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Discriminazione indiretta nell’accesso al lavoro

I NDIRIZZI DI SALUTO

4. Discriminazione indiretta nell’accesso al lavoro

Una tipica vicenda di discriminazione indiretta presa in esame da due pronunce della Corte di cassazione (Cass. n. 234 del 2012 e n.

23562 del 2007) ha riguardato una aspirante all’assunzione presso una società concessionaria di un servizio di trasporto pubblico che aveva posto come condizione per l’assunzione l’altezza minima di 1,55 m. La ricorrente deduceva che, dopo aver superato le prove previste, era stata esclusa dal novero degli aspiranti, in quanto di statura inferiore a quella richiesta (m 1,53 contro 1,55).

Tale requisito era prescritto dal d.m. 23 febbraio 1999, n. 88, con cui era stato adottato il regolamento recante norme concernenti l’ac-certamento ed il controllo dell’idoneità fisica e psico-attitudinale del personale addetto ai pubblici servizi di trasporto ai sensi dell’art. 9

D.P.R. n. 753 del 1980. In particolare per le varie posizioni di lavoro erano prescritti distinti requisiti di idoneità fisica e per quella di «ad-detto di stazione» si richiedeva una statura minima di 1,55 m. indiffe-renziatamente per uomini e donne.

La ricorrente richiamava la pronuncia della Corte costituzionale (sent. n. 163 del 1993) che ha preso in esame una fattispecie similare.

In quel caso l’art. 4 della legge della provincia di Trento n. 3 del 1980, prevedeva, fra i requisiti particolari per l’accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi, la condizione che i candidati, avessero una statura non inferiore a metri 1,65, indif-ferentemente se uomo o donna. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui prevedeva il possesso di una statura fisica minima indifferenziata per uomini e donne. Ha osservato la Corte che l’aver previsto un re-quisito fisico identico per l’uno e per l’altro sesso sul presupposto della irrilevanza, ai fini dell’accesso al posto di lavoro, della diversità di sta-tura fisica tra l’uomo e la donna comporta la produzione sistematica di effetti concreti proporzionalmente più svantaggiosi per i candidati di sesso femminile, proprio in ragione del loro sesso. Ossia, l’adozione di un trattamento giuridico uniforme, con la previsione di un requisi-to fisico per l’accesso al posrequisi-to di lavoro, se identico per gli uomini e per le donne, è causa di una “discriminazione indiretta” a sfavore delle donne, poiché svantaggia queste ultime in modo proporzionalmente maggiore rispetto agli uomini, in considerazione di una differenza fi-sica statisticamente riscontrabile e obiettivamente dipendente dal sesso.

Si tratta quindi di una tipica discriminazione indiretta che si ha, ai sensi dell’art. 25 del codice delle pari opportunità, quando una di-sposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comporta-mento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio ri-spetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti es-senziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appro-priati e necessari. Il successivo art. 27 prevede poi uno specifico divie-to di discriminazione nell’accesso al lavoro, alla formazione e alla pro-mozione professionali e nelle condizioni di lavoro, divieto operante anche per la discriminazione attuata in modo indiretto attraverso meccanismi di preselezione.

Naturalmente la pronuncia della Corte costituzionale ha fatto ri-ferimento al parametro del divieto di discriminazione di genere (art.

37, primo comma, e 3, primo comma, Cost), che ha ritenuto essere stato violato dalla norma censurata.

Il caso preso in esame dalla Corte di cassazione, pur assai simile, in realtà si presentava in termini di maggiore problematicità sotto un duplice profilo. Da una parte la disposizione che introduceva il requi-sito della statura minima aveva natura subprimaria regolamentare;

quindi la sua conformità alla normazione primaria e alla Costituzione era demandata al giudice ordinario che poteva disapplicarla. D’altra parte c’era che nella specie il bando di concorso prevedeva due distin-te graduatorie per uomini e per donne.

Questo secondo profilo, che aveva portato il giudice di primo grado ad escludere la discriminazione indiretta, è stato poi schermato dal dibattito processuale e più non se ne parla. In realtà la previsione di graduatorie distinte, per uomini e per donne, avrebbe potuto anche superare la valenza di discriminazione indiretta data dalla previsione della norma regolamentare di un unico ed indifferenziato requisito di statura minima.

L’altro profilo – quello della disapplicazione – muove dal ritenuto contrasto tra la norma regolamentare (quella specifica che pone il re-quisito indifferenziato della statura minima per quella determinata po-sizione di lavoro) ed il principio di non discriminazione di genere posto sia dalla normazione primaria (artt. 25 e 27 del codice delle pari op-portunità) sia dalla stessa Costituzione (art. 37, primo comma, Cost.).

Ove il giudice ordinario ritenga il contrasto, la norma regolamentare ri-sulta tout court inapplicabile perché in violazione di legge senza che sia più necessaria una valutazione di giustificatezza caso per caso.

Ed è quello che ha ritenuto dapprima Cass. 13 novembre 2007, n.

23562, che ha affermato che la fonte normativa, dalla quale discende la previsione del limite di altezza quale requisito fisico per l’assunzio-ne come addetto di staziol’assunzio-ne, è costituita da un decreto ministeriale, la cui legittimità può essere incidentalmente apprezzata dal giudice or-dinario “ai fini dell’eventuale disapplicazione”. Ha quindi censurato la pronuncia della Corte d’appello che aveva affermato che la previsione di un’altezza minima di m 1,55 risponde a criteri di «sicurezza ed in-columità del personale in servizio e dell’utenza» senza peraltro accer-tare quali fossero le mansioni cui l’attrice poteva essere addetta e se veramente esse non potessero essere adeguatamente svolte da una per-sona alta m 1,53.

La successiva pronuncia della medesima Corte (Cass. 12 gennaio 2012, n. 234), intervenuta nella medesima vicenda nel giudizio di im-pugnazione avverso la pronuncia del giudice di rinvio, così ponendo

fine alla pluriannuale e tormentata vicenda dell’aspirante addetta di stazione, ha confermato la valutazione della Corte d’appello secondo cui «può in definitiva sostenersi che dalla disamina dei compiti, in cui si concretizza la qualifica di addetto di stazione, non si ravvisano ra-gioni che giustifichino la necessità di un’altezza minima, sotto il pro-filo della sicurezza dell’utenza e degli agenti addetti al servizio di tra-sporto, ovvero della capacità ed efficienza nell’espletamento del servi-zio stesso, come, peraltro, conferma la difesa sul punto svolta dalla re-sistente, generica e, per alcuni versi, pleonastica, quale deve ritenersi l’affermazione che, per essere stabilito il requisito della statura dal de-creto emanato dal ministero dei trasporti, per ciò stesso è stata va-gliata la necessità del medesimo».

Altro profilo di rilievo è quello del risarcimento del danno per la discriminazione indiretta patita dalla aspirante al posto. Nella specie la discriminazione patita da quest’ultima era addebitabile ad una norma regolamentare che fissava il requisito indifferenziato di statura minima; è la ritenuta illegittimità di questa norma la causa della di-scriminazione indiretta. Non di meno la società concessionaria del servizio di pubblico trasporto è stata ritenuta responsabile del danno sofferto dalla aspirante al posto avendo essa fatto applicazione della norma regolamentare illegittima; ciò che sembra evocare un principio di generale cautela al di là di ogni possibile affidamento nella legitti-mità formale della normativa subprimaria in riferimento a comporta-menti apparentemente leciti se raffrontati a norme regolamentari che però ex post risultano illegittime in quanto ritualmente e correttamen-te disapplicacorrettamen-te dal giudice con conseguencorrettamen-te illiceità di tali comporta-menti, fonte di danno risarcibile.

5. La prossimità al pensionamento come regime differenziato per