”, scrive Vasilicò, continuando poi così: “Quando io penso di lui lo vedo […] nella sua situazione più abituale, obbligata nella ‘posa’ che ha caratterizzato gran parte della sua esistenza: rinchiuso nella sua cella, in catene, un corpo sfatto, due occhi disperatamente azzurri”. Sull’arretramento-viaggio verso la fase aurorale dell’opera, annidata nelle pieghe della sofferenza trasfigurata in scrittura, ho già detto in questo lavoro; qui quel che più interessa è restituire, attraverso queste note d’autore, il tono di una convinzione culturale che non scende a patti con esigenze di ‘mercato’, un tono che, a mio avviso, è annunciato fin dal titolo dell’intervento, quell’operazione sperimentale che suona quasi come un richiamo ad un ‘alchimia’ da laboratorio, modo di una ricerca inesausta di un quid non visibile nei processi epifanici di qualsivoglia codice di rappresentazione: quel quid è forse nascosto nei “due occhi disperatamente azzurri” del Marchese; Vasilicò si impone di mettere in scena ciò che quegli occhi, persi nell’orrore del perimetro carcerario, ‘vedono’, scrivere con i segni-corpo del teatro la tensione- limite che portò Sade a tracciare su carta le fantasmatiche ‘visioni’ avvenienti nell’universo concentrazionario post-rivoluzionario.

Il secondo scritto che qui propongo è apparso a distanza di quasi venti anni, nel n. 3 del 1995 della rivista “Oz. Rivista internazionale di utopie”. Il titolo dell’intervento ‘suona’ L’utopia si realizza in teatro, un ossimoro che accosta la ‘realizzazione’ dello spettacolo non al ‘compiuto’ di un’idea (le utopie sono tali se non si realizzano, infatti), ma alla manifestazione di un percorso , di una tensione verso la conoscenza. Qui riporto un ampio frammento dove, in raffronto con lo scritto apparso nel ’76, lo sfumare delle categorie tardo-sessantottine fa emergere la ‘purezza’ di un pensiero libero, gravido di una spiritualità derivata dal ‘sofferto’ attraversamento dei mondi di Proust e di Musil. Un accenno, a proposito del Progetto Musil:

La stessa realizzazione dello spettacolo trova fortissime difficoltà, e improvvise svolte (Musil rivela tesori sempre nuovi).

Il lavoro (costituito da spettacoli-prova, produzioni parallele, laboratori, verifiche) ferve da 14 anni – quasi lo stesso tempo occorso allo scrittore per scrivere (senza però terminare) il romanzo… Forse ciò che si richiede per mettere in scena Musil sembrerebbe essere proprio l’esperienza dell’atto di fede, nell’accezione più ampia. L’impegno teatrale del Gruppo tocca certamente qui il suo punto limite. La “prova” richiesta riguarda così radicalmente la vita interiore delle persone che, se l’evento si verificasse, l’esperienza potrebbe andare oltre gli scopi prefissi (conoscitivi ed artistici): la vita stessa di queste persone potrebbe cambiare; così come la loro visione dei valori; lo stesso progetto teatrale potrebbe perdere, ai loro occhi, d’importanza.

Forse questo è il crocevia: per cogliere il senso profondo di Musil, bisogna andare più avanti di lui… Ma qui si tocca il problema delicato del ruolo delle svolte spirituali nell’avventura dell’arte. Anzi, del ruolo dell’arte nell’avventura spirituale…

Gli accenti, quasi mistici, che chiudono l’intervento, spiegano, forse, appieno lo scopo che voglio raggiungere nel riprodurre l’articolo in quest’appendice. A distanza di più di vent’anni dalla travolgente esperienza del Sade e del Proust, che lo avevano imposto all’attenzione nazionale e internazionale, Vasilicò sembra qui confermare d’avere ‘deliberatamente’ scelto una strada che, distanziandolo dall’ossessione ‘produttiva’ e ‘presenzialista’ che pure si poteva consentire dopo i clamorosi successi, addirittura lo porta a porre in dubbio l’ “importanza del progetto teatrale”. La ‘sofferente ebbrezza’ del margine che l’artista sperimenta su di sé e nella quale coinvolge i suoi compagni di strada (quel “Gruppo” più volte richiamato) lo conduce a meditare sul rapporto vita- opera questa volta con un forte impatto sulla sua stessa esistenza. Era inevitabile. Se la diade in questione, come s’è visto nel capitolo dedicato, è l’asse portante del traghettamento/travestimento teatrale dei romanzi scelti, quel navigare inconcluso tra vicende biografiche e infinite biblioteche disseminate nelle pagine oggetto del lavoro, quell’imporsi costantemente la pratica reale dell’opera aperta (“spettacoli-prova, produzioni parallele, laboratori, verifiche”) destina Vasilicò a fare della sua stessa esistenza un progetto inconcluso. Il regista sembra lasciarci intendere che “l’esperienza dell’atto di fede” di cui parla è, di fatto, la sua stessa vita; “un cammino fatto di prove che segnano le fasi dello sviluppo della coscienza”, dirà poco prima nello stesso scritto. Ho già dato conto, nel capitolo, degli approdi ‘ineffabili’ di un tale percorso all’interno della “depressione ciclonica” di un’io artistico disposto ad ‘annullarsi’ nei meandri degli oggetti della sua ricerca; parlo di quell’ “andare più avanti di Musil” in un viaggio “verso i confini dell’esperienza religiosa”: ed ecco il progetto del Vangelo secondo Giovanni che ha preso il via nel Settembre di quest’anno (2009) nell’ambito della rassegna dedicata a I

teatri del Sacro presso il Teatro del Giglio di Lucca e di cui il regista mi

ha parlato nel nostro incontro con il fervore di un rinnovato entusiasmo ‘infantile’ (chiunque ha avuto modo di conoscere Vasilicò sa che i segni ‘bambini’ del suo soma sono direttamente proporzionali allo ‘stupore’ con cui ha sempre affrontato i suoi percorsi d’arte). Siamo di fronte all’ultimo dei suoi teatri/libro, una sfida che, non a caso si esercita sul più ‘aperto’ dei Vangeli, quel libro di Giovanni che contiene la profezia apocalittica e che ha più punti centrifughi e sconcordanti sulla biografia del Cristo che

lo rendono, di fatto, ‘altro’ dai Sinottici di Luca, Marco e Matteo. Non ho ancora avuto modo di assistere allo spettacolo che ne è seguito, tuttavia la lunga gestazione del Progetto Musil (dal 1981 fino alla fine degli anni ’90), così come è testimoniata dallo scritto che pubblico in questa

Appendice, ha un ruolo determinante sulle attuali scelte di Vasilicò, una

complessa interiorizzazione di un’utopia di rinnovamento che è confermata , anche, dalle brevi note di regia che accompagnano la scheda dello spettacolo (materiale, come altri, concessomi dal regista):

Nel Vangelo secondo Giovanni, l’apostolo prediletto descrive un modo nuovo di essere uomini, un rinnovamento generato e reso possibile solo dalla potenza di Dio e dalla Fede. In Giovanni, più che nei “sinottici”, la salvezza è attualizzata: è già presente nell’intimo dei cuori e la vita eterna è già posseduta nella Fede. L’uomo auspicato da Giovanni è capace di amare il nemico, di porgere l’altra guancia, atteggiamenti attuabili solo con l’aiuto di Dio. La Compagnia Gruppo di Ricerca Progettazione Teatrale diretta da Giuliano Vasilicò lavora da sempre su quella che considera la “vocazione” principale dell’arte teatrale: “sperimentare nella finzione scenica nuovi modi di essere uomini”, in questo spettacolo l’Uomo Nuovo nella visione cristiana. Gli attori cercano di rivivere nello spettacolo il mistero della Fede e di trasmetterlo agli spettatori coinvolti in un’esperienza che può essere vissuta quasi come se fosse vera e divenire un’utile riflessione anche per la nostra vita. Grazie ad un complesso lavoro drammaturgico, il testo biblico si trasforma così in partitura scenica e non in una semplice trasposizione letteraria sottolineando ed amplificando il valore sacro e mistico del Vangelo di Giovanni.

“In Giovanni […] la salvezza è attualizzata”. Ecco, forse, è qui la chiave dell’ossimoro presente nel titolo del saggio del ’95 che segue, quel

L’utopia si realizza a teatro sta ad indicare che, per Vasilicò, il ‘non

luogo’ della palingenesi umana ha sede nel labirinto inesplorato della geografia interiore dell’animo umano, “nell’intimo dei cuori”. Ora, al di là di questa svolta di conversione che merita, naturalmente, il più acceso dei rispetti, quello che qui mi preme sottolineare è la conferma di quanto peso specifico abbia avuto nella vicenda artistica di questo autore di teatro la diade vita-opera, crogiuolo nel quale Vasilicò ha affondato per decenni il suo bisturi d’analisi testuale. Ora questa diade s’innerva nella sua carne e in quella di chi lo affianca (notiamo che l’autore delle musiche e delle scene del Vangelo è quell’Agostino Raf, compagno di un’avventura ininterrotta fin dal 1970) e chi vive il risultato della sua opera non può che restare coinvolto: quegli “spettatori coinvolti in un’esperienza che può essere vissuta quasi come se fosse vera” divengono parte integrale della “partitura scenica” del testo biblico. Il participio “vissuto” che sostanzia il

modo di percezione dell’opera, più che l’atto passivo del ‘vedere’, costituisce un punto di saldatura che unisce l’esperienza e la riflessione di tutti gli autori di teatro/libro che qui analizzo. Un punto di riflessione, in chiusura di questa nota, legato ancora al titolo dell’intervento di Vasilicò: l’esperienza del ‘non luogo’, l’utopia che può realizzarsi a teatro, appunto, può verificarsi, solo, se ogni singolo spettatore è disponibile a superare la meccanica dell’atto comunicativo, a rinunciare d’essere destinatario della comunicazione, per lasciarsi traghettare, come singolo individuo, in quanto corpo-mente, nel ‘vissuto’ che gli propone l’ou-topos teatrale, quell’altrove nato in un libro…

L'operazione sperimentale

di Giuliano Vasilicò

(in “Carte Segrete”, anno X, Aprile-Giugno 1976- n. 32, pp. 69-76)

Scelta del testo

Il testo, nel senso di tema di un romanzo o di un racconto o di un dramma,

rappresenta nel mio teatro (quando sia stato scelto per un'operazione teatrale) l'esperienza artistica, culturale, umana con cui confrontarsi per trarre lo spettacolo. Il testo scelto (e la scelta si farà sempre in base al grado di provocatorietà e di fascino) non sarà quindi come in altra avanguardia semplice pretesto “per dire certe cose”, ma una realtà da cui non si può mai prescindere, in quanto motivo scatenante del nostro fare teatro. Questo atteggiamento nei confronti del testo presuppone un viaggio all'interno dell'universo del testo stesso, universo i cui elementi non sono da considerarsi solo la “storia” e le situazioni che propone, ma anche il contesto sociale, culturale politico in cui esse sono inquadrate, la vita dell'autore e la vita del testo stesso attraverso le varie epoche: reazione dei lettori, censure, equivoci, volgarizzazioni, strumentalizzazioni ecc...Da questo viaggio, che avremo fatto in

piena ricettività, usciremo con opinioni personali, immagini, situazioni teatrali che verificheremo sul palcoscenico.

La scena è la nostra prova della realtà: farà il punto della nostra situazione sulla strada della realizzazione dell'opera, ci darà delle risposte. Attraverso questa verifica imposteremo la nostra operazione teatrale che determinerà tutto il lavoro da portare avanti.

Lavoro sugli attori – L'Amleto – Le 120 giornate

Quando si sceglie un testo da fare rivivere in teatro lo si sceglie non solo in base alla sua attualità e contundenza (nei riguardi del pubblico), ma anche in base alle possibilità che il testo (e la conseguente operazione) possiede di rappresentare un'occasione di arricchimento spirituale, di presa di coscienza di certi problemi, in una parola di “educazione” per gli attori, per il regista, e per tutti coloro che lavoreranno alla teatralizzazione del testo stesso.

A seconda del tipo di indagine, di ricerca, di operazione che ci interessa fare sulla sostanza del testo scelto, varierà l'impostazione del lavoro sull'attore. Non avremo quindi un metodo di lavoro comune per tutti gli spettacoli, ma agiremo sempre in modo diverso, a seconda dell'operazione teatrale, a seconda che si tratti di Shakespeare o di de Sade e a seconda del nostro particolare atteggiamento nei loro confronti. Se l'operazione, come è avvenuto per la messa in scena dell'Amleto, sarà, come è stata, di sintesi politica, il lavoro sugli attori avrà particolari caratteristiche.

La nostra Compagnia ha messo in scena “Amleto” nell'estate 1971. Fino dalle prime riletture era apparsa evidente la necessità di un drastico sfoltimento dei personaggi (nel testo sono circa trenta) in modo da convogliare tutte le energie su quei quattro che ci sembravano i principali: Amleto, il Re, la Regina, Ofelia. E ciò non solo per la maggiore incandescenza e drammaticità di questi personaggi (dovute ai particolari rapporti che li legano, ai segreti che nascondono, all'influenza che ha su di loro la provocante vicinanza del Trono) ma anche e soprattutto per l'operazione di sintesi politica che m' interessava varare. La maggior parte dei personaggi in “Amleto” non sono infatti altro che prolungamenti o doppioni di quelli principali. Polonio, Rosencrantz, Guilderstern sono prolungamenti del potere del Re, fedeli esecutori dei suoi ordini e possono benissimo essere incamerati dal personaggio sovrano che li comanda. Orazio, Laerte, Fortebraccio sono sfaccettature, possibilità del personaggio di Amleto, nel caso che questi non fosse nato “figlio di re” o che fosse sopravvissuto all'ultimo duello. Fortebraccio è un Amleto che è riuscito a uccidere tutti e che diventa re (ed è ovvio, fra l'altro, che anche con il pallido erede sul trono niente sarebbe cambiato in Danimarca!); Amleto può così non morire alla fine della tragedia (che non sarà quindi più tale nel senso classico) manovrare lui stesso il fantasma del padre, sostituirsi a Laerte nella posizione di fratello di Ofelia, che diverrà, di riflesso, sorella-amante del principe e figlia della coppia regale. La regina può assorbire l'ipotesi di una sua connivenza nel regicidio, partecipare all'avvelenamento del marito e nello stesso tempo piangerne sinceramente la perdita...

La riduzione dei personaggi e la conseguente dilatazione dello spazio drammatico dei prescelti, comporta un lavoro sugli attori, che impersoneranno

questi ultimi, volto alla conoscenza, sulla propria pelle, delle varie esperienze di tutti i personaggi esclusi. L vita e la morte di essi dovranno quindi far parte dell'esperienza personale, come una variazione possibile del proprio destino. I quattro attori dovranno lavorare in questa direzione, vivere e nello stesso tempo assistere alle proprie vicende, da tutti i punti di vista, (e allora la straordinaria ricchezza e molteplicità della sostanza shakespeariana non verrà intaccata, nonostante appunto la riduzione). La conoscenza dei vari destini, sarà per gli attori la consapevolezza di TUTTA la tragedia “Amleto”, vissuta nel Centro Creativo dell'”Esperienza William Shakespeare”, e del senso del nostro viaggio all'interno del suo mondo.

Operazione completamente diversa, e quindi diverso lavoro sull'attore, hanno caratterizzato le “120 Giornate di Sodoma”, lo spettacolo tratto dal romanzo del Marchese de Sade e che la Compagnia ha messo in scena nel novembre 1972. In questo caso l'inflessibilità del Destino che marchia una parte, quella vittimale, del mondo sadiano (parte che, per impostazione e “regolamento”, non può permettersi neppure di sospettare l'esistenza per sé di possibilità diverse) esige un lavoro sull'attore diretto all' “incarnazione” di quell'unico destino.

De Sade divide le sue orgiastiche società in due grandi classi: quella dei libertini e quella delle vittime. La prima classe può permettersi tutto, dall'uccidere al filosofare. La seconda non può permettersi nulla se non mostrare i pochi segni che la caratterizzano: l'urlo, il lamento, il gesto di obbedienza (che in de Sade consiste quasi sempre nel porgere il proprio “di dietro”).

Questa ferrea chiusura alle variazioni, ai passaggi da una classe all'altra, impone