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nel disturbo paranoide di personalità

A

NGELA

G

ANCI

Psicologa Psicoterapeuta libero-professionista – Palermo

angela.ganci@gmail.com

INTRODUZIONE

La costruzione della realtà basata sulle interpretazioni cognitive degli eventi, e l’influenza dei pensieri su emozioni e comportamenti (e quindi sulle capacità di adattamento), sono largamente documentate (Beck, 1984).

Alla base di ogni disturbo psicologico si ritrova uno stile di pensiero pervasivo, ripetitivo e pessimistico, che compromette la capacità di problem-

solving, insita nell’essere umano.

Attraverso l’indagine della storia evolutiva è possibile comprendere la lenta costruzione di quei modelli di pensiero e comportamento disadattivi e resistenti al cambiamento che configurano un disturbo di personalità.

ORIGINI, STRUTTURAZIONE E NEUROCHIMICA DEL DISTURBO PARANOIDE DI PERSONALITA’

Etiopatogenesi e funzionamento cognitivo

Nella personalità paranoide le caratteristiche cognitive (ineccepibilità

morale e assoluta mancanza di colpevolezza) determinano reazioni emotive

di rabbia e sospettosità e comportamenti aggressivi di difesa.

Tali aspetti riflettono un mondo infantile di “profondo rifiuto, mancanza

di calore, estraneità, con un modello di attaccamento di tipo evitante”

(Scardovelli, 2000), in cui è franato ogni legame di fiducia, a favore di una posizione esistenziale di tipo depressivo (non valere, non appartenere).

Per eliminare la convinzione di “essere cattivo, colpevole” il futuro paranoico strutturerà un pensiero vincente che ribalta l’antica impotenza, “Gli altri sono falsi e malvagi; io devo guardarmi e difendermi da loro”.

I due meccanismi implicati (negazione e proiezione) nascondono però un Sé inadeguato e un genitore colpevolizzante, trascurante, mentre la vendetta diventa legittima reazione a tradimenti e soprusi, così che l’esistenza acquista un “nuovo senso” (Scardovelli, 2000).

Frequenti distorsioni cognitive riscontrabili in questo disturbo sono:

Lettura della mente (Io so perché fai così!); Quantificatori universali (Io

sono sempre una vittima); Mismatching, polarità (Tendenza a contrattaccare, a essere polemici); Iperfocalizzazione sui lati negativi dell’altro;

Ingrandimento delle intenzioni aggressive altrui; Personalizzazione

(Convinzione di essere al centro delle intenzioni non positive altrui);

Monitoraggio di situazioni potenzialmente minacciose. Un bias di tipo

metacognitivo è infine responsabile del mantenimento dei sintomi

Si configura uno “stile di pensiero fondato sul sospetto”, con tipiche convinzioni disfunzionali, “Ciascuno pensa solo ai propri interessi, devo

continuamente difendermi”: siamo di fronte a una scarsa intelligenza emotiva e a un estremo bisogno di autosufficienza (“stare all’erta equivale a non essere fregati”). Risulta impossibile (af)fidarsi, non competere, per il pericolo di cadere in balia degli altri; la diffidenza percepita scatena negli altri ostilità (effetto Rosenthal), rinforzando le credenze originarie (profezia che si

autoavvera).

L’isolamento sociale ha risvolti altamente negativi, perché il supporto sociale aiuta a ridurre il livello di stress (Elkin, 2003, citato in Hendricks e coll. 2013) e i comportamenti autolesivi; l’esclusione sociale poi acutizza estraneità e depressione (quest’ultima evitata, esasperando il rancore).

Meccanismi cerebrali

Alla base della marcata reattività neuronale agli stimoli minacciosi, e del conseguente comportamento aggressivo, è stata riscontrata una disfunzionalità della corteccia prefontale (con scarsa resilienza agli

stressors), e un’iperattivazione dell’amigdala, così che “senza la mediazione

della corteccia prefrontale, l’amigdala invade il corpo con il cortisolo” (Effects of Anger, 2008, citato in Hendricks e coll. 2013).

Un deficit della serotonina appare inoltre collegato a forme di aggressività patologica (Society for Neuroscience, 2007, citato in Hendricks e coll. 2013).

TRATTAMENTO

Teoria e tecnica

Il primo passo nel trattamento del disturbo paranoide di personalità consiste nella costruzione di una solida alleanza terapeutica, basata sull’ascolto attivo, l’evitamento del confronto diretto e l’adozione di un sufficiente distacco e sospensione del giudizio (Hagen e coll. 2007).

Un punto nodale riguarda la gestione delle emozioni del terapeuta e il grado in cui sarà in grado di tollerare la sfiducia di cui diverrà bersaglio, limitando il controtransfert di tipo aggressivo che può sabotare la terapia.

A prescindere dall’approccio utilizzato, la finalità generale è aiutare il paziente a comprendere le origini della propria sofferenza e a riconoscere e modificare i propri comportamenti disadattivi (manipolazione, diffidenza).

A causa della scarsa consapevolezza della propria patologia, su cui si fonda la convinzione di non dover essere sottoposti ad alcun trattamento (Agnello e coll. 2013), sarà utile operare un confronto sistematico con le conseguenze negative di pensieri e comportamenti disfunzionali.

L’obiettivo della terapia cognitiva classica è identificare e monitorare pensieri e credenze disfunzionali, sostituendoli con atteggiamenti mentali più positivi e adattivi e nuove strategie di coping (tecnica della disputa razionale) (Hagen e coll. 2007), con un eventuale supporto farmacologico (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, per depressione e impulsività).

Un recente sviluppo della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) standard, nota come Acceptance and Commitment Therapy (ACT), partendo dal presupposto che il dolore è parte inevitabile della vita, propone, piuttosto che il contrasto a pensieri e sentimenti minacciosi, l’accettazione, nel loro

“giusto/ingiusto, buono/cattivo”, e trattandoli per ciò che sono, appunto pensieri o emozioni) (tecnica Mindfulness) (Harris, 2009).

In questa cornice teorica, il protocollo H.E.A.T. (HONORABLY EXPERIENCING ANGER AND THREAT) si focalizza sull’esperienza del

perdono e concepisce la vendetta come costruzione illusoria su cui è

imperniata l’esistenza (contro genitori invadenti e trascuranti), incitando ad abbandonare ogni progetto di punizione, che fa disperdere energia psichica, laddove il perdono è un “dono” fatto a se stessi e strumento di liberazione.

Accanto alla terapia individuale, è utile il coinvolgimento della famiglia (per evitare che essa rinforzi pensieri e comportamenti problematici), la terapia familiare e di gruppo, e il gruppo di auto-aiuto.

Efficacia

Lo scarso insight della malattia e la compromissione del funzionamento sociale influenzano la compliance terapeutica a tal punto che può considerarsi indice di riuscita del trattamento il “semplice” mantenimento in regime, evitando i drop-out (Agnello e coll. 2013).

La CBT, abbinata a una regolare terapia farmacologica (antipsicotici di nuova generazione, a bassi dosaggi, e stabilizzatori dell’umore), appare utile nell’attenuare la reattività neuronale a stimoli emotigeni (rispetto al solo trattamento farmacologico), migliorando l’elaborazione degli stimoli minacciosi, con risposta stabile a 6-8 mesi (Hagen e coll. 2007).

Bamelis e coll. (2012) evidenziano come la Schema Therapy sia associata a risultati migliori rispetto ad altre terapie, come la Clarification

oriented psychotherapy (citato in Agnello e coll. 2013); Fassone e coll.

(2004) riportano maggiori benefici con una terapia cognitiva individuale alternata a un setting gruppale, con drop-out nell’assetto individuale-gruppale del 19% (65% in quello individuale), e un più netto miglioramento dei sintomi e dei comportamenti a rischio.

Bibliografia

Agnello, T., Fante, C. e Pruneti, C. (2013). Il disturbo paranoide di personalità: nuove linee di ricerca nella diagnosi e per l’impostazione dei trattamenti. Journal of Psychopathology, 19, pp. 310-319.

Beck, A.T. (1984). Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio.

Fassone, G., Ivaldi, A., Mantione G. e Rocchi, M.T. (2004). Valutazione degli esiti di un trattamento cognitivo-evoluzionista integrato (individuale–gruppo) per pazienti con disturbi di personalità borderline e/o comorbilità in asse I/II: uno studio semi-naturalistico controllato.

Cognitivismo clinico, 1(2): 124-138.

Hagen, R., Turkington, D., Berge, T. e Grawe, R. (a cura di) (2007). Terapia

cognitivo comportamentale delle psicosi. Firenze: Eclipsi.

Harris, R. (2009). ACT made simple. CA: New Harbinger Publications. Hendricks, L., Bore, S., Aslinia, D. e Morriss, G. (2013). The Effects of

Anger on the Brain and Body. National Forum Journal of counseling and

addiction, 2(1): 1-12.

I confini dello spazio peripersonale in soggetti