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Teatri/libro. Ronconi, Bene, Vasilicò. Esperienze di percezione tra corpi in pagina e corpi in scena. Seconda edizione riveduta e corretta.

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(1)

ETTORE MASSARESE

Teatri/libro

TEATRI/LIBRO

Ronconi, Vasilicò, Bene

Esperienze di percezione tra corpi in pagina

e corpi in scena

Ronconi

tra corpi in pagina

e corpi in scena

(2)

“È cosa che non finisce mai di sorprendere uno scrittore il fatto che il libro, non appena si sia staccato da lui, continui a vivere una vita per conto proprio; per lui è come se la parte distaccata di un insetto proseguisse il suo cammino. Forse egli lo dimentica quasi del tutto, forse si eleva al di sopra delle idee espresse nel libro, forse anche non lo capisce più e ha perduto le ali con le quali volava allora quando concepì quel libro: intanto quello si cerca i suoi lettori, infiamma esistenze e allieta, spaventa, genera nuove opere, diviene l’anima di proponimenti e di azioni, insomma: vive come un essere dotato di spirito e anima e tuttavia non è un uomo. La sorte più felice sarà toccata all’autore che, da vecchio, potrà dire che tutto ciò che è stato in lui di pensieri e sentimenti vivificanti, nobilitanti, rischiaranti, continua a vivere nei suoi scritti, e che egli stesso ormai non rappresenta che la grigia cenere, mentre dappertutto il fuoco viene salvato e propagato. Se poi si considera che ogni azione di un uomo, non soltanto un libro, diventa in qualche modo motivo di altre azioni, decisioni, pensieri, che tutto ciò che accade si annoda in modo indissolubile con tutto ciò che accadrà, si conosce la sola vera immortalità che ci sia, quella del movimento: ciò che una volta ha mosso, è incluso ed eternato nella catena totale dell’essere, come un insetto nell’ombra”.

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Indice

Una premessa.

1 Oltre (e non di fronte al) lo specchio

2 Orlando e gli altri: alcuni corpi in viaggio tra pagina e scena.

CAP. I

Il labirinto, lo “gliuommero” e l'in/finito possibile:

Ronconi e lo spazio multiplo del libro.

I, 1 Il labirinto quale viaggio di iniziazione alla responsabilità

individuale della percezione

I, 2 Lo “gliuommero” dell'esistenza tra fantasmi in pagina e lingue

'carnali'

I, 3 E se Dio giocasse a dadi? La percezione dell’infinito nel

teatro/libro matematico di Ronconi e Barrow.

Cap. II

(4)

I corpi del romanzo nel laboratorio di Vasilicò.

II, 1 La durezza dei corpi plastici: fino in fondo al male con il Marchese

II, 2 La ‘recherche’ del dolore proustiano

II. 3 Teatri ‘inconclusi’ per libri ‘inconclusi’

Cap. III

La voce dell'inorganico:

Il teatro/libro Pinocchio

III, 1 “Ho descritto la voce dell’in-organico”. III, 2 C’era una volta un pezzo di legno…

Appendice

Documenti e testimonianze

(5)

Una premessa

.

1. Oltre ( e non di fronte a ) lo specchio

Nel riaprire il cantiere dedalico tracciante i percorsi che si intersecano tra la pagina e la scena, tra i corpi pensati/pensanti 'fermati' nei geroglifici delle scritture e i corpi agenti/presenti del teatro, non posso fare a meno di prendere in considerazione quelle opere che, deliberatamente, allestiscono per la scena teatrale corpi destinati, in origine, a muoversi e a parlare in un libro1. Non mi interessa, certo, porre questa scelta a dimostrazione di una

sorta di teorema delle ragioni teoriche istitutive dell'idea di un 'teatro assente', quanto e piuttosto andare a verificare se, nel capovolgimento dello sguardo (dal libro alla scena/dalla scena al libro), si determinano nuove esperienze di percezione, altre 'deflagrazioni' tra le gabbie retoriche dei generi e dei codici. Tendo ad escludere, infatti, che ciò che muove un regista o, più correttamente, un autore di scena ad allestire una pièce partendo da territori altri rispetto alla drammaturgia codificata, sia solo espressione di una capacità/volontà di sceneggiare allo scopo di ampliare indefinitamente il numero dei 'copioni' a disposizione; certo ciò accade in molti casi, ma, mi pare ovvio, tali casi non si pongono sulla strada della ricerca di quelle nuove esperienze di percezione di cui prima parlavo. Escludo pertanto dalla mia indagine la sterminata teoria degli adattamenti scenici costruiti con la meccanica determinista del passaggio dal diegetico al mimetico, meccanica assai accorta a sottrarre ai 'corpi in scena' ogni 'viaggio' non teatrabile, ogni territorio di visione non dichiaratamente speculare2. Il territorio che mi resta da sondare, e che titolerei Teatri/ libro

1Il 'cantiere' che qui dichiaro di riaprire si riferisce a quello allestito in un mio libro di qualche anno fa, Il teatro

assente. Corpi e fantasmi teatrali nella letteratura da Boccaccio a Pirandello, Luca Torre editore, Napoli 2000,

dove indagavo, in una sorta di simmetria capovolta rispetto a questo lavoro, sull'utilizzo dello spazio-tempo teatrale nella letteratura. Su questo stesso territorio si è tenuto un importante convegno a Milano presso la Scuola d’arte drammatica intitolata a Paolo Grassi, dal 10 al 12 dicembre 2004 a cura di Teatro Aperto; gli atti di questo convegno dal titolo Il teatro nascosto nel romanzo sono stati pubblicati nel 2005 per i tipi de Il Principe costante.

2La mancanza di un canone codificato nella drammaturgia italiana del dopoguerra è ricordata con chiarezza da Luca

Ronconi: “ la sapienza delle regole canoniche della drammaturgia... nel teatro italiano è già saltata da un pezzo... Non è come, ad esempio, in Inghilterra dove esiste ancora un codice preciso, e un accordo col pubblico su ciò che si chiede al teatro e su come lo si recita”; cito da Un teatro borghese, intervista a cura di Walter Siti contenuta nel volume de “I Meridiani” dedicato al Teatro di Pier Paolo Pasolini curato dallo stesso Siti insieme a S. De Lauda, Mondadori, Milano 2001, p. XXIII. È per ovviare a questa mancanza che spesso autori, non necessariamente legati alla pratica teatrale, hanno dato luogo all'adattamento per la scena di romanzi soprattutto d'area novecentesca. In questa pratica si è distinto, in modo particolare Tullio Kezich, raffinato critico cinematografico e teatrale, con opere quali, ad esempio, La coscienza di Zeno, adattata per la scena nel 1964 ed affidata all'interpretazione, rimasta mitica nella memoria di chi vi ha assistito, di Alberto Lionello. Più di recente, nel 2001, Kezich ha affidato la sua riscrittura

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(parafrasando un saggio di Taviani3), è quello relativo ad alcuni

allestimenti che non 'adattano' romanzi, o altri codici espressivi non teatrali, alla scena, ma, al contrario procedono alla costruzione d'una scena che assume i tempi altri ed estesi del libro, una scena che s'apparenti ad una lettura 'visionaria', che organizzi una sorta di 'lettura' collettiva per corpi voci, suoni e luci, dove l'assemblea degli astanti provi lo spiazzamento 'onirico' che, spesso, solo la lettura individuale consente. Può apparire paradossale, ma i 'teatri/libro' tendono, di fatto, a sfondare la membrana che separa il teatro dal codice cinematografico, non tanto perché ne assuma il linguaggio ( questo è pure un territorio interessante e meno ovvio di quanto si creda4), quanto perché ne finisce per assumere il

modo di organizzare la percezione dello spettatore; la tecnica della soggettiva, ad esempio, che ha il suo archetipo nell'io narrante in prima persona di tanta narrativa, spesso, nei 'teatri/libro', porta a far si che la soggettiva che si muove tra gli scenari sia 'gestita' dall'occhio dello spettatore che, di fatto, è chiamato dal regista ad essere l'autore del

decoupage degli orizzonti visivi. Utile leggere quanto scrive Ronconi

nella Prefazione ad un volume di Longhi:

Nell’approccio critico di Longhi al problema del rapporto tra linguaggio filmico ed esperienza teatrale trovo interessante l’assunzione del ‘montaggio’ in senso tecnico a ‘metafora’ delle strategie di creazione artistica contemporanea a seguito

teatrale del pirandelliano Il fù Mattia Pascal alla compagnia Pambieri Tanzi.

3F. Taviani, Uomini di scena, uomini di libro, Il Mulino, Bologna 2004 (seconda edizione riveduta e ampliata della

prima uscita per gli stessi tipi nel 1995). Non intendo attenermi qui all'approccio esegetico di Taviani che intreccia un sapiente percorso fra pratica scenica e sapienza drammaturgica nei quattro grandi uomini di teatro del Novecento italiano (Pirandello, Eduardo, Viviani e Fo), tuttavia un germe, una fulminazione che mi ha ulteriormente spinto ad analizzare l'intreccio spazio/temporale dei personaggi tra teatro e romanzo è la determinazione con la quale Taviani ha voluto indicare nel frammento di teatro La serata a Colono inserito ne Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, il più importante esempio di teatro in Italia nell'età contemporanea. L’intera opera, come è noto, sotto le spoglie di una costruzione lirica ed elegiaca, oscilla tra codici e generi i più disparati,come se la Morante volesse inscenare, in questo lavoro particolarissimo del 1968, la ricerca di una nuova geografia di viaggio per sé e per i suoi personaggi.

4Già S.Ejzenstein, nel tentare di descrivere il suo disagio nei confronti della 'staticità' della scena teatrale, richiama

ad esempio della sua idea di montaggio, un frammento del romanzo di Flaubert Madame Bovary. leggiamo: “Cosa strana, fu Flaubert a darci uno dei più begli esempi di montaggio incrociato di dialoghi, usato con lo stesso intento di rendere più netta e più viva l’espressione dell’idea. Si tratta della scena di Madame Bovary in cui Emma e Rodolfo fanno più intimamente conoscenza. Due discorsi si alternano: il discorso dell’oratore nella piazza sottostante, e la conversazione dei futuri amanti (segue la citazione del frammento, alle pagg.134-35 nell’edizione einaudiana del ’68) …con pezzi che producono una crescente tensione…s’intrecciano qui due linee, tematicamente identiche, ugualmente banali. La materia è sublimata sino a una banalità monumentale, di cui si raggiunge il culmine con quest’intersecarsi di frasi, questo gioco di parole, il cui significato dipende sempre dall’affiancarsi delle due linee. La letteratura è piena di esempi simili: il metodo è usato con crescente popolarità dagli eredi artistici di Flaubert” in S.. M. Ejzenstejn, La forma cinematografica, trad. it., Einaudi, Torino 1988, pagg.13-14. Come si vede gli elementi indicati sottolineano la simultaneità e l’organizzazione paratattica della rappresentazione quali strutture fondanti una nuova idea di montaggio. Non è un caso, ad esempio, che partendo dal romanzo o, comunque da materiali non teatrali, Ronconi farà, apertamente, i conti con questo tipo di struttura. Di notevole interesse, in questa chiave, le pagine dedicate al complesso intreccio dei codici teatrali cinematografici e romanzeschi da Claudio Longhi nel suo

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di un’accurata valutazione dell’impatto prodotto dal cinema sulle strutture percettive del pubblico. Esattamente come non credo che si possa perseguire una sorta di omologazione tra realtà artistiche tanto diverse quali sono il cinema o la televisione da un lato e il teatro dall’altro, sono infatti convinto che l’avvento del cinematografo abbia prodotto una modificazione dei modi percettivi dello spettatore, radicalizzata e al tempo stesso variata dal trionfo della televisione, a tal punto profonda da non potersi non ripercuotere sulla struttura della creazione teatrale. […]

Il cinema ha poi determinato una rieducazione dello ‘sguardo’ che ha profondamente influenzato l’impaginazione visiva dell’esperienza teatrale: nel mio lavoro registico il ricorso frequente a strutture spaziali mobili può, per esempio, essere spiegato attraverso l’esigenza di riprodurre teatralmente la logica della percezione ottica contemporanea che, formatasi sul paradigma filmico col suo gioco di campi, controcampi, campi lunghi, primi e primissimi piani, tende ad isolare di volta in volta dallo spazio generale della visione i particolari e i dettagli significativi, cancellando il superfluo.5

Naturalmente, come avrò modo di spiegare nel corso del volume, la ricerca di nuovi modi di percezione, nei teatri/libro, non si esaurisce con il solo richiamo al montaggio cinematografico; tale richiamo ha senz’altro contribuito ad ‘accelerare’ l’urgenza, per i registi più sensibili, di rinnovare i modi della comunicazione teatrale e, come spesso avviene, un tale processo di rinnovamento si è, inevitabilmente, confrontato con la necessità di ritrovare, oltre l’asfissia delle gabbie retoriche, le ragioni fondative del rapporto tra scena teatrale e mito (letteralmente inteso come racconto, in uno spazio/tempo indefinito, collettivamente condiviso), vera radice antropologica della scena occidentale. Il corpo ‘in pagina’ della

dramatis persona nel farsi corpo ‘in scena’ dà luogo ad una serie di

molteplici relazioni che non possono esaurirsi nell’assoluto presente dell’

hic et nunc drammatico. Leggiamo ancora Ronconi:

Sulla scena contemporanea nel rapporto con le strutture narrative romanzesche il personaggio teatrale cessa infatti di apparire come simulacro artistico di un’individualità reale e rivela più chiaramente la sua autentica natura di ‘figura’ definita dal sistema di relazioni che si annodano nel racconto, il presente assoluto drammatico si relativizza, mostrando la propria interna stratificazione temporale-memoriale o narrativa- , o ancora al dialogo- che contrariamente a quanto si è soliti credere non è affatto una ‘costante’ della scrittura teatrale occidentale ma è piuttosto una sua caratteristica determinazione storica, basta pensare ad esperienze drammaturgiche tra loro diversissime e tuttavia ugualmente refrattarie alla ‘dialogicità’ come la tragedia greca o il teatro barocco italiano.6

5L. Ronconi, Prefazione in C.Longhi, La drammaturgia del Novecento…cit., p. 9 6Ivi, pp.7-8.

(8)

Ecco, la “stratificazione temporale – memoriale o narrativa” è il labirinto, il percorso aperto e “non concluso”, o il garbuglio (come amerebbe dire Gadda) nel quale si esperimenta il codice ibrido dei ‘Teatri/libro’; e se, in questo percorso, la dialogicità perde la sua funzione connotativa quale elemento fondante la comunicazione teatrale ne consegue che la percezione che ne avrà lo spettatore sarà assai vicina a quel vissuto che il lettore si figura lungo le pagine di un romanzo. Almeno è questa la tensione di ricerca che si pone a fondamento dei “romanzi- teatro” di Ronconi e anche, forse, di Vasilicò e di Carmelo Bene (come analizzeremo nei capitoli a loro dedicati), una tensione che, come felicemente ci ricorda André Helbo, è presente nelle scritture surrealiste, vero e proprio laboratorio estetico di un progetto di rappresentazione nel quale il processo di percezione innescato nel lettore stimola una sorta di andirivieni sogno/veglia, aprendo, così, una faglia carsica nelle ‘certezze’ retoriche portate a designare una netta linea di demarcazione tra il codice teatrale e quello letterario. Scrive Helbo, a proposito del Balcon en Foret di Julien Gracq:

E’ nel periodo surrealista che i narratori sono affascinati nel modo più angoscioso dalla rappresentazione. […]

In effetti, il fremito del dubbio che porta il lettore dall’insieme oggettivo all’insieme onirico, soggettivo o immaginario, designa la natura letteraria della sua percezione. Incitato a sprofondare in un abbraccio incerto, il contemplatore cercherebbe a buon diritto il principio d’unità in una scrittura globalizzante. Ma il libro costituisce un labirinto architettonico, riflesso estetico del luogo cui si riferisce. La descrizione rappresenta il procedimento motore dell’opera che concorre a concertare un viluppo d’immagini tematiche: l’acqua, la notte, la guerra, il silenzio, l’inizio, la madre.

Come un calcolatore distribuisce le sue unità distintive, lo scrittore organizza il proprio mondo attraverso canali di immagini. […]

- Il racconto si apre su una pioggia satanica, onirica, si conclude in un paesaggio freddo e secco. “L’acqua si è ritirata”.

- all’origine, il mondo notturno è calmo, ha ritmi regolari, nella seconda parte “le notti della foresta non sono più così calme”.

-il silenzio iniziale cede il posto al “brontolio di burrasca” […]

È dunque a una specie di terrorismo della scrittura- il formalismo surrealista?- che approda questo racconto il cui referente, il cui intreccio sono stati aboliti. Affascinante gioco di specchi, annuncio, indubbiamente, dei tentativi del “nuovo nouveau roman” […]

Proprio nella misura in cui il tema della rappresentazione percepisce fondamentalmente il rapporto dell’uomo e del mondo, della vita e del linguaggio, la sua centralità in una letteratura di riflessione assume una nuova

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giustificazione. Qual è la condizione del proprium estetico? Liberandosi dalla

mimesis, l’arte deve accettare l’indeterminazione, l’incompiutezza?

[…]

E ancora oltre, qual è il rapporto tra il linguaggio e la realtà’?

È possibile concepire un referente extralinguistico od occorre, al contrario circoscrivere il reale nei limiti del discorso?

Il fenomeno teatrale incarna questo interrogativo tragico nel suo processo d’iconizzazione. Esso è e non è la realtà: contemporaneamente oracolo e commedia…7

“Liberandosi dalla mimesis, l’arte deve accettare l’indeterminazione, l’incompiutezza?”

È evidente che intorno a un tale quesito, così come viene posto da Helbo, ruota la ‘centrifuga’ degli esperimenti novecenteschi intorno ai canoni retorici del romanzo e del teatro; l’impallidirsi dell’oggettività, della referenzialità ad un reale da rispecchiare apre la vicenda (tutta schopenaueriana) della ‘precarietà’ del soggetto e della sua volontà di rappresentazione. Ecco, mi pare, che la ‘romanzizzazione’ del teatro, così come viene posta in opera dai registi che analizzo in questo volume, si ascriva a pieno titolo in questo processo con conseguenze, tra l’altro, come vedremo, non irrilevanti non solo sulle tecniche di allestimento (la gestione dello spazio/tempo concluso del teatro), ma pur’anche sulla coscienza/identità dell’attore. Su di un’agenda che ho avuto la sorte di poter consultare, tra le carte dell’Immemoriale conservate presso la “Casa dei teatri” a Roma, Carmelo Bene annota:

Sul volere-oblio=oblio del volere = rivolere il non voluto = “volontà di potenza”.

Sine memoria. Circulus vitiosus Deus = K. Si sovrappone a Nietzsche. La vertigine dell’eterno ritorno del medesimo = è ricetta fantasmatica per quanto

attiene la dis-umanità

dell’attore-Agire - non agire. Una volte per tutte = una volte di più etc. Così come la “volontà di potenza” è fine /assolutamente/ la volontà individua?.

E inoltre: il volere l’oblio = la “volontà di potenza” = ri/volere il non voluto etc.= attimo/intensità smemorata/=

=La coscienza - “incosciente”: come mezzo strumento etc “(sempre nella sovrimpressione di K.) = il pensiero impossibile = categorie , codici del

7A. Helbo, L’oracolo e la commedia in Id. (a cura di) Semiologia della rappresentazione, trad. it. di P. Sgrilli

dall’originale francese (Sémiologie de la representation, Les Edition Complexe, Bruxelles 1975) per la collana “Teorie e oggetti” diretta da G. Mazzacurati, Liguori, Napoli 1979, pp. 35-38. Significativamente, in apertura del capitolo che citiamo (completato da un intervento di Umberto Eco, dal titolo Parametri di una semiologia teatrale, pp. 38-46), Helbò sottolinea: “Come Barthes dissocia pertinentemente teatralità, teatralizzazione e teatro, conviene porre subito un distinguo: la nozione di rappresentazione non è legata ipso facto al perimetro dello spettacolo. L’analisi che segue propone essenzialmente un modo d’appercezione relativo alla semiotica teatrale, territorio oggi ancora quasi inesplorato; un tale studio non potrebbe pretendere a una qualsiasi legittimità se eludesse una definizione preliminare della rappresentazione. Al fine di evitare la petizione di principio, occorre affermare la relazione di quest’ultima nozione con il racconto.”, Ivi, p. 33.

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linguaggio, etc. = La “Ripetizione come finzione” = Il concetto di soggetto è spacciato. = …

…L’intensità…

= ma in K-N. : il possibile attoriale è dispensato per sempre (da). Dispensato = 1) dall’ “io” – (Dio è morto)

2) dal soggetto = [identità]…

3) dall’et. Rit. del med. = in quanto “Altro”

4) dalla volontà (volontà di potenza) = “Rivolere il non- voluto” 5) dalla memoria (oblio)…

6) dal mondo – rappresentazione… 7) Dal presente…

8) Dal tempo…(Luogo, etc…)… 9) Dall’agire-non agire…

10) Dalla parola (abbreviazione del segno)… 11) Dalla immagine…

12) dal movimento-gesto…

13) dall’ “organico” come “Errore”

14) dall’ “interpretazione” (l’ “esserci” “necessitato” dal timore.) 15) dalla verità causa dell’”Errore”

16) dall’ “immaginifico/Fantasma del possibile e dell’inaudito.” 17) dalla finzione/volontà= l’azione…

18) dalla “intenzione” (poiché= è…dalla “intensità” alla “intenzione” e non viceversa)…

19) dalla iniziativa “organica”…

20) dalla “disinvoltura” (C.B.) della libertà… 21) dall’ “ (coscienza della sensibilità, etc.) umano”

22) Dal pensiero (categ. Codice del linguaggio) [coscienza = fine, mezzo, strumento/fine]

23) Dalla “Ripetizione” (come finzione)8.

Intanto viene subito da sottolineare che l’anno di edizione del volume di Klossowski che qui Carmelo Bene in qualche misura chiosa (K. Sta infatti per Pierre Klossowski), Nietzsche e il circolo vizioso, è il 1981, anno dell’edizione, forse, più importante, tra le tante susseguitesi dal 1961 in poi, del Pinocchio (l’agenda dalla quale citiamo, si trova, nel Fondo, non distante dalle carte riguardanti questo allestimento). Tornerò naturalmente, nel capitolo dedicato, su questo aspetto, ma qui, in sede di premessa, mi è parso opportuno riportare questa sorta di catalogo

8Le annotazioni manoscritte, per buona sorte con una grafia molto chiara, si trovano alle pagine (non numerate) 3, 4

e 5 di un’agenda non ancora catalogata né datata in dotazione al fondo L’Immemoriale di Carmelo Bene depositato presso l’archivio della “Casa dei Teatri” struttura delle Biblioteche di Roma sita nel villino Corsini all’interno di Villa Pamphili. Ho potuto consultare queste carte preziose, insieme ad altre di cui darò conto nel capitolo dedicato a Bene, grazie alla cortesia della direzione delle Biblioteche di Roma e alla sagace collaborazione della dottoressa Monica Palliccia, responsabile della gestione del Fondo. Ho cercato di riprodurre fedelmente gli a capo e i corsivi (le sottolineature nel manoscritto), l’uso esasperato e incisivo delle virgolette e delle parentesi e dei punti di sospensione. L’iniziale K., più volte richiamata si riferisce a Klossowski e, con evidenza, al volume Nietzsche e il

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dell’attore-non attore, affianco alle considerazioni di Ronconi e alle riflessioni di Helbo, per significare, con forza, come l’accostamento-frizione tra il codice scritto-letterario e le finzione-funzione attorica si ascriva, consapevolmente, sull’onda lunga della deriva tutta novecentesca dell’io narrante e di quel particolare transfert corporeo che l’attore è chiamato a conferirgli. Affermare che il “possibile attoriale” deve essere dispensato dal “soggetto”, “dall’iniziativa organica” o, ancora “dall’umano”, prelevando a caso dal catalogo beniano, non è molto distante, quale approccio teorico e non pragmatico s’intende, da quel relativizzarsi del “presente drammatico assoluto” attraverso la stratificazione “temporale-memoriale-narrativa” di cui parla Ronconi e che Bene esemplifica, attraverso Klossowski, dispensando l’attore dall’avere attenzione al “presente”, al “tempo (luogo)” al “pensiero (quale categoria codice del linguaggio)”.

Naturalmente di questi temi e problemi è intessuta tutta la vicenda del teatro del Novecento, dalla crisi della struttura dialogica, quell’io-tu che fonda il dramma, così come è acutamente individuata da Szondi nel suo ancora fondamentale studio Teoria del dramma moderno9 ; qui la crisi del

“presente drammatico assoluto”, di cui parla Ronconi, è affrontata con una stringente analisi su testi e autori testimoni della mutazione, a cavallo tra Otto e Novecento, della percezione del tempo a teatro e, non è un caso che, nel prendere in esame l’allestimento ronconiano del Pasticciaccio, Roberto Tessari annoti, a proposito delle riflessioni di Szondi:

Ma, a ben vedere, la proposta di riservare l’impiego del vocabolo dramma alla designazione d’un preciso modello storico di scrittura non ha solo funzioni di necessaria ‘igiene’ metodologica: serve, soprattutto, al tentativo di scindere definitivamente il senso ultimo di tutto ciò che ancora oggi viene raccolto sotto la qualifica (spesso fuorviante) di drammaticità dall’essenza reale di tutto ciò che occorrerebbe pensare quando si parla di teatro. Molto opportunamente, Szondi invita a denominare “in senso lato” drammaturgia l’intera gamma delle soluzioni testuali proiettate verso la realizzazione scenica. Né va considerato meno puntuale

9Peter Szondi, Teoria del dramma moderno, trad. it., Einaudi, Torino 1962. La crisi del dramma (titolo del cap. II

del volume), dell’ “assoluto presente” che è chiamato a rispettare, è analizzata attraverso le “infrazioni” che, intorno a un tale ‘statuto’, compiono autori quali Ibsen, Strindberg, Maeterlinck e Hauptmann, grazie al peso che assume il tempo altro rispetto alla rappresentazione, sia esso il passato ibseniano o il desiderio/futuro/rimorso/rimosso dei personaggi cecoviani, ad esempio, o, ancora l’ossesione ‘autobiografica’ di Strindberg che confligge tra le le spinte di un ‘io’ che impone i tempi della narrazione e un struttura ‘naturalistica’ che si strappa sotto queste tensioni. La puntuale analisi dei testi, sotto questa chiave ermeneutica, svela il progressivo svuotamento del dialogo nella sua funzione di sostegno essenziale della struttura drammaturgica. Cfr. ivi, pp. 14-58. Sui temi inerenti la crisi del dramma si è tenuto di recente, a Parigi nel dicembre 2008, in collaborazione tra la Sorbona e l’Università di Torino (DAMS), un importante convegno franco-italiano: Avènement de la mise en scène moderne/Crise du drame.

Continuités-discontinuités. Questo convegno, che ha avuto il merito di riaprire l’importante dibattito sulla crisi della

forma drammatica, correlandolo al contemporaneo avvento della regia teatrale, ha visto, tra gli altri, gli interventi di R. Alonge, F. Perrelli, J. P. Sarrazac.

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e utile il suo monito a ricordarci che l’ “evoluzione della drammaturgia” novecentesca “conduce lontano dal dramma”, e che, dunque, i ‘materiali letterari’ che il teatro ha a sua disposizione non sono soltanto quelli segnati dalle stigmate esteriori della ‘forma drammatica’: possono presentarsi, addirittura, in vesti non facilmente riconoscibili (magari tramate di “concetti” e di “caratteristiche strutturali” antitetici alle convenzioni d’un genere ben codificato)10

Alla luce di queste considerazioni bisogna, forse tornare a confrontarsi con le fibrillazioni di mutazione poste in atto nell’ambito della scena teatrale otto/novecentesca, considerando, forse, lo stesso processo di riteatralizzazione (che da Wagner e Appia in poi riproponeva il rapporto tra la scena teatrale, la ridefinizione dello spazio e il rinvenimento delle fonti originarie, antropologiche, dell’atto performativo) come una sorta di ‘szondiano’ “tentativo di soluzione” alla crisi della forma drammatica; del resto un tale processo investiva i canoni stessi della drammaturgia, del suo rapporto con lo spazio e il tempo e la conseguente ridefinizione del ruolo del corpo d’attore11. Ma per i teatri/libro, o, almeno, per quegli

allestimenti che nei capitoli che seguono ho scelto di ‘campionare’, l’approccio ermeneutico non può esaurirsi nel quadro, sia pure complesso e in parte ancora da esplorare, di quella “rottura della convenzione” così come si è andata configurando lungo il “secolo che ha sconvolto il teatro”12.; c’è, in queste opere, come una tensione di ricerca che

scompagina la causalità della sequenza storica di un ‘prima’ e di un ‘poi’,

10 R. Tessari, Il “Pasticciaccio” secondo Ronconi: ‘anomalia’ drammaturgica, e spettacolo ‘infinito’, in R.Tessari,

A. Andreini (a cura di), La letteratura in scena. Gadda e il teatro, Bulzoni, Roma 2001, pp. 197-8, di questo volume daremo ampia descrizione negli apparati critici del capitolo dedicato a Ronconi.

11Su questi temi, naturalmente la bibliografia è sterminata e complessa ed è, come dire, in continuo cammino e

aggiornamento. Un punto di messa a fuoco abbastanza recente lo si può trovare nel volume di Marco De Marinis In

cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Bulzoni, Roma 2000; qui sono affrontati, con chiarezza di

riferimenti storici, i temi relativi alla riscoperta del corpo in uno con la questione della drammaturgia dello spazio, partendo da Appia e Craig sino alle suggestioni ‘orientali’ di Eugenio Barba. Di un qualche interesse, per quel che si va dicendo nelle pagine di questo volume, è il capitolo dedicato al rapporto tra l’attore e il personaggio, pp. 101-126, dove ne vengono rintracciati i fondamenti pratici (l’esperienza d’attore della Duse, ad esempio) e teorici (Pirandello, Stanislavskij etc.). Alle spalle di questo volume, va ricordato il libro curato da F. Cruciani e C. Falletti,

Civiltà teatrale del XX secolo, Il Mulino, Bologna 1986 e il successivo volume di Cruciani (l’ultimo prima della sua

prematura scomparsa), Lo spazio del teatro, Laterza, Bari 1992. Di altro segno, in un impianto, per così dire, filosofico è il volume di Claudio Longhi, Scrittura per la scena metafisica. Livelli di realtà o realtà dei livelli? Il

dramma della scienza prima nel teatro del Novecento, Gedit Edizioni, Bologna 2004. Qui Longhi, talvolta con

raffinata ironia, ripropone il problema della scrittura del testo per la scena, smantellando i luoghi comuni che fanno, ad esempio, di Artaud il distruttore della parola a teatro, in favore, di contro, d’una più meditata riflessione sulla molteplicità e intersezione di pratiche e codici cui la scena contemporanea dà luogo in risposta alla crisi del dramma.

12Le espressioni sono di M.De Marinis in In cerca dell’attore…cit., rispettivamente p. 27 (titolo della parte I del

volume) e p. 9 (titolo dato all’introduzione). Sul tema degli 'sconvolgimenti' novecenteschi e, naturalmente, delle conseguenti ricadute sulla teoria e sulla prassi dell'arte attorica si consulti il recente volume di Valentina Valentini,

Mondi, corpi, materie: teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2007; l'autrice, qui, pur

occupandosi di vicende relative alla seconda parte del secolo scorso, si confronta, opportunamente, in sede di premessa, con le fondamentali teorie di Szondi e con tutto l'armamentario critico che dopo di lui si è andato costruendo in Italia e in Europa (interessante la ripresa del tema della “discontinuità” così come lo affronta Foucault ne L'archeologia del sapere); vedi, ivi, pp. IX-XIV.

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sono opere che sembrano avere una particolare sensibilità ad un dopo-catastrofe, un senso di “fine della storia”, opere di un “teatro senza teatro” che sembrano aver luogo nella consapevolezza che il patto di intrattenimento sociale che dà luogo al teatro non ha più un canone di riferimento o, quantomeno, questo s’è reso sbiadito nella consuetudine spenta di un repertorio ormai consunto e nella predisposizione di un pubblico sempre meno permeabile all’emozione della relazione tra attante e astante. Lucida l’analisi di Longhi:

Se ai nostri giorni la committenza teatrale latita, non meno latitante è il pubblico, sempre più estraneo all’esperienza scenica e incapace o impossibilitato a riconoscersi in essa. Chiunque frequenti oggi il teatro deve ammettere che, eccezion fatta per un ristretto (e sostanzialmente irrilevante) gruppo di amici o ‘addetti’ ai più diversi titoli ‘ai lavori’, a fronte di una più o meno cospicua presenza di spettatori in sala, manca il pubblico, inteso come gruppo di individui dotato di un preciso interesse teatrale e, soprattutto, di una specifica, anche solo sedicente, ‘competenza’ nel difficile lavoro di ‘ricezione’ dell’evento spettacolo.13

Ecco, è proprio nel prendere atto dell’assenza di una ‘moltitudine’ che si senta identificata e qualificata come ‘pubblico’, che i teatri/libro sperimentano la via di un meccanismo percettivo che apparenti lo spettatore al lettore, gli restituisca, come dire, l’innocenza di una emozione ‘personale’, dove, come ho già accennato, possa ritrovare il gusto specialissimo d’essere parte del ‘montaggio delle attrazioni’. Venga così, in buona sostanza, ripristinato l’elemento ludico del rito teatrale, quell’andirivieni tra sogno e veglia che l’atto consapevole della lettura consente. Ronconi dirà con chiarezza che bisogna uscire dalla contemplazione, dal vedere, e che “occorre oltrepassare del tutto la

situazione teatrale, portarci verso il vissuto” o, ancora, Bene individuerà nei bambini, nell’innocenza che anticipa la morte adulta, gli spettatori-lettori privilegiati del suo teatro/libro Pinocchio. Lo stesso Vasilicò, come vedremo, lavora a restituire allo spettatore l’emozione di partecipare al dolore dell’atto creativo dell’autore del libro, sia esso Sade o Proust, col quale si confronta nel produrre le visioni nate dalla lettura laboratorio sua e dei suoi compagni di viaggio. Lo spettatore-lettore, nel viaggio di conoscenza proposto da questi autori, sarà chiamato a vivere l’esperienza dell’ Alice di Carrol: non dovrà fermarsi davanti allo specchio, ‘vedere’ ciò che vi si rifrange, ma dovrà ‘correre il rischio’ di ‘vivere’ ciò che c’è oltre: dovrà attraversarlo.

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2. Orlando e gli altri: alcuni corpi in viaggio tra pagina e scena

Esempi forti di 'Teatri/libro' sono, nella chiave fin qui descritta, spettacoli quali l' Orlando furioso di Luca Ronconi, costruito, non a caso, dopo un intensa collaborazione drammaturgica con Eduardo Sanguineti che proveniva da sperimentazioni sulla percettibilità perfomativa della

poesia14, come pure è costruito su di un lavoro di ricerca intorno alla

percezione teatrale, il lungo ed estenuante laboratorio che porta Giuliano Vasilicò all'in/finito allestimento dei suoi teatri-romanzo15; ancora, il

progressivo processo di sottrazione che porta Carmelo Bene a misurare il

14Come è noto Edoardo Sanguineti è tra I fondatori del Gruppo '63, tra i quali ricordiamo Nanni Balestrini, Franco

Cordelli, Elio Pagliarani. Una importante assise di riflessione sulla natura di questo gruppo di poeti ed intellettuali si è tenuta dall'8 all'11 maggio 2003 a Bologna con la partecipazione di tutti gli attori di quell'avventura (oltre a quelli già citati ricordiamo Renato Barilli, Fausto Curi, Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi); di particolare interesse, anche per intendere il clima e l'approccio culturale dei componenti del Gruppo al teatro e alle arti, va ricordata la Tavola rotonda Il Gruppo '63 e le arti, tenutasi il 10 maggio e moderata da Renato Barilli, quest'ultimo, con Niva Lorenzini, ha, poi, curato gli atti usciti nel 2005 per i tipi Pendragon di Bologna. Sanguineti, lo ricordo, è autore anch'egli di teatro (K,Passaggio,Traumdeutung, Protocolli, sono i titoli delle opere che troviamo nell’edizione del suo Teatro pubblicato nella collana “Materiali 22” per i tipi Feltrinelli, Milano 1969) e seppe cogliere, nella riscrittura per Ronconi dell'Orlando, il carattere centrifugo delle storie che si intrecciano nel poema ariostesco con l'unico elemento centripeto e, tuttavia, di smarrimento, costituito dall'episodio del castello di Atlante. In un volume di qualche decennio addietro E. Saccone nel suo Il soggetto del Furioso, Liguori, Napoli 1974, aveva posto in evidenza la policentricità della struttura del poema, sottolineando come già la critica rinascimentale aveva messo a fuoco questo aspetto; in particolare Saccone ci segnala un passo tratto dalle Difese dell’ “Orlando furioso” saggio del 1585 (il titolo per esteso suona Apologia del sig. Torquato Tasso in difesa della sua Gierusalemme liberata, con

alcune altre opere, parte in accusa, parte in difesa dell’Orlando furioso, della Gierusalemme istessa, e dell’Amadigi del Tasso padre, Ferrara 1585) scritto dal nipote del poeta Orazio Ariosto, dove, tra l’altro, si legge:

“…gioverà più colui, che portand’in scena varij casi, e più avvenimenti, metterà innanzi a gli occhi di chi legge più specchi della vita umana; ove mirando con gli esempli d’altri, potiamo imparare a conoscere quello, che sia da seguire, e quel, che da fuggire”, ivi, p. 215. Una sorta di ‘pedagogia’ della conoscenza come smarrimento e molteplicità. È su queste stesse basi, a mio avviso, che poggia il “travestimento teatrale” di Ronconi –Sanguineti. Sarà bene, tuttavia, sulla complessa operazione drammaturgica, consultare il volume di Claudio Longhi, “Orlando

furioso” di Ariosto-Sanguineti per Luca Ronconi, ETS, Pisa 2006, volume su cui avrò modo di tornare nel capitolo

che segue questa premessa.

15Rimando, ovviamente, al capitolo dedicato al lavoro di Vasilicò dove darò conto dei più significativi allestimenti

derivati dai suoi laboratori; qui mi sia permesso esprimere, ancora una volta, lo sdegno d'essere stato testimone, all'inizio degli anni '80, di una riunione, nella sede AGIS di Roma, dell'associazione delle compagnie di Sperimentazione (ATISP), riunione nella quale un agguerrito gruppo di giovani arrembanti, sostenuti dall'allora responsabile del teatro dell'Associazione Lorenzo Scarpellini, impose, in una specie di 'notte dei lunghi coltelli', nuove regole 'aziendali' e 'produttive'. Direttive indispensabili alla sopravvivenza della ricerca teatrale in Italia, si disse. Ebbene caddero, sotto la mannaia di queste nuove direttive personaggi del calibro di Mario Ricci e, appunto, Giuliano Vasilicò cui fu espressamente riferito che non sarebbero più stati garantiti fondi di alcun genere alle attività di laboratorio, che la sperimentazione doveva dimostrare un grado di produttività non inferiore, nel numero di recite, alle compagnie di giro. In altri termini “o afferri subito l'idea di regia e l'affidi a massimo 20, 30 giorni di prove o dimentica di poter accedere alle risorse pubbliche elargite dal ministero del settore”. Come andò a finire è storia tristemente nota: Ricci si ritirò, di lì a qualche tempo, a vita privata e Vasilicò fu costretto a chiudere la sua esperienza di teatro-laboratorio, salvo, poi, riapparire nell'alta marginalità di esperienze costruite in rapporto con altre istituzioni di ricerca (ma di questo si parlerà nel capitolo a lui dedicato).

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corpo della poesia nell'altezza metrica e lirica della sola voce (da Dante a

Campana, a Leopardi16), vero esempio di studio sulla percezione (l'uso

della tecnologia chiamato a sperimentare l'annullamento del corpo/attore/teatro), dove la voce amplificata trasforma colui che dice in colui che viene detto e colui che ascolta, a sua volta, dice e viene detto, perché attraversato e penetrato dal suono e dal ritmo (in questa sede l’attenzione sarà mirata soprattutto sul Pinocchio, dove, con un chiaro segno di centralità, l’oggetto libro sarà attrezzo fondamentale di scena). Mi pare chiaro che, al di là degli esempi con i quali potrò incrociarmi, quello che mi preme porre in evidenza è come, anche nel caso dei 'Teatri/libro', si possa parlare di una sorta di zona neutra, di un territorio della visione che precede o supera la rappresentazione, che la comprende senza esserne compreso, un territorio dove i codici ed i generi si mescidano sino a diluirsi, a liquefarsi, inseguendo, in fondo, quel desiderio che Shakespeare fa esprimere ad Amleto fin dal suo primo significativo monologo:

Ah, se questa troppo solida carne potesse sciogliersi, svaporare e tramutarsi in rugiada [...]O Dio, o Dio! quanto stanche, stantie, banali e senza alcun costrutto m'appaiono, ora, le costumanze di questo mondo!Ah, come mi muovono a schifo!17

Non per riaprire il cantiere dei sogni di E. Gordon Craig18 (ma poi

perché no?), ma i 'Teatri/libro' sono teatri fatti di ombre, di corpi prossimi 16La stagione dei concerti, simbolicamente inaugurata con il Dante dalla Torre degli Asinelli a Bologna...etc. 17 W. Shakespeare, Amleto, atto I, scena...; il desiderio di “evaporare”, di “tramutarsi in rugiada” è espresso, anche

dal personaggio di Serafino Gubbio nel pirandelliano Si gira…(“E-va-po-rar-si in dilatazioni, diciamo così, liriche, sopra le necessità brutali della vita, a contrattempo e fuori di luogo e senza logica; su, un gradino più su di ogni realtà che accenni a precisarcisi piccola e cruda davanti agli occhi.” In L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio

operatore, Mondadori, Milano 1954, pag.173). Amleto, Serafino esprimono la consapevolezza da parte dei loro

autori di rappresentare personaggi nel guado di una mutazione, personaggi chiamati a gestire una sorta di 2° grado del codice in cui sono chiamati ad agire; il desiderio dell'incorporeità esprime il disagio della crisi di ogni carattere causale nell'agire: l'atto e la volontà da cui proviene non hanno più alcuna influenza sul reale, come a dire tanto vale sparire che sopportare il peso di questa consapevole inettitudine; personaggi dunque in zona d'ombra o, appunto in “zona neutra” come già ebbi a definire questo stato nel mio Teatro assente, cit. p.

18È nota la centralità degli scritti craighiani nella ricerca di nuovi confini per una cosiddetta ‘drammaturgia

dell’attore’ da costruire ripartendo dai miti di fondazione del teatro orientale. Una tensione continua verso la zona dell’invisibile, del non detto alla ricerca di quell’onda originaria da cui tutto è pervaso. Le teorie di E.G. Craig sono qui richiamate perché, scuotono dalle fondamenta la sequenza causale della catena produttiva del teatro: codificazione del testo drammaturgico, repertorio, tecnica mnemonica e mimetica dell’attore e così via che Craig beffardamente apostrofa come teatro del Business, che nulla ha a che vedere con l’arte rituale della scena. La bibliografia su Craig è sterminata ed in continuo aggiornamento, chiusa in Italia tra le parentesi degli studi di Ferruccio Marotti (sull’allestimento moscovita dell’Amleto, Amleto o dell’oxymoron, Cappelli, Bologna 1967 seguito, per tipi Feltrinelli di Milano, nel 1971, dalla curatela de Il mio teatro), sino all’ultimo contributo di Franco Ruffini, Craig, Grotowski, Artaud. Teatro in stato d’invenzione, Laterza, Roma-Bari 2009; qui basti ricordare quanto sia importante, per gli studi craighiani, la possibilità di consultare l’intera collezione della rivista “The Mask”, conservata presso il Gabinetto Viesseux di Firenze (vedi il contributo di G. Isola, “The Mask”(1908-1929):

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all'evaporazione, di corpi postumi liberatisi dal peso del piombo (per ricordare la metafora richiamata nell'episodio del violinista in Pirandello19) che esprimono l'ebbrezza rituale di chi sa di occupare solo

provvisoriamente uno spazio/tempo. Nell'insieme di questo volume, corpi postumi e fantasmi si troveranno, inevitabilmente, ad oscillare, quali consistenze provvisorie, tra pagine e scene, quasi corpi in fabbrica, in attesa di essere "rifatti" come amerebbe dire Artaud20.

E l'attore? Non v'è dubbio che il quadro di riferimento per individuare le coordinate di lavoro e di presenza del corpo attoriale nei 'Teatri/libro' risiede nelle esperienze e nelle riflessioni messe in atto nel Novecento: da Craig a Carmelo Bene, passando per Artaud e puntando, pur anche, al complesso problema del corpo ‘performativo’21. Del resto anche su questo

terreno bisogna fare i conti con le suggestioni innescate dall'incrocio con i teatri orientali, teatri che 'allestiscono' poemi e materiali di tradizione accumulati sul filo della narrazione orale e della memoria simbolica di un ristretto gruppo di iniziati, teatri i cui fantasmi corporei verranno ritrascritti in libri che assumono la veste di un formulario di rituali segreti, da rimandare di generazione in generazione. Non è un caso che l'archivio della memoria teorica e pratica dell'esercizio del Teatro No

19L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, cit., pag. 23. Leggiamo dal racconto che ne fa Simone Pau,

intorno alle vicende del violinista ospite dell'ospizio di mendicità: “E' introdotto in un reparto speciale, silenzioso; e lì il proto gli mostra una macchina nuova: un pachiderma piatto, nero, basso; una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri. [---]Il mio amico si sente cascare il fiato e le braccia. Ridursi a un tale ufficio, un uomo, un artista! Peggio di un mozzo di stalla...Stare a guardia di quella bestiaccia nera, che fa tutto da sé, e che non vuol da lui altro servizio, che d'aver messo in bocca , di tanto in tanto, il suo cibo, quei pani di piombo! Ma questo è niente, Serafino! Avvilito, mortificato, oppresso di vergogna e avvelenato di bile, il mio amico dura una settimana in quella servitù indegna e, porgendo alla bestia quei pani di piombo, sogna la sua liberazione, il suo violino, la sua arte”.

20Scrive Artaud: “La realtà non sta nella fisiologia di un corpo ma nella perpetua ricerca d’una incarnazione che,

perpetuamente desiderata dal corpo, non è di carne ma d’una materia che non sia vista dallo spirito né percepita dalla coscienza e sia un essere intero di pittura, di teatro e armonia”; la citazione è tratta dal volume di Marco De Marinis, La danza alla rovescia di Artaud. Il SecondoTeatro della Crudeltà (1945-1948), I Quaderni del Battello Ebbro, Bologna 1999, pag. 96.

21Citazione dalla canoa di carta di Barba. Può essere utile rileggere le pagine scritte da Oscar Schlemmer nel suo

intervento Uomo e figura artistica pubblicato nel “Quaderno” n. 4 dei “Bauhaus-bücher” del 1925 ed edito in Italia per i Tipi Einaudi nel 1975 con il titolo Il teatro del Bauhaus. In questa edizione l’intervento citato è alle pp. 3-21; interessante, in questa sede, è notare come Schlemmer, nell’affrontare i fondamenti teorici del problema della ridefinizione dello spazio e del rapporto con esso del corpo dello spettatore e del corpo dell’attore, parta dalla questione ‘percettiva’, da quello “star di fronte, dello spettatore passivo da un lato e dell’attore attivo dall’altro” (p. 4). Ma quel che più è incisivo qui annotare sono i riferimenti che l’autore richiama per quel “che riguarda il trasformarsi della forma umana e la sua astrazione” (p. 12). Leggiamo: “Un superamento parziale del limite corporeo, pur sempre però entro l’ambito dell’organico, è consentito dall’acrobazia: l’<<uomo-serpente>> dalle membra slogate, l’aerea geometria vivente ai trapezi, le piramidi costituite da corpi umani. L’anelito verso la liberazione dell’uomo dalle sue costrizioni, e verso l’esaltazione della sua piena autonomia di movimento, al di là della misura naturale, ha fatto porre, al posto dell’organismo, la figura artistica meccanica: l’automa o la marionetta. Quest’ultima è stata cantata in poesia da Heinrich von Kleist; l’automa da E.T.A. Offmann.[…] Di conseguenza

sono pure straordinarie le possibilità figurative sotto il profilo metafisico. La figura artistica consente qualsiasi

movimento, qualsiasi situazione per qualsivoglia durata; consente […] l’alterazione dei rapporti di scala intercorrenti tra le figure: quelle significative, di grande dimensione; quelle insignificanti, piccole” (pp. 12-13)

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risieda nel libro dello Zeami22, che non è considerabile certo alla stregua

dei diari registici prodotti agli esordi del Novecento, quanto piuttosto un libro che si stende sui tempi del racconto d'iniziazione. Ecco, qui mi pare si possa toccare un punto delicato quanto rilevante: i Teatri/libro si muovono sul territorio della pre-espressività23, nello gliuommero del filo

compositivo non dipanato, una sorta di zona 'orfica' in cui le parole e i corpi del teatro sono chiamati ad 'iniziare' lo spettatore (meglio dire l'astante) al viaggio di conoscenza che accompagna l'artificio creativo. È, del resto, nel fondamento del pensiero occidentale, a partire, almeno dal Platone de La repubblica, il considerare l’arte quale territorio d’ombra ‘fallace’ allorquando questa si manifesta come atto supplente della realtà, proiezione d’ombra sul fondo d’una caverna, appunto. In questo senso il privilegio che Platone manifesta, tra le arti, verso la musica sta tutto nei segni-suono ineffabili che trascrivono il percorso di un atto di conoscenza che va oltre ogni apparenza fenomenica; e, forse perché memore del suo amato Schopenhauer ‘platonico’, Carmelo Bene trascriverà in un suo quaderno d’appunti (di cui darò conto nell’appendice di questo volume) “La musica: beata lei!”24.

22Zeami, Il segreto del Teatro No, traduzione italiana dell’edizione curata da René Sieffert per la Collection

UNESCO d’Ouvres représentatives, Unesco, Paris, 1960; l’edizione, apparsa in Italia per i tipi Adelphi, Milano 1966, raccoglie i numerosi trattati sull’arte del No che Zeami Motokiyo (1363-1445) ha lasciato, quali dettami da tramandare di generazione in generazione ai discendenti della sua famiglia, accompagnati dalla consegna formale di preservarli come “segreti”. I trattati, raccolti nel volume, furono riscoperti e studiati ai primi del secolo scorso sull’onda delle intuizioni di E.G. Craig che lavorava a rinvenire un linguaggio scenico costruito sui simboli. Il volume organizza i trattati in due parti: la prima, titolata La tradizione segreta del Sarugaku No No, costituisce una sorta di introduzione iniziatica che descrive gli esercizi e i componenti graduali per apprendere l’arte, dagli esercizi da compiersi in età infantile sino alla complessa scala sonoro/simbolica suddivisa in nove gradi (Kyui-shidai); la seconda, titolata Una giornata di No, raccoglie nove componimenti da tenersi, quale rituale di stagione ( Il titolo

Autunno li raggruppa), in un'unica giornata.

23L’espressione, coniata da Eugenio Barba, sta ad indicare una delle tecniche fondamentali adoperate dagli attori del

Teatro No, vale a dire la tensione che investe ogni fibra muscolare, pur nella totale immobilità, che tuttavia già contiene tutti gli elementi della comunicazione verbale e non che l’attore andrà a proporre al pubblico. Tale tecnica spesso veniva dagli attori giapponesi usata quale duplicazione “rituale”: mentre, infatti, uno degli attori, in canto e danza esprimeva il racconto in primo piano, in secondo piano un altro attore caricava il suo corpo trasferendolo, nel territorio della “pre-espressività”, nello stesso mondo narrativo del compagno. Cfr. E. Barba, La canoa di carta, Il Mulino, Bologna 1999; in particolare, Barba, indicando a fondamento alcuni passi del trattato di Zeami, che più sopra è ricordato, ci segnala che il sats (territorio della pre-espressività) costituirà tecnica di riferimento per il lavoro dell’attore in tutto il Novecento, da Decroux a Stanislavskij, Mejerchol’d sino ai silenzi dell’ultimo Eduardo De Filippo; vedi il capitolo significativamente titolato L’energia, ovvero il pensiero, pp. 79-123.

24“Da quest’intima relazione, che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose, si trae pur la spiegazione del fatto

che se a qualsivoglia scena, azione, evento, ambiente s’accompagna una musica adatta, questa sembra dischiudercene il senso più segreto, ed esserne il più esatto, il più limpido commentario; e nello stesso tempo pare a quegli, che intero s’abbandona all’effetto d’una sinfonia, di vedere innanzi a sé passare le vicende tutte della vita e del mondo: ma nondimeno non gli è possibile, quando vi rifletta, trovare una somiglianza tra quella musica e le cose che ondeggiavano a lui nella fantasia. Imperocché quivi la musica differisce, come ho detto, da tutte le altre arti: nell’essere non già una riflessa immagine del fenomeno o, meglio, l’adeguata oggettività della volontà, bensì l’immediato riflesso della volontà medesima; e per tutto ciò che è fisico nel mondo rappresentare il metafisico, per ogni fenomeno rappresentare la cosa in sé.” È quanto si legge in Schopenhauer ne Il mondo come Volontà e

rappresentazione alle pp. 346-347 dell’edizione italiana (traduzione a cura di P. Savj-Lopez e G. De lorenzo) per i

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Mi pare opportuno, a questo proposito, quale segnale di innesco di un modo percettivo che restituisca alla parola la sonorità ‘interiore’ di una partitura musicale, ricordare quanto lo stesso Bene dice nella premessa all'edizione in CD dei Canti Orfici di Campana:

Per me la lettura, lungi dalla pretesa, noiosissima, del riferire lo scritto del morto orale, la lettura, dicevo, è non più ricordare, è non ricordo, oblio, la tecnica vocale è automatica [...] da qui il mio dire rievoca una fatica analoga a quella, tormentata e straziante, del folle di Marrani.25

Dire per riscrivere, una parodia intesa nel senso che ci ricorda Genette26,

ricantare attraversando 'liberamente' codici differenti: il corpo-voce "rievoca" una "fatica analoga" a quella "tormentata e straziante" della scrittura creativa, come a dire che l'attore del teatro/libro non è chiamato a "riferire lo scritto del morto orale" ma deve costruire i meccanismi percettivi che 'inizino' gli spettatori-astanti al territorio della visione e della 'fabbrica' corporea della parola. L'"oblio" è pertanto il raggiungimento del grado zero, della zona della possibilità 'prima' della visione percettiva e della successiva ri-produzione in rappresentazione: in questa zona il corpo è parola e la parola è corpo. Ancora, partendo dalle suggestioni care alle avanguardie storiche, come non pensare all'azzeramento proposto dagli astrattisti russi, alle visioni della tela bianca, che si possono, qui, estendere alle visioni della scena vuota o della pagina bianca, quell’intuizione di Malevìc che lo porta a spostare l’attenzione dall’oggetto percepito, dalle sue forme retoricamente obbligate, all’atto stesso del percepire, alla sensibilità di colui che percepisce27. In buona sostanza, bisogna che io dica con chiarezza che i 25C. Bene, D. Campana I canti orfici, edizione con CD, Bompiani, Milano 2000 (2 ed.)

26 Mi riferisco al volume di G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado. Trad. it., Einaudi, Torino 1997;

qui il significato del termine “parodia” viene attraversato a partire dalla Poetica di Aristotele sino alle trascrizioni “ipertestuali” di secondo grado dell'Ulisse joyciano. Dall'imitazione, al pastiche al travestimento ludico, tutte le forme e i generi del 'ri-cantare' o del 'ri-scrivere' vengono analizzate, attraverso la metafora filologica del palinsesto, manoscritto che conserva tracce delle scritture precedenti. Un meccanismo che si può applicare anche alla lettura oltre che alla scrittura, la voce dice le scorie dell'architesto ponendovi accanto, in un conflitto tra imitazione e innovazione, tutte le infinite variazioni che il tempo vi ha stratificato attorno. Pensando ancora a Carmelo bene, basti qui ricordare l'infinito e prezioso lavoro intorno alle stratificazioni accumulatesi, nel tempo, sui testi shakespeariani

Hamlet e Macbeth.

27Leggiamo quanto scrive M. De Micheli nel suo ancora prezioso volume sulle avanguardie: “Malevìc suddivide il

suprematismo in tre fasi: il periodo nero, il periodo colorato, il periodo bianco. Quest’ultimo periodo è quello iniziato nel 1918, in cui egli ha dipinto forme bianche su fondi bianchi. Con queste tele Malevìc voleva <<esprimere il potere della statica attraverso un essenziale economia della superficie.>> I problemi formali finiscono in tal modo con l’occupare interamente l’intelligenza di Malevìc, avviandolo sempre più verso una rarefazione stilistica, sino, appunto, alla solitudine della tela bianca: l’essenza dell’arte, estratta dall’involucro delle cose rappresentate, si è così volatilizzata”, in Id. Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 271-2. Mi sembra interessante, riportare, in questa nota, quanto scrive lo stesso Malevìc a proposito della rarefazione del corpo rappresentato, svolta nel suo rapporto con l’arte da lui compiuta nel 1913: “I contorni dell’oggettività sprofondano sempre più a ogni passo, e infine il mondo dei concetti oggettivi […] diventa invisibile. Non ci sono più ‘immagini

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Teatri/libro sono quei teatri che cercano di porsi sulla soglia d'accesso della percezione, sulla zona del dormiveglia schopenhaueriano28, che

cercano lo stupore d'impatto d'una prima lettura, d'una prima ed unica visione. La costruzione d'una localizzazione scenica che fugge dall'illusione della scatola prospettica, che cerca, anzi, a volte, la bidimensionalità propria della pagina (pensiamo ancora a Ronconi ed in particolare al suo Pasticciaccio) o, ancora una volta, dello schermo cinematografico, sta a significare che quello che si propone è la moltiplicazione degli strati del reale, l'ineffabile indeterminazione del corpo in scena. Territori cari alla fisica quantistica (ancora Ronconi ed il suo Infinities), come a dire che lo sfogliarsi vorticoso delle pagine di un libro proietta corpi evanescenti che attraverso brandelli di parole inseguono una poetica quanto 'impossibile' consistenza.

della realtà’, non ci sono più rappresentazioni ideali, non c’è nient’altro che un deserto! […] L’estasi della libertà non oggettiva mi spinse però nel ‘deserto’ dove non esiste altra realtà che la sensibilità […] Quello che io avevo esposto non era un ‘quadrato vuoto’, ma la sensibilità dell’inoggetività”, ivi, p. 269.

28Definiamo, qui, quello stato di contiguità tra percezione della realtà e percezione del sogno in cui si pone la mente,

soprattutto quella dell’artista quando, grazie alla capacità di contemplazione, sospende i dolorosi effetti della volontà individuale a beneficio dell’intendimento sulla reale natura delle cose. Ciò che è percepibile oltre il visibile appare allora nella sua complessità non rappresentabile, ma in grado d’essere afferrato, intravisto attraverso il simbolo, la metafora, l’allegoria. L’ultimo Schopenhauer, quello dei Parerga e paralipomeni del 1851, su questo terreno sembra completare e integrare quanto aveva già scritto nel libro dedicato all’arte ne Il mondo come volontà e

rappresentazione. Del resto la pertinenza di un richiamo al filosofo tedesco, in questa sede, è confermata dall’uso,

tutt’altro che casuale, di continue metafore che si richiamano al mondo del teatro. Leggiamo: “Per quanto sul teatro del mondo cambino i drammi e le maschere, gli attori sono sempre i medesimi” in Parerga e Paralipomeni, vol. II, pag. 377; o, ancora: “L’individualità di ognuno è proprio ciò a cui si deve rinunciare, perché il mondo a cui l’individuo si apre è un teatro la cui regia è dietro le quinte”, ivi pag . 861. Cito dall’edizione curata e tradotta da Colli per i tipi Adelphi , Milano 1981

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IL LABIRINTO LO 'GLIUOMMERO' E L'INFINITO POSSIBILE.

Ronconi e lo spazio multiplo del libro.

I.1 Il labirinto quale viaggio di iniziazione alla responsabilità

individuale della percezione.

-Quali sono i libri che hanno colpito di più la tua immaginazione?

-Il Guglielmo Meister più di tutto. Mi ha fatto una grandissima impressione. I racconti di Poe.

-Cos'è che ti piaceva in questi libri?

-Non la storia, non gli avvenimenti, né gli intrighi. -E allora che cosa?

-Il meccanismo narrativo .Il modo in cui l'opera si forma, da dove viene fuori, i suoi rapporti culturali con l'ambiente da cui nasce29.

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"Non la storia" ma "il meccanismo narrativo", "il modo in cui l'opera si forma": nel prelevare questi frammenti da un 'intervista concessa da

Luca Ronconi a Dacia Maraini, non posso fare a meno di evidenziare

come la percezione che il regista propone dei libri e strettamente correlata alla genesi e alla struttura della loro composizione. A tale proposito mi pare felice e chiarificatore quanto scrive Quadri:

[Ronconi] si pone come prima ipotesi centrale di lavoro l'individuazione del momento drammatico nell'atto della creazione del testo, atto di cui lo spettacolo sarebbe l'analisi, e la riproposta. All'inseguimento dell'autore; per ritrovare la primitiva scintilla della fantasia30.

Drammatizzare l'atto della creazione per ricostruire "il modo in cui l'opera si forma" , diviene l'evidente segno d'una idea del teatro che sfugge alla sequenza logico-retorica che conduce dalla composizione letteraria drammaturgica alla rappresentazione-spettacolo, un'idea che sottrae il regista agli equivoci residuali del capocomicato31 e alla 'dannazione' della

mimesi prospettica da sottoporre allo sguardo dello spettatore. Del resto lo stesso Ronconi non si sottrae dal dichiarare con forza tale tipo di scelta:

Ecco, vogliamo citare Grotowski, l'Open, il Living... No, quello che noi ci siamo proposti è completamente un'altra cosa. Anche i gruppi più avanzati del teatro americano rischiano, a mio avviso, di offrire spettacoli che si vedono. Insomma, la differenza maggiore sta forse nel fatto che mentre le tecniche a cui si accennava continuano a fondarsi sulla contemplazione, su qualcosa che si può vedere, per noi occorre oltrepassare del tutto la situazione teatrale, portarci verso il vissuto. [...] Qui tocchiamo forse il concetto che ha guidato il nostro lavoro; fare uno spettacolo che non abbia un'unità, che non sia unificato dal singolo spettatore, che non sia ricostruibile logicamente.32

Ecco costruirsi, tra i frammenti che andiamo citando, l'idea di un teatro/libro così come l'ho indicata in sede di premessa, vale a dire un percorso di percezione non "unificato dal singolo spettatore" ma moltiplicabile quante sono le percezioni possibili : gli infiniti spettatori 30F. Quadri, Il rito perduto. Saggio su Luca Ronconi, Einaudi, Torino 1973, p. 14.

31Mi riferisco, evidentemente, a quei modi, oggi assai diffusi, di giungere alla scelta e al successivo allestimento di

uno spettacolo attraverso un ‘comodo supporto’ di una drammaturgia consolidata e ‘rassicurante’ per il pubblico degli abbonati ai grandi teatri (siano essi Stabili pubblici o privati). Raramente questa scelta, del resto, è sostenuta direttamente dai registi che poi allestiscono l’opera, quanto piuttosto da una fitta rete di produttori-venditori che si muove sulla diade ‘sicura’ nome in ditta-classico da repertorio. Naturalmente sto parlando del prodotto ‘seriale’ che, pure, nel sistema-lavoro del teatro ha una sua ragion d’essere e che, a volte, riserva sorprese inattese e affascinanti (è il caso, a mio avviso, del capocomico-regista Gabriele Lavia). Qui sottolineo la ‘distanza’ ronconiana da questi modi di produzione (anche i suoi esordi, pur doverosamente attenti alla produzione committente lo vedono esercitarsi su testi rischiosi, non certo adatti ai cartelloni per ‘abbonati: Pensiamo, ad esempio alla Commedia degli

straccioni di Annibal Caro del 1966 o a I lunatici di Middleton e Rowley dello stesso anno o alla sua prima edizione

del Candelaio di Bruno del 1968). Sulla ‘deviazione’ ronconiana dalle ‘attese’ della committenza si possono leggere le pagine che vi dedica F.Quadri nel primo capitolo, L’inconscio e la follia del suo Il rito perduto, cit. , pp. 7-14.

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alla stregua di infiniti lettori; insomma parliamo di quel 'transumanare' onirico che propone il lettore quale soggetto aggiunto allo scenario della narrazione: come dire vivere e non contemplare. Un po' come l'atteggiamento che hanno i bambini con l'artificio del gioco: ne stabiliscono le coordinate di finzione e poi le vivono per vere. Ed il teatro/libro di Ronconi arretra verso il territorio rituale della Paidia, verso l'evento non strutturato, come amerebbe dire Turner33, un teatro che è oltre

o prima del teatro. Il labirinto che chiude (o apre) gli spettatori nel finale dell'Orlando, è il segno degli in/finiti percorsi che hanno attraversato, delle in/finite possibilità che hanno percepito, in definitiva, nel Labirinto/castello di Atlante si perdono per ritrovarsi, come i cavalieri della storia che hanno 'convissuto'34.

Il labirinto. Mi pare opportuno soffermarmi su questo cronotopo, metafora dell'assoluta semanticità del movimento, percorso che non ha inizio e non ha fine e per questo infinitamente ripetibile35. La scelta

ronconiana di dare centralità a questa figura nel suo allestimento dell'

Orlando troverà riscontro nella scelta successiva dello "gliuommero"

gaddiano, compiuta con l'allestimento del Pasticciaccio ed ancora, approdo recente e significativo, nelle 'stanze' in/finite di Infinities.

L'accezione borgesiana del labirinto inteso come percorso umano, incompiuto per il viaggiatore, finito per l'architetto che ne possiede la

33Scrive Turner: “Il gioco, paradossalmente, è diventato una faccenda più seria con il declino del rito e il restringersi

della sfera religiosa nel cui ambito la gente era abituata a diventare moralmente riflessiva, confrontando la propria vita con i valori trasmessi dalle tradizioni sacre. Il quadro del gioco in cui gli avvenimenti sono esaminati nei momenti liberi del processo sociale, ha in una certa misura ereditato la funzione del quadro rituale. I messaggi che esso trasmette sono spesso seri, se si prescinde dagli orpelli esterni di assurdità, fantasia e oscenità, come dimostrano i drammi teatrali contemporanei, alcuni films e alcuni show televisivi. Chiaramente il carnevale è una forma di gioco. Le teorie correnti sul gioco formulate dagli antropologi e altri studiosi possono darci alcuni indizi per cercare di comprendere il carnevale”; vedi V. Turner Antropologia della performance, Il Mulino, Bologna 2003, p. 221. Nello stesso volume, alla p. 223, riferendo le posizioni di Callois, aggiunge: “Roger Callois ha sviluppato una teoria più complessa del gioco. Egli usa alcuni termini esotici, ma li definisce con chiarezza. Per esempio, dice che il gioco ha due assi o “poli” che chiama Paidia e Ludus. Paidia si riferisce a “un principio comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato”. Opposto a questa tendenza anarchica e capricciosa caratteristica dei bambini vi è il Ludus, che secondo Callois vincola la Paidia “a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti, e la contrasta sempre di più drizzandole d’avanti ostacoli via via più ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambito”.

34Cfr. quanto scrive I. Moscati alle pp. 13-14 del volume da lui curato per i tipi Marsilio nel 1999, Luca Ronconi:

utopia senza paradiso. Sogni disarmati al Laboratorio di Prato.

35Nell’in-finito ‘labirinto’ delle citazioni possibili (forse pur’anche per una sorta di anticipazione dei temi che

percorreranno lo spettacolo ronconiano Infinities) intorno a questo lemma/segno così ricorrente nella storia della cultura umana, mi piace limitarmi alla citazione di una suggestiva riflessione di David Ruelle tratta dal capitolo XVII del suo The Mathematician’Brain, Princeton University Press, 2007 (trad. it. a cura di L. Bussotti, La mente

matematica, Dedalo, Bari 2009), il capitolo, nell’edizione italiana, reca il titolo Il teorema del cerchio e un labirinto a infinite dimensioni, qui a p.133 leggo: “Il labirinto infinito della matematica possiede il duplice carattere di

costruzione umana e di necessità logica. E ciò gli conferisce una strana bellezza, che riflette la struttura interna della matematica ed è, di fatto, l’unica cosa che conosciamo di tale struttura. Ma solo per mezzo di una esplorazione del labirinto giungiamo ad apprezzarne la bellezza”.

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