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L’indeterminazione dell’atto di percezione, nel gioco di dilatazione spazio-temporale si spiega, forse, ancor più che con il confronto con la corporeità sadiana, con la successiva scelta di dar luogo, dopo quattro anni, nel dicembre del 1976, al progetto su Proust.

Una prima riflessione può derivare dall'uso dinamico della scala che Vasilicò, in collaborazione con Goffredo Bonanni, adopera per "il saliscendi delle ossessioni" borghesi94, ma, forse ancor più come indefinita

modificazione dello spazio dell'immagine in movimento, una sorta di movimento duchampiano rallentato che si propone come moltiplicazione percettiva dei piani di visione. Leggiamo quanto ne scrive su “L’espresso” Angelo Maria Ripellino:

Nell’atro baratro del Beat 72, dopo lungo travaglio, Giuliano Vasilicò ha messo in scena il suo incubo “Proust”, sequenza luttuosa di trascrizioni ottiche della “Recherche” e di episodi della biografia del suo autore. Lo spazio esiguo del Beat prodigiosamente si allarga. Nella spessa materia del buio il regista ritaglia piccoli guizzi di immagini, primi piani sfuggenti, modulazioni di movimenti dell’anima.

94 Cfr. P. Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Laterza. Bari-Roma 1990; vedi in part. il cap. Il

O meglio: alle lunghe frasi sinuose di Proust sostituisce una brulicante successione di minuscole inquadrature ch esplodono dalla fittissima tenebra. […]Ciò che più si imprime alla mente è questo viavai, questo “corso”, questo apparire e svanire delle sembianze in una circolarità fantomatica, il loro convulso e torbido approccio nella cadenza funerea del terzo tempo della Sinfonia N. 1 in re maggiore di Mahler. E soprattutto la bellissima scena nella quale da scale invisibili scende un lento corteo inesauribile di raffinate parvenze, come una fiumana di larve che affluiscano dalle voragini della memoria 95.

La rinarrazione della parola-memoria proustiana viene allora compiuta dagli attori a distanze, o meglio, ad altezze diverse; il risultato è come un distillato ineffabile delle visioni prodotte dal romanzo che, come è noto, percorre e ripercorre, nei suoi cicli, strati diversi e non sempre sovrapponibili di 'ricordi'. Il saliscendi più che l'andirivieni richiama il tema dell'ascesa e della caduta, tema morale sull'impossibilità di reggere l'altezza angelica, con l'inevitabile attrazione verso il 'basso' del male corporeo; a questo proposito propongo un frammento della recensione di Anguissola su "Il Dramma":

In dieci mesi di riflessione e di tentativi in direzioni diverse, le scelte di Vasilicò sono andate orientandosi verso una rappresentazione diretta del "segreto" proustiano. Il "lato orribile delle cose" (morte, malattia, solitudine, mondo inumano del piacere, menzogna, ecc...), che soggiace sempre alle più suggestive, sognanti, tenere o comiche pagine della Recherche e che in esse affiora solo di tanto in tanto con sconvolgenti effetti sul lettore, è nella meditazione teatrale di cui parliamo l'unico e incontrastato dominatore della scena. La belle époque di Oriane de Guermantes e di Odette de Grécy si colora così dei toni cupissimi di un "ottocento funebre" di grande suggestione visuale. Ci sembra questa, da parte di Vasilicò, un'opzione coraggiosa e, in parte, anche ingrata, poiché, rifiutando ogni mediazione per così dire "fenomenica", e installandosi fin dall'inizio dentro l'"essenza negativa" della poetica proustiana (Schopenhauer direbbe: tutta volontà e niente rappresentazione), la già problematica teatralità della Recherche finisce per farsi del tutto incorporea, e il lavoro del regista assomiglia a quello di un eroico alchimista che si sia autocondannato a distruggere e spremere tutto un universo per cavarne alcune gocce di teatro96.

Mi pare che Anguissola metta a fuoco la natura di teatro-libro del

Proust di Vasilicò; espressioni quali "meditazione teatrale" o, ancora,

"tutta volontà e niente rappresentazione", segnano un'operazione derivata da oltre dieci mesi di laboratorio "alchemico" teso a "spremere tutto un universo per cavarne alcune gocce di teatro", un laboratorio che oltre la

95A. M. Ripellino, Le 120 giornate di Proust, in “L’Espresso”, rubrica “Teatro”, dicembre 1976. 96

fenomenologia corporea spinge la percezione degli spettatori dentro l'"essenza negativa" delle pagine proustiane.

Insomma se il problema è trasferire o, meglio, bilocare i corpi della

Recherche tra pagina e scena, allora l'ossimoro di una dura incorporeità è

l'irto territorio da sottoporre a verifica. Corpi-figure, corpi-fantasma che si muovono tra l'alto e il basso, in ascesa o caduta o, fermi in fotogrammi ingialliti. E' la zona di mezzo della visione "tutta volontà e niente rappresentazione"; il vigile dormiveglia di cui parla Schopenhauer che produce un orizzonte visivo che è già teatro, che è già libro o che non è né l'uno né l'altro. Quella di Vasilicò appare, pertanto, quale un’ossessione rigorosa e intransigente tesa ad instaurare nell’atto percettivo un meccanismo di emozione e riflessione: la prima legata all’impatto inatteso dei corpi in spazi angusti e anfratti, corpi emergenti da una penombra che è zona di attesa e di sorpresa; la seconda al galleggiare, quale una sorta di spirito guida, dei frammenti letterari tratti dai romanzi scelti per l’allestimento. La simultaneità dei due piani, quello d’ascolto legato al codice narrativo (evocazione di un pensiero lontano, concepito in altro tempo e in altro luogo), e quello visivo, legato al codice teatrale (il “presente” di un corpo chiamato a rappresentare assai spesso un conflitto, una dolorosa appartenenza al tessuto della parola letteraria) è studiata allo scopo di creare una zona terza di intersezione, una zona ineffabile che è sostanziata dalla memoria culturale di ogni singolo spettatore, dalla natura del viaggio che questi ha compiuto tra le pagine del romanzo di volta in volta inserite nell’alambicco del percorso teatrale. È come se Vasilicò avesse voluto proporre, con i suoi teatri/libro, non solo una ri-scrittura scenica bensì, pur’anche, una ri-lettura a più piani, tanti quanti sono i gradi di percezione che lo spettatore riesce a produrre, ri-leggendo e ri- vedendo, tra la risonanza delle parole e la fisicità dei corpi. Su questo punto credo risulti interessante leggere quanto scrive Eduardo Sanguineti in una sua recensione-saggio sul Proust:

Per questo Proust di Vasilicò , che al Teatro Uomo perviene dopo oltre un anno di rodaggio (la prima risale al dicembre ’76, presso il Beat romano), si possono classificare gli spettatori, così potenziali come effettuali, in quattro ordini essenziali. Ci sono quelli che si portano in testa tanto la Recherche quanto il Painter, e che, per non dire di altro, per scoprire L’indifferent, non sono stati ad aspettarsi il Kolb. Questi esseri immaginari, capaci di cogliere al volo le più tenui sfumature allusive della rappresentazione, possono essere soltanto pregati di citare le pagine, lì ai vicini, attenendosi alla Pléiade, per evitare di frastornare il pubblico con numerazioni disarmoniche e discordi: come esseri immaginari, tuttavia, qui li trascureremo, per brevita’. Poi ci sono quelli che, come Alberto Sordi, hanno letto si il grande Marcel, “però non tutto”, e che, sempre come Alberto Sordi, lo hanno

compulsato per dovere culturale, “con una buona parte di noia o di fastidio” (vedi “Tuttolibri”, IV, 4, p. 3). Questi volenterosi semi coscienziosi, per certo, sono quelli che alla prima milanese hanno applaudito, proustianamente intermittenti, a scena aperta, dopo le più mutole e purovisibilistiche sequenze, soprattutto al fine di sfogare la tensione nervosa accumulata in prolungate e frustratissime attese di Martinville e di Balbec, di “madeleines” e di “pavés”, di ragazze floreali con l’Albertine in testa e la memoria involontaria in coda. La terza categoria è di quelli per cui Proust è un nome che fa un clima, con molta asma e molto sughero, una governante biografa, e basta. Ultimi vengono quelli per i quali non è nemmeno un nome vero, ma un rumore verbale che si è gia sentito da qualche parte: saranno i primi. Noi parliamo infatti per costoro, principalmente, come ai possibili clienti ideali di questo Vasilicò.97

Con il solito, raffinato, sarcasmo che contraddistingue la sua scrittura, Sanguineti centra, a mio avviso, a pieno il modello di percezione da privilegiare per lo spettatore dei teatri/libro: ritornare all’origine del concepimento dei personaggi, avvertire come ‘novissimi’ , come dire, in fase aurorale quei corpi ora esposti in scena, una sorta di accoglimento ‘virginale’ dell’opera; sono riproposti, come amerebbe dire Barthes, all’interno del decoupage dell’orizzonte visivo: così come erano esposti alla prima lettura, nella rappresentazione letteraria, così , ora, sono esposti, ‘per la prima volta’, nella rappresentazione teatrale. Le parole e i sintagmi della letteratura (della cui eco, sottolinea Sanguineti, si potrebbe pure fare a meno98) vengono traghettati in segni corporei, frammenti

enigmatici, artaudianamente geroglifici, o, come direbbe Anguissola, “gocce di teatro”, essenze giunte alla provvisoria fisicita’ scenica dopo aver percorso i labirintici alambicchi di un inesausto laboratorio alchemico. Leggiamo, ancora, Sanguineti:

Ai clienti ideali, dunque, diremo che importa relativamente quel che si sa, e soprattutto quel che non si sa di Marcel. Se proprio vogliono una guida preparatoria, seria ed esaustiva, che sta in cento pagine e in una tasca normale, consiglieremmo, evitando gli estremi opposti del fino-all’ultimo-Santeuil e dell’enciclopedia dal giornalaio, a dispense, quel giusto viatico che è il Proust secondo Deleuze, sciolto in “signes”, sfuso in capitoli sette e una conclusione. Alla base, c’è l’idea che “apprendere è cosa che concerne essenzialmente i segni”; che dunque non esiste “apprendista” (leggi “spettatore”) che non sia l’ “egittologo” di una qualche cosa (leggi, addizionalmente, apprendibile in scena); che dunque, infine, “tutto ciò che ci fa apprendere emette segni”, e “ogni atto dell’apprendere è un’interpretazione di segni o di geroglifici”.

97 E. Sanguineti, Scribilli, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 29-30.

98 “…l’impresa di Vasilicò funziona tutta. O, almeno, quasi tutta. Perché quello che non funziona lo si poteva

immaginare benissimo in anticipo: non funziona la comunicazione verbale, che rimane la cosa meno proustiana dello spettacolo, pur essendo, in superficie, quella che dà la ragione del titolo”, Ibidem.

Il Proust di Vasilicò è, come presso Vasilicò è norma, una galleria spettacolare di “segni” o “geroglifici”, estratti notoriamente, per lo più dalla Recherche o dalla vita del suo autore, in quegli ambiti che si sanno: infanzia, iniziazione, vocazione da una parte; mondanita’, amore (e gelosia), sensazioni (visive e acustiche nel caso), dall’altra. Poi ci sono, s’intende, “i segni essenziali dell’arte”. Questi stanno nei tanti tomi del capolavoro e, per quel tanto che lo spettacolo è riuscito, e che è tanto sul serio, in scena. L’itinerario è poi il medesimo: semiotizzazione di lacerti paradigmatici, estrazione delle essenze. Le quali, per quel tanto che si incarnano, fanno sì che i segni siano, per l’appunto, “réels sans etre actuels, ideaux sans etre abstraits”.99

“…segni o geroglifici, estratti notoriamente, per lo più dalla

Recherche o dalla vita del suo autore”; qui Sanguineti tocca un punto

assai caro a Vasilicò, tanto da porsi, per il regista, quale chiave d’accesso privilegiata per i suoi teatri/libro. Durante il colloquio che abbiamo avuto, Vasilicò sottolinea:

Ho messo in scena un passaggio doloroso e sanguinoso, il passaggio dalla vita dell’autore all’opera. Non ho messo in scena il romanzo né la biografia, ma il passaggio vita-opera. Gli attori-personaggi dello spettacolo dovevano assorbire questo trasferimento dalla vita al romanzo: il dramma è il dramma del passaggio. Il dramma è il concepimento dell’opera. C’è un esempio micidiale nella vita di Proust e si riferisce alla morte del suo “amato” autista Alfred, avvenuta a causa di un incidente aereo. È un dramma! Proust smette di scrivere. La salvezza è stata il trasformare l’autista Alfred in Albertine. Questa è energia scenica, alimento per lo spettacolo, un’esperienza “forte” che va vissuta da ogni singolo attore- personaggio: ciascuno, in modo diverso, pone in opera la trasfigurazione dell’esperienza ‘personale’ di Proust, attraverso la propria esperienza. È un’energia che si diffonde su tutti: 11 attori, 11 Proust. La scena diviene il luogo di una discesa agli inferi, dove ognuno è esposto…

“Affondare il bisturi in quel mondo sanguinante”, ha sottolineato ancora Vasilicò, “la fuggitiva Albertine come liberazione dall’angoscia. Quasi un suicidio…molti non sanno che la storia dell’autista Alfred ha a che fare con le fanciulle in fiore”. Al di là della condivisione o meno dell’approccio ai moventi istitutivi dei personaggi della Recherche, resta il fatto che la solo apparente stilizzazione plastica che ha reso famoso Vasilicò nasconde, in realtà, il preciso intento di rappresentare il “dolore” dell’atto creativo; quel “quasi un suicidio” sta a segnalare la partecipazione del corpo vivo dell’autore all’atto della codificazione del personaggio, viene in mente ancora l’eco del Serafino pirandelliano:

Una penna e un pezzo di carta: non mi resta più altro mezzo per comunicare con gli uomini. Ho perduto la voce; sono rimasto muto per sempre. In una parte di queste mie note sta scritto: “Soffro di questo mio silenzio, in cui tutti entrano come in un luogo di sicura ospitalità. Vorrei ora che il mio silenzio si chiudesse

del tutto intorno a me”. Ecco, si è chiuso.100

Questo tema della scrittura come trasfigurazione del dolore che Pirandello esprimeva, quasi un’invocazione all’oblio, agli esordi del secolo scorso torna, a mio avviso non a caso, qui in Vasilicò, ma pure, come ho avuto modo di sottolineare, in Ronconi e Bene. Ricordo la già citata intervista con Dacia Maraini e quel passaggio nel quale Ronconi, alla domanda su cosa gli interessi dell’opera che affronta, risponde: “Il meccanismo narrativo. Il modo in cui l'opera si forma, da dove viene fuori”, un approccio, lo ricordo, che porta Quadri a dire che il regista “si pone come prima ipotesi centrale di lavoro l'individuazione del momento drammatico nell'atto della creazione del testo, atto di cui lo spettacolo sarebbe l'analisi, e la riproposta”. Ricordo, ancora, cosa dice Bene nell’introduzione al CD de I canti orfici: “…da qui il mio dire rievoca una fatica analoga a quella, tormentata e straziante, del folle di Marrani”. Contesti diversi, certo, che danno luogo a ricadute differenti nella composizione degli spettacoli, ma non si può negare con quanta ‘ossessiva’ chiarezza tre artisti, sia pure di formazione non omologabile tra di loro, esprimano la necessità d’arretrare nel crogiuolo inesplorato di quella che, in sede di premessa, ho amato definire la ‘zona neutra’ e ciò avendo essi in comune la ‘fabbrica’ dei Teatri/libro.