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Dipendenza, volontà, intenzionalità e debolezza.

Nel documento Quale dipendenza? Dipende (pagine 70-73)

Come anticipato alla fine del capitolo precedente e come si può notare dalla tabella riassuntiva “Confronto Pearson medie operatori/utenti”, lo scarto maggiore si ritrova nell’ottava sottoscala “dipendenza come debolezza morale / mancanza di volontà”.

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Si tratta di una differenza di quaranta punti percentili tra le medie, che sarebbe

rimasta inspiegabile se non si fosse fatto ricorso alla parte qualitativa della ricerca che ha sondato le risposte degli utenti in trattamento presso il SerT dell’ASUITS di Trieste. Quello che emerge dai racconti di molti intervistati (e che probabilmente è tra i

motivi che spingono gli utenti a colpevolizzarsi) è la sensazione di compiere “scelte volontarie di cui non possono fare a meno”.

Mentre gli operatori, e coloro che stanno accanto al soggetto dipendente, spesso tendono ad attenuarne lo stigma sociale considerandolo irresponsabile perché affetto da uno stato di malattia, gli individui stessi affetti da DUS non riescono a fare altrettanto. Questo permette loro di mantenere la dignità personale ritenendosi capaci di decidere quando e come curarsi, ma li relega nella condizione di “chi è causa del suo mal non pianga sé stesso”.

È uno stato che tutti i soggetti dipendenti hanno sperimentato almeno una volta nella vita e che sanno descrivere con inquietante accuratezza: un sentimento di

contraddizione estrema tra la ragione e l’impulso. Essi sembrano comportarsi all’opposto di ciò che razionalmente giudicano meglio per loro stessi.

Come ha descritto molto bene Hyman in un articolo del 200769, l’assuefazione all’uso

di droghe determina una situazione in cui pur persistendo la cognizione dell’atto, e delle sue conseguenze, coesisterebbe un indebolimento della volontà che fa sì che, pur volendo smettere, il soggetto dipendente ceda e, per compulsione, torni ad usare la sostanza.

Aristotele nel suo ‘Etica Nicomachea’70, chiama questa condizione ‘akrasia’, tradotto

con incontinenza, smoderatezza, smisuratezza, o debolezza della volontà di fronte alla fruizione di un piacere. Nella sua opera, Aristotele distingue tra l’incontinente e l’intemperante. Quest’ultimo non è affetto da akrasia: i suoi pensieri e le sue azioni sono in sintonia. Egli consuma la droga assecondando la volontà di usarla. Soddisfa il proprio piacere senza conflitto: giudizio, volontà ed atto, sono coerenti tra loro. Nel caso dell’incontinenza, invece, il soggetto dipendente vorrebbe opporsi al

perseguimento di un piacere che giudica nocivo, ma non ci riesce. È una situazione

molto simile a quella raccontata da Italo Svevo in La coscienza di Zeno71. Ammesso

che il soggetto DUS si droghi per assecondare un piacere, sembra che non disponga più della libertà di sceglierlo: tale piacere è determinato e condizionato dall’uso.

69Hyman Steven E. (2007) “The Neurobiology of Addiction: Implications for Voluntary Control of Behavior”.

The American Journal of Bioethics, 7(1):8-11.

70Aristotele. Etica Nicomachea, Laterza, 1983

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Potremmo sostituire il termine scientifico compulsione con il termine morale “coazione a scegliere”.

Questa coercizione si può spiegare immaginando la mente dell’akratico come divisa tra due diversi campi di forze. Da una parte ci sono i suoi giudizi, fondati su ragioni normative, costrutti razionali che caldeggiano un certo comportamento,

giudicandone il valore positivo e valutandone le conseguenze (ad esempio, nel caso della dipendenza, il tentativo di rimanere astinente). Dall’altra, ci sono forze

motivazionali di carattere non normativo e non razionale, in buona parte inconsce e non verbalizzabili. Si tratta di impulsi, desideri, appetiti, istinti, che non valutano le conseguenze di un comportamento, ma che tuttavia possono avere la forza di imporlo. Questa costrizione che il soggetto dipendente sperimenta è dovuta alla spinta di queste forze motivazionali di carattere non normativo e non razionale, bensì puramente causale. Infatti, non giustificano il comportamento (contrario al miglior giudizio del soggetto e alle sue migliori intenzioni), ma lo causano.

Questa distinzione tra cause e ragioni nei comportamenti akratici emerge sotto forma di ammissione di impotenza e di responsabilità in alcune risposte date alle domande dell’intervista.

M, uomo di 52 anni, seguito dai servizi da 30, negli anni ha sperimentato tutto quello che il mercato illegale potesse offrirgli. All’affermazione “Alcuni vedono la dipendenza come segno di debolezza e mancanza di volontà e le ricadute come fallimenti

personali… “ribatte: “Non è niente di tutto questo. È una malattia, perché stai male, però te la fai venire da solo quindi è un vizio”.

Da questa testimonianza, ad esempio, emerge l’assunzione di colpa (“te la fai venire da solo”). Il soggetto dipendente si sente come se ‘decidesse’ di ricercare e

consumare la sostanza, esattamente come può decidere di mangiare un cioccolatino o di leggere un libro. Eppure si rende conto che in questa ‘scelta’ c’è una nota

stonata: l’impossibilità di agire diversamente. Ed è proprio questa condizione di mancata libertà che viene comunemente ritenuta uno dei tratti definitori della dipendenza. Il soggetto sembra costretto ad assumere la sostanza contro la sua stessa volontà e contro le sue migliori intenzioni (spesso assunte come impegno). Questo conflitto tra aspirazioni ideali e comportamenti reiterati suggerirebbe quindi di escludere la possibilità di considerare le azioni dei soggetti DUS pienamente libere e volontarie, sebbene esse siano intenzionali in senso minimo (cioè si realizzano con sequenze di decisioni e azioni strumentali).

A., uomo di 33 anni, con un passato di consumo intensivo di hashish ed eroina, definisce questa condizione dichiarando: “Sei diviso. Da una parte sei convinto di non

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volerlo più fare, però dall’altra sotto sotto c’è come una parte di te che ti dice “fallo!”. Sei in lotta. Sei contrastato. Non vuoi farlo, ma non riesci a resistere.”

Lo stesso sentimento di impotenza viene riportato da M., uomo di 44 anni, ricoverato in alcologia: “C’erano dei momenti in cui volevo perdere il controllo, lo desideravo proprio, e allora bevevo. Alla lunga però mi sono accorto di aver innescato una miccia che mi impediva di scegliere quando perderlo e quando mantenerlo, il controllo. Adesso non ho più nemmeno il controllo di decidere di perdere il controllo. Sembra un gioco di parole, ma è proprio così, capisci?”

D, 22 anni, dipendente dall’eroina da quando ne ha 17, cerca di spiegare meglio cosa intende con quello che lui stesso definisce “un’incredibile contraddizione”: “La

dipendenza è una malattia strana, perché sembra una scelta. Ma non di vera scelta si tratta. Ho provato a uscirne tante volte e quasi altrettante volte ci sono ricaduto. Non può essere solo questione di debolezza o di forza di volontà. Altrimenti dai, prima o poi, con tutte le volte che ho tentato, ci sarei riuscito…non trovi? Poi se resti dentro determinati ambienti diventa ancora più difficile uscirne. E in più se non risolvi il resto…”.

Il riferimento agli stimoli ambientali apre il dibattito sugli “inneschi”.

Dipendenza, mancanza di controllo e inneschi ambientali

Nel documento Quale dipendenza? Dipende (pagine 70-73)

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