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Dipartimento di Scienze Cognitive, della Formazione e degli Studi Cultural

Università di Messina

mgraziano@unime.it

Vi è sempre stato un interessante dibattito circa il ruolo degli esperti economici, sul loro potere di influenzare le decisioni di politica economica e di quanto questo loro potere possa rappresentare un pericolo per la sopravvivenza della stessa democrazia.

Ma chi sono gli esperti? Vi sono dei criteri sicuri per definire un esperto da chi non lo è?

In generale, nella letteratura riguardante lo studio dell’ “epistemologia sociale”, il compito teorico relativo a risolvere questo problema consiste nello sviluppare un catalogo di criteri capaci di differenziare la conoscenza posseduta dagli “esperti” dalla “non conoscenza” di coloro che non lo sono (Scholz 2009; Goldman 1999; 2001).

La conoscenza usata dagli esperti economici è ovviamente tratta dalla scienza economica. Tuttavia, contrariamente a dei semplici professori di economia, essi sono in qualche modo costretti a raccomandare un corso pratico di azioni come soluzione ad una richiesta avanzata da un potenziale cliente (ad esempio un politico, un partito, un ente pubblico o privato).

L’esperto economico tende quasi sempre a raffigurarsi come un “tecnico”, vale a dire come un soggetto dotato di un ventaglio di competenze specifiche e un bagaglio di conoscenze specialistiche ma che rimane esterno alla politica o quanto meno privo di un ruolo effettivamente politico. In sostanza, esisterebbe una precisa divisione del lavoro tra politici ed esperti: ai primi il compito di definire i fini collettivi, ai secondi quello di definire i mezzi più opportuni per il loro raggiungimento. Per questa ragione l’azione dell’esperto economico viene interpretata come esclusivamente guidata da considerazioni tecniche e da preoccupazioni relative all’efficienza, che non incidono minimamente sulla sostanza dei processi politici. L’esperto economico è, infatti, colui che non discetta sulla “società migliore”, sulla morale e su come vada concepito il ruolo della politica o della storia, ma si limita a fornire conoscenza, interpretazioni e soluzioni operative alla luce di un consolidato e condiviso paradigma di scienza. Questa visione, sostanzialmente neutra e apolitica del proprio ruolo, risulta particolarmente diffusa tra gli esperti economici, anche in virtù della funzione “rassicurante” che essa svolge a salvaguardia del loro status e della loro etica professionale.

Pertanto, risulta essere fondamentale districare i possibili giudizi di valore dalle affermazioni neutre al fine di distinguere il ruolo effettivo svolto dagli esperti economici dal ruolo svolto dai politici nella misura in cui questi ultimi sono considerati i legittimi rappresentanti del popolo. Tuttavia, la possibilità di una tale differenziazione è quanto meno problematica. Com’è noto, infatti, la dicotomia tra positivo e normativo, descrittivo e prescrittivo, fatti e valori, è stata per molto tempo oggetto di accesi dibattiti filosofici. Essa, difatti, risale a Hume e per questo motivo viene anche chiamata “legge di Hume”, “ghigliottina di Hume” o “dicotomia di Hume”.

Anche se la preoccupazione principale di Hume era quella di impedire considerazioni morali nei fatti riguardanti la natura, ciò non ha scoraggiato gli economisti nella volontà di riproporre la stessa dicotomia, tra fatti e valori, anche nella scienza economica al fine di migliorarne le capacità predittive. In questo modo, si venne a provocare una vera e propria scissione dell’economia dalla morale, aprendo la strada ad una economia senza preoccupazioni di realismo delle ipotesi, troppo lontana dalla realtà, fortemente matematizzata e del tutto quindi priva di contaminazioni valoriali. Questo orientamento si è affermato in maniera definitiva nel Novecento con il prevalere dell’economia neoclassica e del graduale miglioramento delle tecniche di analisi economica e delle formalizzazioni di Vilfredo Pareto, ovvero di una scienza economica in cui il concetto principale di “economia di mercato” venne privato di qualsiasi connotazione sia etica che politica, attribuendogli solamente una valenza puramente fattuale, talvolta ingegneristica. Ciò consentì agli economisti di rappresentare il mercato non solo come un meccanismo efficiente ed imprescindibile di allocazione delle risorse, ma anche come un meccanismo politicamente neutrale.

Tuttavia, così come è stato sottolineato da numerosi economisti e da molti filosofi (soprattutto Hilary Putnam 2004), il ricorso alle formalizzazioni non consente agli economisti di non impegnarsi necessariamente in considerazioni dal punto di vista morale. Secondo quest’ottica, anche se può risultare utile distinguere fatti e valori, i due concetti sono troppo aggrovigliati per separarli così rigidamente come vorrebbero alcuni economisti neoclassici. Pertanto, anche se la separazione tra fatti e valori ha permesso lo sviluppo della scienza economica moderna, attraverso una serie di raffinamenti matematici pertinenti ha, tuttavia, ridotto la capacità della scienza economica di rispondere a delle questioni importantissime, come quelle ad esempio relative al “buon vivere insieme” (Sen 2006). In definitiva, quando si utilizzano dei termini per descrivere delle situazioni che hanno a che fare con delle persone questi termini sono per lo più marcati di giudizi di valore. Ora non sembra possibile che l’economia possa sfuggire a questa regola in quanto non ha a che fare solo con delle merci ma anche con le persone. Pertanto, si può certamente dire che “un vaso è azzurro” senza dare un giudizio di valore ma non possiamo, al contrario, dire che una persona è povera senza associare a questo un giudizio di valore. Pertanto, la dicotomia fatti/valori è difficilmente sostenibile, anche in economia.

Tuttavia, pur essendo vero che gli economisti si sono tradizionalmente imbattuti in termini normativi da ciò non deriva necessariamente che essi si devono impegnare in questioni etiche. Difatti, è

chiaro che non tutto ciò che è normativo ha a che fare con l’etica. Se, ad esempio, un nutrizionista ci dice che dovremmo fare più esercizio fisico ciò non significa che si dovrebbe fare più esercizio fisico per essere moralmente giusti, bensì che ci si deve allenare per stare in forma e quindi essere più sani. È pertanto una norma ma non una norma etica, bensì una norma di buona salute. Tradizionalmente la metodologia economica è stata normativa in questo senso, vale a dire spiega ciò che gli economisti dovrebbero fare per essere scientificamente efficaci e le norme rilevanti sono norme di corretto impegno scientifico, quindi, norme epistemologiche e non norme di corretta condotta morale.

L’impegnarsi su norme epistemologiche e non su norme di buona condotta morale è essenziale, inoltre, per salvaguardare la distinzione dei ruoli tra politici ed esperti economici, tra “mondo della politica” e “mondo della scienza”.

Bibliografia

Goldman A. I. (1991), Epistemic Paternalism: Communication Control in Law and Society. The Journal of Philosophy , 88(3), 113-131.

Goldman A. I. (2001), Experts: Which Ones Should You Trust? Philosophy

and Phenomenological Research, 63(1), 85-110.

Putnam H. (2004), Fatto-valori. Fine di una dicotomia, Fazi, Roma.

Scholz O. R. (2009), Experts: What They Are and How We Recognize Them. A Discussion of Alvin Goldman's Views. Grazer Philosophische Studien, 79, 187- 205.