• Non ci sono risultati.

LA VOCE DELL'INORGANICO Il teatro/libro Pinocchio.

III. 1 “Ho descritto la voce dell’in-organico”.

III. 2 C’era una volta un pezzo di legno…

Se vogliamo considerare l’oggetto libro quale traghetto privilegiato della vibrazione dell’in-organico, il “soggettile” che conserva la natura viva dell’atto creativo, come amerebbero dire Artaud e Derrida113, non v’è

alcun dubbio che il Pinocchio di Carlo Collodi costituisca, nell’ambito della produzione di Carmelo Bene, l’esempio più concreto del grado di consapevolezza con cui l’artista salentino adopera quello che lui chiama “l’altro codice” all’interno della sua scrittura scenica. La costruzione del teatro/libro intorno alla figura del burattino inizia, come è noto, nel 1961 per giungere, attraverso varie edizioni, all’ultima versione del 1998 su cui 112Ivi, Traccia 16. Nostalgia dell’in-organico.

è esemplata la preziosa edizione televisiva dell’anno successivo114. Non è

un caso, tra l’altro che, accanto alle numerose edizioni teatrali, Bene abbia dato vita ad una sorta di work in progress multimediale, con numerose edizioni radiofoniche, con un audio-libro nel 1981, e con una specifica produzione bibliografica, a partire dal volume Pinocchio Manon e

proposte per il teatro, per i tipi Lerici nel 1964, passando per l’edizione

Giusti del 1978 sino al volume a due voci tra scena e quinta, pubblicato

con Giancarlo Dotto per conto della Casa Usher di Firenze nel 1981115.

Una molteplicità di traghetti in-organici, dunque, offerti alla navigazione della macchina attoriale di Bene-Pinocchio. In questo volume, pur dando conto, quando necessario, di quel che emerge, soprattutto nelle riflessioni dell’autore, tra le varie versioni, mi occuperò essenzialmente dell’edizione del 1998 sulla quale è allestita l’edizione televisiva del 1999. Ciò, intanto, perché credo che lo spazio di un capitolo non possa esaurire l’analisi di un viaggio cosi lungo e complesso, ma anche perché l’ultima edizione pone, con evidenza visiva e fattuale, al centro l’oggetto libro, organon-partitura continuamente sottoposto a lettura-riscrittura vocale e corporea dalle macchine attorali di Bene e della Sonia Bergamasco.

Accanto al libro vi sono altri segni che, per metonimia, lo accompagnano sottolineando, con evidenza, la retorica para-pedagogica di cui è stato gravato, nel tempo, il volume di Collodi; leggiamone la descrizione che ne fa, sulle pagine de “La Repubblica”, Rodolfo Di giammarco:

Una volta tanto la messa in onda oltre la mezzanotte d' un evento teatrale rispetta alla lettera l' animo assolutamente notturno dell' artista che appare in video. è davvero un bell' omaggio a Carmelo Bene, scomparso il 16 marzo di un anno fa, la programmazione su "RaiDue Palcoscenico", alle 0.45, di Pinocchio, ovvero lo

spettacolo della provvidenza, spettacolo tratto da Collodi che questo genio

vertiginoso della scena rimeditò nel 1998 dopo averne già proposto edizioni nel 1961, 1966 e 1981. Lavoro che nell' intento di Bene lascia solo spazio a un' onnipotenza bambina e a un' idea poetica, viaggio nel disincanto e nell' inorganico d' un burattino in balia di una fatina androide che Sonia Bergamasco impersona convertendosi anche in un vasto campionario di figure, l' ultimo Pinocchio di Bene è una favola al più alto grado di definizione, con musiche di Gaetano Giani Luporini, e con maschere da zoo di biscuit che la partner calza di lusinga in perversione. Lo spazio caricaturale è quello di un' aula con tanto di cattedra da cui sporgeranno le creature sapienti o truffaldine, e con un banco di scuola cui è spesso simbolicamente incatenato Pinocchio/Bene, con aggiunta di una lavagna. Qui aleggia un' infanzia irrequieta, e acquisterà man mano guizzi il manichino umano sbozzato da Geppetto. Ma sono le voci di Carmelo, a svettare: quella prodiga e catarrosa del papà-falegname, quella sentenziosa del Grillo, quella

114 115

burbera di Mangiafuoco, quella imbonitrice della Volpe, quella mascalzona di Lucignolo. Tutta la babele di questi personaggi riceve memorabilmente il sonoro da Bene ma ha le fattezze trasformiste da macchina attorale della Bergamasco, cui toccano per intero i ruoli dell' immaginario femminile di Collodi. «La vita è un bel niente» fu l' epigrafe con cui Bene commentò l' impresa, e questo Pinocchio è stato davvero un' apoteosi dell' oblio, del rigore, della vocalità, della manipolazione e, aggiungiamo, dell' illusione. Da non perdere, in questo senso, la gara di fandonie marine tra Pinocchio e Geppetto: c' è tutto Bene, c' è tutto il bene spensierato che abbiamo avuto da lui, dispensatore di fiori contemporanei del male116.

Una cattedra, un banco di scuola, una lavagna in uno con la dura simbologia dello spazio-prigione costituito dalla catena con collare che nel romanzo è imposta a Pinocchio allorquando è costretto a sostituire il cane Melampo e che, nello spettacolo, Bene impone al burattino per l’intero arco della storia.

****************************************** Inserimenti*************!!!!!!

Nel Pinocchio ci sono vari ‘segni’ inorganici, primo fra tutti l’elemento del legno, del burattino. L’inorganico parlante e l’inorganico vivente. Un ossimoro per designare qualcosa che non vive, ma che in realtà ‘vive’, si muove, si agita, ha un’anima. Naturalmente poi c’è l’elemento inorganico che raccoglie il segno del burattino, lo inscatola, che è il libro. Il libro di Collodi. C’è un altro segno forte – e qui l’ossimoro si fa ancora più presente – che è il teatro, lo spazio, la scena, gli oggetti di scena. Si evidenzia qui – come ho avuto modo di segnalare in altre occasioni – la grande sapienza di metabolizzazione, da parte di Carmelo Bene, delle grandi acquisizioni di ricerca del teatro del Novecento: c’è la sensibilità alla supermarionetta di Craig (un’onda lunga che attraverso tutto il secolo appena trascorso), ma c’è pure una finissima sensibilità ai segni parlanti di Alberto Savinio117. C’è infine l’inorganico onirico, che è il balocco. Credo

che l’interpretazione di Pinocchio di Carmelo Bene sia l’allestimento della fiaba di Collodi più adatto ai bambini, il più vicino alla sensibilità dei destinatari del libro, i quali, per loro stessa natura, hanno una più diretta percezione della soglia che separa l’organico dall’inorganico; il trasferimento dell’anima in forma di voce ai giocattoli è il segno distintivo fondamentale dell’oneiros infantile. Ma leggiamo, a questo proposito, quanto scrive lo stesso Bene:

116R.Di giammarco, Il Pinocchio di Carmelo Bene ovvero l’onnipotenza bambina, “La Repubblica”, 22 marzo 2003,

sez. Spettacoli, pag. 61.

Pinocchio s’immerge nelle meraviglie di Alice e dall’incontro dei due mondi vien fuori una lezione crudele. Insostenibile per gli adulti. Necessaria per i bimbi. Lo spettacolo è dedicato a chi è ancora capace di spavento e stupore. Il debutto mondiale è per l’”innocenza”. Non si può invitare a teatro l’infanzia, lusingarla con la promessa della favola, sottrar loro la favola, e pretendere un trionfo. Un trionfo equivarrebbe in quel caso a un miracolo.

Il miracolo è puntualmente avvenuto. Al teatro Verdi di Pisa i bimbi hanno applaudito a lungo, e quell’applauso aveva qualcosa di molto caro a me perché affermava senza equivoco nell’assenza di ogni “Pescecane” l’unica vera possibilità di commozione. Che sarà di voi adulti? Abbiate l’umiltà di abdicare almeno come spettatori118.

La presenza dei segni-balocco, il loro sopravvenire dal buio, il loro accostarsi nel lavoro di Bene, il gioco in maschera, sono tutti inevitabilmente segnali di questa soglia di percezione dell’inorganico che si fa vita grazie ad un elemento psicopompo, un elemento, cioè, in grado di traghettare l’anima. Qual è l’elemento psicopompo in grado di traghettare l’anima? Non può essere un attore o, se volete, è il non-attore Carmelo Bene. È un’altra cosa. È quella che anch’egli, affidandosi come corpo d’attore all’inorganico, chiama la macchina attoriale, che, letteralmente, dice la voce dell’inorganico. Su questi elementi sorge naturale una riflessione sul rapporto percepibile tra gli spazi mentali della lettura e gli spazi ‘reali’ percepibili nello spazio teatrale. Si noti – lo fa spesso Carmelo Bene, lo fa Sonia Bergamasco – il trasferimento della voce dal recitato ‘diretto’ alla lettura, che imprime una sorta di distanza, di sovrapposizione, di memoria del vissuto ideativo anche da parte dell’autore. In altre occasioni, Carmelo Bene, come nell’operazione di ridicitura in macchina attorale dei versi di Campana, dice di voler arretrare all’atto di ideazione che il folle di Marrani ebbe sui suoi versi, dentro il laboratorio delle parole possibili, non dentro il vissuto ‘bloccato’ per sempre, alle radici della concezione dell’atto creativo. Come dire, l’oblio del morto orale, la vita dell’atto ideativo. C’è naturalmente dietro questa tessitura un problema metafisico, nel senso propriamente filosofico del termine, relativo alla presenza di un oltre che ricade sempre sull’inorganico di una griglia di codici, della fabulazione di Collodi che ricade nella griglia di codici del libro, l’oltre della fabulazione della macchina attoriale di Carmelo Bene che ricade nella griglia di codici della stanza del teatro. Come avvicinarsi a quest’oltre, come intuirlo? La risposta – nel Pinocchio come in altre opere di Carmelo Bene – avviene attraverso un’altra soglia: la voce o, se volete, la glottide. Cioè la

118Intervento di C. Bene su “Paese sera” del 6 dicembre 1981, riportato da Luca Sossella nella sua Introduzione

all’edizione in 2 CD del Pinocchio secondo Carmelo Bene (altro dallo spettacolo e dall’edizione televisiva) pubblicato per i tipi dello stesso Sossella, Roma 2005., pag. 6

vibrazione, l’atto della fonazione, che è un atto fisiologico, che si carica di un senso che non si chiude nella fisiologia. Si avverte qui un’altra grande metabolizzazione del teatro del Novecento fatta da Bene – oltre Craig, oltre Savinio – ed è il corpo senza organi di cui parla Antonin Artaud. Leggendo gli scritti di Artaud, è difficile comprendere questo concetto. Artaud parla di corpo rifatto. Attraverso l’opera di Carmelo Bene, la spia di accesso a questa definizione appare molto più chiara. Il corpo senza organi è il corpo che arretra, si avvicina alla soglia di qualcosa che non ha un ciclo, che è il sospeso quotidiano, qualcosa che è al limite della

materia che si adopera per fare l’opera. Cito un aneddoto famosissimo: il Mosè di Michelangelo che ha da parlare. L’atto ideativo è dunque un atto

corporeo: è l’intuizione del corpo senza organi. Il corpo d’attore ha da farsi opera. È la definitiva sottrazione dell’attore all’identità del sé

narciso che si sovrappone, che recita i suoi respiri, ma non respira il

tempo dell’opera, non si fa opera. La sottrazione del sé al dovere di presentarsi e la sua sostituzione con la funzione psicopompa, la funzione cioè di traghettare l’anima-oggetto, il corpo-oggetto che si fa attraversare dalla vibrazione dell’opera e che ambisce a diventare esso stesso opera. Carmelo Bene infatti diceva: «io non sono l’attore, ma sono il capo

d’opera». Al di là delle reazioni degli stupidi che leggevano questa sua

esternazione come un delirio narcisistico, Bene intendeva dire: «ogni qual

volta il mio corpo entra in vibrazione psicopompa e si fa inorganico e macchina attoriale, l’opera si fa in quel momento, è capo d’opera».

Questo processo è da intendere, naturalmente, come una sorta di lavoro sulla percezione: vale a dire c’è una sensibilità alle differenti e moltiplicate percezioni che l’opera può produrre negli spettatori. A questo punto, il gesto iterato del ritorno al libro è chiamato quasi a compiere l’opera che il gesto della macchina attoriale sta compiendo, cioè arretrare al modello di percezione della letteratura, che è un modello individuale, segmentato o continuo a seconda della scelta del lettore, alimentato dalla presenza dei segni onirici che si svolgono nella mente al momento della lettura. La negazione, ancora una volta il lavoro di sovrapposizione dei segni, la sottrazione di continuità narrativa, è un lavoro anch’esso teso a far saltare un’altra membrana, quella della definizione dello spazio-tempo del teatro, che non può più essere una presunzione di presente ma è un arretramento, anche a livello percettivo, all’atto istitutivo dell’opera. Non è la prima volta – e qui si entra in uno specimen particolare che è il codice – che il lavoro che Carmelo Bene fa con, e per, la televisione – lo si è visto anche con Macbeth Horror Suite – si distingue per una grandissima perizia d’uso del mezzo. Ritorno all’uso che Bene fa dell’avvenienza degli oggetti dal buio. Lo spazio-luce dettato naturalmente dai cosiddetti

riflettori di taglio che abbandonano al nero lo spazio non illuminato, è impostato in modo che l’avvenienza degli oggetti, la loro ‘entrata in campo’, metta in moto un meccanismo di afferenza alla visione dell’oggetto stesso (si badi bene: realizzato al momento della ripresa stessa con dissolvenze e assolvenze, non costruito in sede di montaggio). Sembra un meccanismo semplice, ma in realtà così non è. Si pensi al momento dell’arrivo del carro del cocchiere del paese dei balocchi, che avviene mediante l’avanzamento dell’oggetto nel taglio luci del set televisivo, per cui si ha la percezione dell’occhio-camera (cosa che avviene anche in altre riprese televisive di Bene) che viene difatti a trasferirsi come retina dell’avvenienza dell’oggetto visivo da parte dello spettatore, ed il richiamo evidente è che la tecnologia televisiva è un

moltiplicatore di retina per gli spettatori. Anche qui allora – per

metonimia, per accostamento d’uso - si materializza un altro segno dell’inorganico, psicopompo, traghettatore d’anima: la televisione. Si pensi al capovolgimento in atto: l’oggetto che per antonomasia rende gli spettatori passivi, la televisione per l’appunto, traghettatrice per eccellenza di immagini che avvengono altrove, deve diventare esso stesso luogo della vibrazione vocale e dell’avvenienza visiva. Scatola dei sogni. Va da sé che i pochissimi totalini – come si dice in gergo cinematografico e televisivo, soprattutto televisivo, visto che è improprio parlare di campi per riprese che si svolgono quasi sempre in interni – sono legati ad una sorta di presa d’atto dello spazio in cui avviene il gioco: tutto il resto dell’organizzazione degli oggetti inorganici che prendono vita, che poi sono marionette-maschere moventi, è imbastito in primo piano, quasi a designare, anche visivamente, come l’inorganico prenda vita raddoppiandosi come scatola dei sogni dentro la quale vibra e si muove l’oggetto che ha preso vita. Inevitabile intendere in questa chiave la genialità di intendere i fuori sync, l’avvenienza fuori sincronia della movenza della maschera e della voce: ciò significa re-citare l’avvenienza della voce nell’inorganico. È un tempo sfalsato, quasi come se il movimento dell’oggetto che ha preso vita evocasse l’opera in voce, che è poi la voce moltiplicata di Carmelo Bene (a parte va considerata la voce di Sonia Bergamasco che è la bambina dai capelli turchini). Il fuori sync può avere vari significati: può designare, ad esempio, un tempo della lettura che sopravviene al tempo della rappresentazione, che è ad esso contemporaneo; può significare la memoria del vissuto inorganico, ma

d’anima, del racconto che ‘invade’ la macchina attoriale (si pensi al

‘gioco d’occhi’ tipico di Carmelo Bene, quasi in attesa di sopravvenienza, quel suo virare le pupille verso l’alto come ad attendere l’arrivo di qualcosa, con una sorta di ironico timore: lo stesso presente nel suo

Pinocchio che vuole si vivere, ma al contempo ha anche paura della vita. È lui stesso sorpreso, il burattino, di essere vivo, lui pezzo di legno: cosa fa vibrare d’anima il suo essere inorganico?). È il gran libro di Prospero della Tempesta di Shakespeare, naturalmente. Il libro vive, l’inorganico vive. Fate felice un bambino: regalategli un libro animato e fate si che poi dia le voci ai personaggi. Si accennava alla scatola dei sogni, i segni. Non c’è dubbio che il set-scatola del Pinocchio è una stanza dei bambini. Una

camera dei giochi situata dentro un luogo che precedentemente era con

tutta probabilità destinato agli adulti. Il teatro, nella sua sacralità, nella sua pomposità, è il luogo in cui l’opera avviene, è una stanza per adulti, spesso vetusta e piena di polvere, ed i segni sono, ad esempio, l’accostamento di questo salotto-palcoscenico – con gli oggetti-balocco che prendono vita grazie alla voce infantile che li fa vibrare (la voce di Artaud/Carmelo Bene che fa vibrare gli oggetti inorganici) – ad un elemento inquietante, di presenza ‘obbligante’, che è il busto del Grillo Parlante. Un busto marmoreo che è una sorta di memento degli obblighi, l’unico elemento inorganico che è dichiaratamente tale, illuminato dall’interno e dotato di una vibrazione di voce; l’unico oggetto – tra l’altro – dove le paure infantili sono fortemente rappresentate perché ricordano il dovere, la dura realtà del quotidiano, e tendono ad allontanare dal gioco. Ciò fa paura perché ricorda l’alternativa al gioco: la morte. Perché quando la morte si rappresenta, sia pure con il timor panico dei bambini, essa è gioco, maschera che si muove. Ma quando ha da raccontare la fine del gioco, la fine dell’inorganico che prende vita, si fa marmoreo busto intimidente. Non a caso nel racconto Pinocchio uccide il Grillo che poi, da morto/non morto, lo accompagna in una sorta di viaggio di iniziazione. Ma non ci si vuole qui inerpicare lungo i sentieri delle interpretazioni proppiane della favola. Torniamo al totalino finale del lavoro di Bene, al banco di scuola, oggetto infantile per eccellenza, di quelli che sono sopravvissuti fino agli anni ’50 del secolo appena trascorso, tutti in legno con il calamaio e che designano lo spazio del bambino ma al tempo stesso lo spazio che l’autorità delega al bambino; dentro questo spazio poggia il gran libro che è lo spazio scenico che s’apre e si chiude: dentro il segno del banco, la rivelazione della fine del gioco infantile, l’agnizione dell’atto di compimento dell’opera è la chiusura del libro nella chiusura

del banco. È la fine del buio. Un libro rosso, cromatura di segno vivo,

com’era rosso quel libro cui Carmelo Bene, ad esempio nell’Amleto, faceva sopravvenire le parole lunghe di vibrazione di Shakespeare. Altro segno persistente della permanenza dei corpi inorganici che si fanno corpi di vita nell’opera, macchina attoriale attraverso il libro. Un altissimo esempio di teatro/libro. Un inorganico che ha voce.

Appendice 1