• Non ci sono risultati.

Dipendenza e Craving

Nel documento Quale dipendenza? Dipende (pagine 76-80)

In molti durante l’intervista hanno definito il craving, più che come un vero e proprio desiderio, come un’aspettativa, una tensione proiettata verso la sostanza e gli effetti

attesi. Questa condizione di “l’incubazione del desiderio per la sostanza” (Pickenset

al. 2011)72 si scatena in una totale mancanza di controllo in presenza di un insieme

72 Pickens CL, Airavaara M, Theberge F, Fanous S, Hope BT, Shaham Y (2011) “Neurobiology of the incubation

76

specifico di elementi: stimoli esterni (un odore, un sapore, un luogo, una persona, un stress), interni-organici (la fame, la sete, il freddo, il caldo, la fatica, etc.), interni- psichici (un senso di ansia, un’emozione particolare, la noia e così via).

D., 24 anni, descrive bene come tale situazione di ‘urgenza’ si modifichi a seconda delle condizioni al contorno: “L’unico obiettivo è andare a ciolla (in triestino ‘a

prenderla per potersi fare’). E magari fino ad un minuto prima stavi anche bene, non è che eri in astinenza. Poi però, appena ce l’hai in tasca che stai andando verso casa, magari sei sull’autobus, allora inizi a star male: ti viene mal di pancia, ti vengono i crampi, sudi… ma se non ce l’avessi avuta in tasca non saresti stato così. È un po’ come quando ti scappa da pisciare, ti scappa ma la tieni bene, però più ti avvicini al bagno e più non resisti e inizi quasi a fartela addosso. Se quel bagno non l’avessi trovato non ti sarebbe scappata così tanto. Capisci cosa intendo? Per la roba per me è uguale: come una pisciata”.

Ecco che emerge il carattere dimensionale e contingente del craving: motivo per cui, ad oggi, non è ancora chiaro se sia proprio questo desiderio irrefrenabile a portare alla compulsione del consumo o piuttosto una sequenza di azioni automatizzate (Tiffany, S.T. & Carter, B.L. 1998)73.

Non è semplice da spiegare, infatti, la relazione tra craving e impiego additivo della sostanza: è ormai assodato che l’assunzione delle sostanze psicoattive segua i ritmi e le modalità del comportamento additivo regolato da processi automatici; al contrario il craving comporta l'attivazione di un meccanismo impulsivo che non corrisponde ad un processo automatico. L'urgenza di utilizzare la sostanza è connessa piuttosto con un conflitto nell'ambito cognitivo tra la motivazione al consumo e la consapevolezza del rischio che ne deriva. In quest'ottica, dunque, il craving diviene funzione di diversi fattori che interagiscono in un mutevole equilibrio con il mondo intrapsichico e con le interferenze ambientali. Tra questi fattori, primo tra tutti spicca il desiderio della sostanza. Esso è sostenuto dall'esposizione a stimoli condizionanti (cue), dallo stress e dal tono dell'umore (trigger mood). Ad interferire con questo fattore di base viene la capacità di adattamento legata ai tratti temperamentali, alle caratteristiche

psicologiche e ai disturbi psichiatrici, nonché la consapevolezza del rischio connessa invece con la storia individuale, i fattori culturali, ambientali e relazionali.

Craving, quindi, come risultato di una concomitanza di fattori interni e ambientali che si può esprimere in maniera molto diversificata a seconda del soggetto e delle

condizioni al contorno.

73 Tiffany, S.T. & Carter, B.L. (1998), “Is craving the source of compulsive drug use?”, Journal of Psychopharmacology,

77

Un elemento problematico che scaturisce dalle risposte all’intervista, infatti, è l’eterogeneità dell’esperienza soggettiva del craving.

Per alcuni questo stato affettivo è più intenso e frequente, per altri più raro e strettamente connesso alla sensazione dell’astinenza: “hai i brividi, il naso ti si apre come un rubinetto e hai male alle ossa e dappertutto”. Alcuni lo vivono più legato alla dimensione emotiva (“diventavo triste e aggressiva”), per altri possiede una

connotazione maggiormente somatica (“lo sentivo arrivare come un formicolio”), alcuni infine associano selettivamente il craving alla sostanza che usano: “la roba è più fisica della bianca, la bianca è più mentale. La coca è peggio insomma, ti manda proprio in merda il cervello” testimonia E., che le ha provate entrambe. (Roba=eroina, bianca=cocaina)

L’eterogeneità dell’esperienza soggettiva del craving dipende inevitabilmente dalla differenza delle narrazioni individuali, ognuna legata alla personale capacità di introspezione, alle competenze linguistiche e alle rappresentazioni mentali

soggettive. Più fondamentalmente, però, questa difformità potrebbe indicare che quello a cui si riferisce questo termine è in realtà un complesso di fattori emotivi, cognitivi e motivazionali diversi che si associano e interagiscono in modo diverso nei diversi individui.

Alcuni lo descrivono come l’aspettativa di una sensazione piacevole, altri come il desiderio di evitare una condizione di dolore fisico e psichico. Se apparentemente il risultato sembra essere lo stesso, il modo in cui il soggetto vive questa esperienza cambia radicalmente a seconda dell’interpretazione che ne dà. “Perché sai che se non ti fai stai male” spiega S., seguito dal CPS con terapia sostitutiva, “La droga è anche quello: continui a farti perché hai paura di star male…e ti prende la smania perché ti prende il panico. Sai già che se non ti farai sarai piegato in due dal dolore. Ho visto gente tirare su l’acqua delle pozzanghere pur di farsi, perché non poteva aspettare di stare male. Il desiderio vero è quando non puoi aspettare”.

L’impossibilità di posticipare è una delle caratteristiche salienti del craving, a cui si accompagnano sintomi fisici anche molto forti. Tutti i partecipanti hanno riportato il cambiamento delle sensazioni corporee durante il craving. Queste sono legate all’eccitazione, all’anticipazione e all’ansia: aumento del battito cardiaco, dalla salivazione, aumento della sudorazione delle mani e della frequenza nel respiro, formicolio degli arti, dolori di vario genere. Gran parte dei soggetti però operato una netta distinzione tra queste sensazioni e quelle, per certi versi simili, legate

all’astinenza. L’esperienza del craving, però, non si esaurisce con una serie di sintomi fisici: la parte più preponderante è quella psichica.

78

Per la maggioranza degli intervistati, i pensieri associati al craving hanno carattere intrusivo e ricorrente, “è un –voglio bere- anzi che dico? Un –devo bere- è un comando, ho solo quello in testa e sto male finché non lo faccio”, dice R., alcolista “storico”. “Ti occupa tutto. Non lascia spazio per nessun altro pensiero” afferma E., eroinomane da quando aveva 14 anni.

Ma non solo i pensieri, anche i gesti (e la loro mentalizzazione) hanno una rilevanza notevole nell’esperienza del craving: “Quando il desiderio diventava troppo forte dovevo almeno mettermi una sigaretta in mano. Magari la accendevo e poi lasciavo che la fumasse la Bora, o addirittura la spegnevo. Ma era il gesto quello che contava. Quello che desideravo di più”.

Se si chiede a un utente del SerT, dipendente da eroina, per quale motivo si faccia seguire dai servizi, ci sono buone probabilità che risponda: “mi buco”. Non “consumo eroina”, o “sono un junkie”, oppure “mi drogo”, o “mi faccio”. No. “Mi buco”.

E già da questa sottigliezza si nota come il gesto di bucare il corpo, introdurvi, attraverso un’azione violenta di self-harm, una sostanza estranea è parte

fondamentale dell’addiction, indipendentemente dalla sostanza (anche se, come noto, non tutte le sostanze sono iniettabili).

“Se non c’è il ‘buco’ e tutto il rito accuratissimo che lo precede, non è affatto la stessa cosa”. Sono in tanti ad affermarlo durante l’intervista. Da questa prospettiva, il fatto di iniettarsi eroina è, sostanzialmente, una pratica solipsisticamente mistica. E

assolutamente corporea. È il raggiungimento del distacco dal corpo attraverso una prassi integralmente fisica, come il cilicio degli asceti medievali. È il superamento del dolore dell’anima anche attraverso il dolore del corpo.

Ma forse, più ancora di questo, è semplicemente la dipendenza dal gesto, il craving legato all’atteggiamento, una posa abitudinaria che crea assuefazione.

S., donna di 40 anni, dipendente principalmente dal metadone, descrive così la sua esperienza con quella che colloquialmente viene definita la “smania dell’ago”: “Beh prendevi la roba e la mettevi con l’acido citrico in un cucchiaio e poi la scaldavi con l’accendino. Andava bene anche il succo di limone. Insomma, la scioglievi, poi la tiravi su con l’ovatta e la siringa e te la iniettavi. Nel cucchiaio rimanevano le scorie, il filtro insomma, una schifezza. Eppure la smania dell’ago non ti faceva fermare. Ti faceva riscaldare il filtro e rifarti con quella merda. Solo per il buco capisci? Solo per quello. Perché tutti lo sapevano che non c’era rimasto più niente nel cucchiaio e che non poteva più darti nessuna botta. Ti bucavi con l’acqua praticamente. Perché era il gesto che ti piaceva.” E continua: “Sapevo benissimo a cosa stavo andando incontro e quindi cercavo di smettere di sforacchiarmi ovunque. Ma avevo continui scivoloni, e di

79

chi poteva essere colpa se non mia? Poi cercavo di giustificarmi, di dire che era la situazione, erano le persone che mi stavano intorno…ma sotto sotto l’ho sempre saputo che è colpa mia. Sei tu che decidi, nessuno ti punta la pistola alla testa.” Questa sensazione di responsabilità per la condizione di dipendenza era già emersa dall’analisi statistica dei questionari che mostrava una percentuale di accordo del 74% da parte degli utenti (item 27 “il dipendente è responsabile della sua condizione di dipendenza”). La questione viene ribadita e confermata più volte dalle risposte date durante l’intervista.

Nel documento Quale dipendenza? Dipende (pagine 76-80)

Documenti correlati