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Scrive, felicemente, Oliviero Ponte di Pino in un suo studio del 1988:

Attraverso queste traiettorie eccentriche si disegna un viaggio alla scoperta del teatro: o meglio, una moltitudine di percorsi che reinventano via via altrettanti teatri possibili. Non si tratta tanto di rinnovare il linguaggio teatrale "dall'interno", quanto di aggredirne i margini, ridefinirne il senso e la funzione muovendosi sui suoi limiti, misurandosi con i segni e il panorama della contemporaneità, con le sue suggestioni e contraddizioni79.

79O. Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano (1975-1988), Ponte alle Grazie, Milano 1988. Sono numerosi e rilevanti

gli studi sulla stagione del cosiddetto ‘teatro sperimentale’ che, a partire dalla metà degli anni ’60 fino alla fine del decennio successivo ebbe nella ‘scuola romana’ il suo centro propulsore più forte; qui, oltre il testo del Ponte di Pino, vanno ricordati, almeno, F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali-1960-1976) , 2 voll. , Einaudi, Torino 1977; G. Bartolucci, A. e L. Mango, Per un teatro analitico-esistenziale. Materiali del teatro di ricerca, Studio forma, Torino 1980. Accanto a questi studi, fondamenti storici di una critica pur’anche militante, per uno sguardo d’insieme al contesto culturale nel quale questo processo si sviluppa e per una messa a punto dei principali approcci critici si consulti il III volume della Storia del teatro moderno e contemporaneo diretta da R. Alonge e G.

Tra gli artisti che, negli anni settanta, si muovono su "queste traiettorie eccentriche" c'è Giuliano Vasilicò che, dopo timidi tentativi drammaturgici80, scopre nei romanzi il territorio dei "teatri possibili".

Da Le 120 giornate di Sodoma al Proust sino a L'uomo senza qualità a

teatro, il regista che prende ‘casa’ al Beat 72 (dopo che già vi aveva

lasciato il segno Carmelo Bene)81 va sperimentando una scrittura scenica

che sia corpo 'visivo' della tessitura percettiva contenuta nelle maglie di romanzi estremi, anch'essi tentativo d'una narrazione che esprima la complessità dei corpi più che il loro agire in una storia plausibile. L'incontro con Sade nel 1972 (è con questo allestimento che esplode il ‘caso’ Vasilicò), ad esempio, gli consente di rinvenire una possibile genesi del rapporto tra delitto e teatro, una suggestione che Vasilicò aveva derivato da Jean Genet e che nel romanzo filosofico del Marchese trova un modello di estenuata esaltazione: l'estrema 'durezza' del corpo sadiano. In Sade "la Ragione eccitata instaura un drammatico colloquio con la Follia e l'Intelligenza scende ad un concitato confronto con il corpo"82 ,

ne nascono testi la cui referenzialità corporea è tale che il confronto con la parola determina una zona di percezione sensibile non connotabile come territorio retorico di lettura e riflessione, quanto piuttosto come sfida al perimetro della morale e, dunque, territorio della visione onirica letteralmente 'sfrenata'. Non è un caso che i Surrealisti indichino in Sade uno dei loro modelli83, così come, di fatto, Sade diviene, per Vasilicò,

Davico Bonino, Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento, Einaudi, Torino 2001.

80 “Un dramma di Albee Chi ha paura di Virginia Woolf? Lo stimola a scrivere il primo lavoro teatrale Missione

psicopolitica che costituirà, dopo il ritorno in Italia (1968), la base per il suo primo spettacolo. […] Più duramente

politica è la storia successiva, Occupazione che sa raccogliere tutta la potenzialità drammatica della difficoltà privato/pubblico scavata dall’ondata di contestazione del ‘68”; così testimonia Giuliana Morandini nella

Presentazione all’intervento-saggio di Vasilicò L’operazione sperimentale sul numero 32 della rivista “Carte

Segrete” dell’Aprile-Giugno del 1976 alle pp. 63-64. Del 1971 è l’allestimento di un suo Amleto (scherzosamente Vasilicò dice: “Se i miei testi in scena non vanno, se proprio devo allestire il testo di un altro, scelgo il più bello che sia mai stato scritto”) e , forse opportunamente, la Morandini già intravvede in questo Amleto lo sviluppo della stagione dei grandi romanzi a teatro, infatti scrive, nel suo scritto citato, alle pp. 64-65: “Così Giuliano Vasilicò ritorna a Elsinore, lui stesso è il principe-attore che impazzisce nella dialettica tra delirio e teatro, tra dimensione intima e ostensione coram populo dello scandalo, dell’innominabile. […] E non solo Amleto salda delitto e teatro e scopre nel delitto la caverna stessa del teatro. Introduce anche la natura quadruplice del rapporto, la duplicazione della coppia secondo Jacques Lacan, la sadica emblematicità del numero quattro (le due coppie sono

Claudio/Gertrude e Amleto/Ofelia ndr), numero destinato a essere multiplo obbligato del confronto con il Marchese

de Sade”.

81 Cfr. Ivi, p.63.

82La citazione è tratta da Daniele Gorret, La filosofia di Sade ovvero i lumi accecanti, postfazione a D.A.F. De Sade,

La filosofia nel boudoir, S E, Milano 1986, pag. 173.

83 Oltre la nota citazione nell’elenco degli autori “surrealisti” nel Manifesto del Surrealismo del 1924, ci piace

ricordare qui un componimento di Bretòn tratto dalla raccolta L’air de l’eau del 1934: “Sade è tornato all’interno del vulcano in eruzione/Dal quale era venuto/Con le sue belle mani ancora frangiate/i suoi occhi da giovinetta/E quella ragione da fiore di si-salvi-chi-può che fu/Solo sua/Ma dal salotto fosforescente a lampade di viscere/Non ha cessato di lanciare ordini misteriosi/Che aprono una breccia nella notte morale/Attraverso questa breccia vedo/Le grandi ombre vacillanti la vecchia scorza minata/Dissolversi/Per permettermi d’amarti/Come il primo uomo amò la prima

l'inizio d'un viaggio, per corpi e immagini, in luoghi o spazi concentrazionari quanto irrisolti, come dire quadri della mente che instaurano un rito per corpi partecipanti. Il lavoro di Vasilicò, difatti, tende, fin da queste prime esperienze, a misurare i tempi di costruzione dell'azione scenica sull'attività di laboratorio con un gruppo folto di compagni di viaggio84 con i quali il confronto avviene sul terreno

'liminale' del corpo, spinto oltre il gesto quotidiano verso una dimensione quasi rituale, cara forse alle suggestioni schechneriane che appartengono al periodo svedese di formazione85. Annoto quanto mi dichiara egli stesso,

a proposito della fase preparatoria delle 120 Giornate, in un incontro che abbiamo avuto di recente:

All’apertura del cantiere cominciammo con il leggere le lettere che Sade scriveva dalla Bastiglia dove era rinchiuso…durante la lettura provavo delle sensazioni che quasi mi facevano star male…poi passammo all’opera, le 120

giornate, un libro che segna un passaggio epocale che sembrava dirci: “andiamo

fino in fondo nella scelta del male”…avvertii subito che si trattava di toccare un limite (a me interessa molto sondare i confini, saggiarne i margini). All’inizio delle prove si trattava di verificare se Sade era abbastanza ‘corposo’ da poter

donna/In tutta libertà/La libertà/Per la quale il fuoco stesso s’è fatto uomo/Per la quale Sade sfidò i secoli con i suoi grandi alberi astratti/Con acrobati tragici/Aggrappati alla fibrilla del desiderio.” La traduzione è di Giordano Falzoni in Ivos Margoni (a cura di), Per conoscere Bretòn e il Surrealismo, Mondadori, Milano 1976, pp. 547-8.

84Li ricordo nell’ordine cronologico del loro aderire all’avventura teatrale di Vasilicò: ; Lucia Vasilicò, sorella del

regista, vive a Roma dal 1960. Ha studiato danza classica, recitazione, danza primitiva, mimo, ha fatto esperienze come attrice cinematografica(Fellini, Wharhol ecc.) e come doppiatrice. Divide i suoi interessi fra letteratura (ha pubblicato un romanzo: Natale con i tuoi) e teatro. Collabora dal 1969 con il fratello: partecipa alla creazione degli spettacoli e ne interpreta i ruoli fondamentali, di cui spesso inventa o adatta il testo; Agostino Raff, veneto, vive a Roma dal 1952. Ha studiato Architettura. Collabora con Vasilicò dal 1970 in qualità di costumista, scenografo, musicista; Fabio Gamma, ligure, vive a Roma dal 1968. Nasce come attore nel teatro tradizionale – Sofocle al Teatro Greco di Siracusa – L’Aretino al Teatro Stabile de L’Aquila…La sua scelta sperimentale risale al 1970 (Brecht con Luciano Meldolesi), l’incontro con Vasilicò è del 1971 (il regista lo definirà come il suo Alter ego interno allo spettacolo; Ingrid Enbom, svedese, studentessa universitaria a quel tempo. Si trasferisce a Roma nel 1968. Partecipa a tutti gli spettacoli di Vasilicò, fatta eccezione per L’uomo di Babilonia; Goffredo Bonanni, vive a Roma, dove, a quel tempo, studia Architettura. Si unisce al gruppo nel 1972 quale collaboratore artistico. Ha l’importante funzione di coordinare i vari elementi che si vanno formando durante le prove: scene, luci, trucchi, costumi, gesti, inoltre partecipa, anche, come attore. Cfr. G. Vasilicò, L’operazione sperimentale, in “Carte Segrete”, cit., pp. 77-78.

85Vasilicò risiede in Svezia tra il 1960 e il 1968, soprattutto nella capitale Stoccolma; qui, come mi ha raccontato

nell’incontro dell’autunno scorso (vedi nota particolareggiata più avanti), ha modo di internazionalizzare la sua cultura e anche grazie all’incontro con Ingrid Enbom si sensibilizza alle forme più avanzate di performance che si andavano sperimentando soprattutto tra i gruppi politicamente più impegnati. È in questo periodo che comincia a ‘flirtare’ con il grande romanzo europeo, in particolare affronta, con dedizione inesausta , quasi di un fiato, la lettura dell’ Ulisse di Joice; Cfr. anche G. Morandini, Presentazione a…cit. , dove, tra l’altro alle pp. 61-62, leggiamo: “… ritroviamo Vasilicò, terminati appena gli studi liceali, in Scandinavia dove rimarrà, salvo alcuni intervalli, per quasi otto anni. Nella melanconia di una rinnovantesi mitica Elsinore, confluisce […] tutta la congerie, l’infernale intrigo, lo spessore di passione degli eventi del mondo: sbocco primo di tutte le informazioni, notizie senza censura, prove di tutte le avanguardie […] In Svezia Vasilicò […] vede il nuovo teatro americano: il Living, il Cafe La Mama; partecipa ai primi happenings; ‘scopre’ i films della Nouvelle Vague francese; […] legge in originale Ginsberg, Kerouac e, paradossalmente nelle biblioteche di Stoccolma, Pavese, Vittorini, Levi, Moravia, Parise…; frequenta a Lund corsi di letteratura nordica e di teatro…”

essere messo in scena, ma sentivo l’affrontare quest’opera quasi inevitabile (durante l’esperienza dell’Amleto qualcosa mi sfuggiva…) . Con me erano amici e conoscenti, attori (che già avevano partecipato all’Amleto) ed altri che provenivano da esperienze diverse…C’era mia sorella Lucia, decisiva nel Sade, Giorgio Ginori (Fabio Gamma) ed altri. In tutto una decina di persone. Il primo atto fu quello di schierare i dieci lungo una parete, in piedi, come la scena di una fucilazione, e ciascuno doveva urlare il proprio nome, così come avviene nell’opera di Sade, quando le vittime vengono portate al castello in Svizzera. Io ho fatto urlare il proprio nome a ciascuna di queste dieci persone e poi l’elenco delle vittime del romanzo…si trattava di evocarli quei corpi…urlando il loro nome e il proprio.86

Ora, sia pure con modalità diverse da quelle del Laboratorio di Prato,

Vasilicò costruisce, col suo gruppo d'attori il repertorio dell'invenzione corporea dentro le misure dello spazio che conterrà l'azione: è il principio della cenestesi, lo spazio-corpo che crea una zona terza tra lo spazio reale e quello pensato, attraverso gli in/finiti segmenti dell'azione iterata87.

Riporto, ora, una testimonianza interessante relativa all’allestimento del

Sade al Beat 72:

La prima cantina che ho visto è stata quella del Beat 72. Si chiamava così perché “beat” era una parola magica che coniugava cultura e stili di vita, e 72 perché si trovava al numero 72 di via Gioacchino Belli. Aveva un ingresso molto piccolo, con una stretta scala che andava giù ripidissima. […] Si scendeva e c’era una specie di piccolo antro che serviva da biglietteria, un corridoio a fungere da foyer e poi tre vani in successione, ad arcate. Un’altra stanza, attigua all’ultimo di questi vani, serviva per deposito e camerini. L’unica entrata, e quindi anche

86Questi ed altri frammenti che citerò, sono il risultato di un intenso incontro che ho avuto con Giuliano Vasilicò

nella sua casa-studio di Roma nell’autunno di quest’anno (tutte le citazioni relative a dichiarazioni di Vasilicò, al di là di questa ovviamente, non coperte da note di riferimento si richiameranno all’incontro indicato). Un’interminabile, ‘passionale’ immersione tra le sue carte e la vivezza ‘luccicante’ del suo racconto fatto di pause (la sua mitica balbuzie è segno, in realtà, dell’intermittenza costante tra il pensiero e l’inadeguatezza della parola) e di accelerazioni improvvise. Era dagli anni ’80 che non incontravo Giuliano, dalla ‘dannata’ riunione dell’Atisp- Agis, cui ho già fatto cenno. L’ho rivisto, in questa occasione, ancora più ‘angelico’ di quanto lo ricordassi (una natura che lo ha portato, di recente, a proporre in scena, me lo ha raccontato con un tono colorato da un tenue pudore ‘infantile’, il libro del dolore ‘sanguinoso’ per eccellenza, il vangelo, nell’ambito della rassegna Teatri del sacro e che vedrà in scena lo spettacolo Dal Vangelo secondo Giovanni nel dicembre di quest’anno al Teatro San Genesio di Roma, dopo aver debuttato in settembre al Teatro del Giglio di Lucca), ma senza rinunciare ad una curiosità intellettuale tutta concreta: “Cosa intendi per ‘percezione?’ ” e giù a volersi sorbire tratti del ‘brogliaccio’ del volume che andavo componendo, per condividere il senso pieno del nostro incontro. Lo ringrazio, qui, caldamente per aver voluto ‘mescolare’ le sue carte alle mie, l’avermi lasciato intendere che il non-concluso farsi dei suoi progetti è figlio di una voglia inesausta di conoscere che si spinge in un territorio che, in definitiva, irride la tronfia saccenza della ‘perfezione tecnologica’ degli odierni ‘professionisti’ del teatro di ricerca. I ‘vincitori’ della svolta ‘gestionale’ del teatro di sperimentazione, tutti, oggi, s’arruffano e s’azzuffano intorno alle prebende e ai ruoli istituzionali, lui, Giuliano, in quella lunga nostra giornata, ancora si chiedeva, con l’ansia di un bambino che non ha fatto i compiti, quando diavolo scadeva la domanda per le sovvenzioni ministeriali per il teatro. Lui non ha certo a disposizione uno staff di giovani stagiste che gli faccia il lavoro ‘sporco’, lui, poeta sopra-(v)vivente, vive ancora la burocrazia d’azienda come l’intrusione fastidiosa di uno stuolo di cavallette che rischia di distruggere il buon grano biondo che hai saputo coltivare. Gli auguro, da queste pagine, buon lavoro.

l’unica uscita, era la porticina in alto. Era il 16 novembre 1972, la sera del debutto di uno spettacolo che immediatamente diventò celebre e fu tra quelli italiani più visti all’estero: Le 120 giornate di Sodoma di Giuliano Vasilicò. […] …in seguito le “Giornate” esplosero e solo a Roma restarono in cartellone per oltre quattro mesi. Vasilicò, reduce l’anno prima da un buon successo di pubblico e critica di un suo Amleto, scompose il testo di De Sade sintetizzandolo in ventuno scene, immerse in un buio totale solcato da fasci luminosi. Colpiva l’interazione tra i frammenti testuali, gli interventi musicali martellanti ed il ritmo impresso, tutto scandito sul vorticoso movimento dato ai carrelli che trasportavano gli attori, un po’ come nell’Orlando furioso di Ronconi. Qui l’impatto era però molto più violento, sia per l’estrema vicinanza della scena sia per l’aggressività e la forza del testo, che trovava nel delirante rigore visivo un’ideale esplicazione. Una sinfonia di fantasmi lussuriosi che si materializzavano dal nero e giravano vertiginosamente alla luce per poi ritornare ad essere ingoiati dalle tenebre. […] Tanto lo spettacolo riuscì ad essere forte a livello di immagine ed emozionale che diventò una specie di icona. In un volume fotografico di Christopher Makos, il fotografo preferito Da Andy Warhol, alcune pagine sono dedicate proprio alle “Giornate” come esempio di icona punk88.

Un “piccolo antro”, un “corridoio” e, ancora, “tre vani in successione, ad arcate”, frammenti descrittivi di una sorta di spazio iniziatico in cui le ventuno scene si snodano in un “buio totale solcato da fasci luminosi”. Come a dire che Vasilicò lavora ad un distillato di visioni che aprono la sfida, per lo spettatore, di un’attenzione percettiva costantemente allertata fra fantasmi che si fanno, d’improvviso, inattesa durezza corporea ravvicinata, mentre i continui richiami al testo del marchese de Sade sono scanditi da un ritmo “martellante” di voce e musica destinata a determinare una epoké ipnotica: un presente che si fa tempo sospeso, tempo della memoria. Ma tutto questo non può che essere il risultato di un viaggio, un viaggio che ha inizio fin dalla scelta del testo che viene considerato come il terminale di una lunga serie di inferenze e stratificazioni. Scrive Vasilicò:

Il testo, nel senso di tema di un romanzo o di un racconto o di un dramma, rappresenta nel mio teatro (quando sia stato scelto per un'operazione teatrale) l'esperienza artistica, culturale, umana con cui confrontarsi per trarre lo spettacolo. Il testo scelto (e la scelta si farà sempre in base al grado di provocatorietà e di fascino) non sarà quindi come in altra avanguardia semplice pretesto “per dire certe cose”, ma una realtà da cui non si può mai prescindere, in quanto motivo scatenante del nostro fare teatro. Questo atteggiamento nei confronti del testo presuppone un viaggio all'interno dell'universo del testo stesso, universo i cui elementi non sono da considerarsi solo la “storia” e le situazioni che propone, ma

88 N. Viesti, Il teatro delle cantine alla soglia degli anni Settanta. Si tratta di un intervento che l’autore ha proposto

nell’ambito del corso di Organizzazione ed economia dello spettacolo, tenuto da Cristina Valenti presso il DAMS di Bologna nel corso dell’anno accademico 2001-2002. Lo leggiamo dall’archivio di “ateatro”, 2003.

anche il contesto sociale, culturale politico in cui esse sono inquadrate, la vita dell'autore e la vita del testo stesso attraverso le varie epoche: reazione dei lettori, censure, equivoci, volgarizzazioni, strumentalizzazioni ecc...89

Certo, tutto ciò fa parte di un ‘normale’ armamentario per una buona ‘regia critica’, ma la rilevanza che nella storia teatrale di Vasilicò assume l’attenzione alle vicende biografiche dell’autore scelto, la cura, ad esempio, riservata “all’apertura del cantiere” del Sade alla lettura collettiva delle lettere che il Marchese scrisse dalla Bastiglia alla moglie, dove vi si intrecciavano le sofferenze personali e le cupe fantasmagorie sessuali di un’ ‘utopica’ liberazione e rivoluzione finale attraverso il delitto, ci lascia intendere che peso possano assumere, in un’operazione così costruita, “la vita dell’autore e la vita del testo stesso attraverso le varie epoche: reazione dei lettori, censure, equivoci, volgarizzazioni, strumentalizzazioni”. Si tratta, insomma, di volere sottolineare una precisa tensione a mettere in scena più che un’opera, un percorso compositivo la cui ‘sofferenza’ è la genesi stessa della scrittura ed ha la stessa durezza dello scandalo che provocherà alla lettura. Ancora Vasilicò:

Operazione completamente diversa [si riferisce all’Amleto da poco allestito, n.d.r), e quindi diverso lavoro sull’attore, hanno caratterizzato le “120 giornate di Sodoma”, lo spettacolo tratto dal romanzo del Marchese de Sade e che la compagnia ha messo in scena nel novembre 1972. In questo caso l’inflessibilità del Destino che marchia una parte, quella vittimale, del mondo sadiano (parte che per impostazione e “regolamento”, non può permettersi neppure di sospettare l’esistenza per sé di possibilità diverse) esige un lavoro sull’attore diretto all’ “incarnazione” di quell’unico destino.90

Ecco, l’ “incarnazione dell’unico destino” è, da Vasilicò esperita, come si vede nella sua dichiarazione precedente, attraverso un esercizio di perdita del proprio ‘io’ da parte dei partecipanti al suo laboratorio di allestimento: si ricorderà, infatti, cosa mi ha dichiarato il regista, a proposito dell’inizio delle prove, quell’ “ho fatto urlare il proprio nome a ciascuna di queste dieci persone e poi l’elenco delle vittime del romanzo…si trattava di evocarli quei corpi…urlando il loro nome e il proprio” suona come l’inizio di un processo del corpo attoriale verso la totale immersione nell’universo sadiano: ogni corpo d’attore dovrà farsi macchina di dolore per sé e di ‘oscena gioia’ per lo sguardo carico di violenza degli astanti. Il ‘piacere’ del delitto sadiano sembra qui porsi quasi a metafora dell’ ‘oscenità’ dello sguardo teatrale, uno sguardo che si trova, di fatto, ad 89 G.Vasilicò, L’operazione sperimentale, in “Carte Segrete”, Anno X , Aprile-Giugno 1976, n. 32, p. 69. 90 Ivi, pp. 71-72

estetizzare il dolore altrui per il proprio piacere e Vasilicò sembra esserne pienamente consapevole:

De Sade divide le sue orgiastiche società in due grandi classi: quella dei libertini e quella delle vittime. La prima classe può permettersi tutto, dall’uccidere al