Introduzione
Giuseppina CASELLA
Componente del Consiglio Superiore della Magistratura
Secondo recenti dati Istat, in Italia sono 6.743.000 le donne tra i 16 e i 70 anni vittime di violenze fisiche; il 14,3% ha subito almeno una violenza fisica o sessuale da parte del partner; solo il 7% delle donne, però, presenta denuncia.
Dal 2005 al 2012 vi è stata una escalation della violenza di genere:
da 84 donne uccise nel 2005 si è passati alle 124 del 2012. Negli ultimi 18 mesi nel nostro Paese è stata ammazzata una donna ogni 2 giorni.
Nei primi sei mesi del 2013 sono state uccise 66 donne.
L’autore di tali violenze – secondo i numeri annuali dell’osservato-rio di Telefono Rosa – è il marito (48%) il convivente (12%) o l’ex (23%), un uomo tra i 35 e 54 anni (61%), impiegato (21%), istruito (il 46% ha la licenza media superiore e il 19% la laurea): insomma, l’au-tore della violenza è un uomo “normale”.
Ai dati italiani si sommano spaventosamente quelli mondiali, che confermano che la violenza contro le donne è un’emergenza globale.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha presentato in questi giorni il più grande studio mai fatto sugli abusi fisici e sessuali subiti dalle donne in tutte le regioni del pianeta.
Questi i dati più impressionanti emersi dall’analisi di 141 ricerche effettuate in 81 Paesi: il 35% delle donne subisce nel corso della vita qualche forma di violenza e la più comune è quella perpetrata da ma-riti e fidanzati e ad esserne vittime è il 30% delle donne. Dunque, la violenza contro le donne è un’emergenza mondiale.
E si tratta di un fenomeno radicato, pervasivo e strutturale che ha bisogno di essere letto e considerato come tale.
Non credo che queste morti possano essere catalogate in modo in-distinto nella cronaca nera: temo che le donne siano uccise in quanto e perché donne, cioè in quanto appartenenti ad un genere.
E, d’altronde, questa è proprio l’affermazione contenuta del preambolo nella Convenzione del Consiglio di Europa sulla preven-zione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la vio-lenza domestica che è appena diventata legge dello Stato. Scritta ad Istanbul l’11 maggio 2011 è stata ratificata da soli 5 paesi: Albania,
Montenegro, Portogallo, Turchia ed Italia e perché entri in vigore serve la ratifica di almeno altri 5 Stati.
Le “3 P” di Istanbul sono: prevenire la violenza; proteggere le vit-time; punire i colpevoli.
Non v’è dubbio che la ratifica della Convenzione di Istanbul è un grande passo in avanti, ma la strada da fare è ancora lunga anche se le parole del Presidente della Camera Laura Boldrini il giorno del suo insediamento lasciano ben sperare: “dovremo farci carico dell’umilia-zione delle donne che subiscono violenza travestita da amore. Ed è un impegno che sin dal primo giorno affidiamo alla responsabilità della politica e del Parlamento”.
Ben venga, intanto, la parola “femminicidio” che è riuscita a su-perare le barricate di chi non l’aveva mai amata. Femminicidio è l’o-micidio di una donna in quanto tale, è una parola-manifesto per dare il nome giusto a tutte quelle morti che nascono nella non-cultura della nostra società, dai rapporti di potere che la strutturano, dall’incapa-cità di gestire la conflittualità dei rapporti fra i due generi.
Ma ovviamente le parole non bastano.
Occorrono azioni concrete e visibili, tra cui:
– provvedere alla formazione specializzata delle persone impegna-te nella lotta contro la violenza sulle donne, siano essi operatori so-ciali, sanitari, giudiziari e magistrati;
– istituire un osservatorio permanente sulla violenza contro le donne e un piano nazionale anti-violenza di concerto con gli enti lo-cali;
– dare inizio ad una campagna di sensibilizzazione che spinga le vittime a denunciare l’accaduto;
– rendere operativo un codice di deontologia nel giornalismo e nella pubblicità, atteso che, secondo uno studio del 2006, il 50% delle donne apparse in tv non parla, il 46% è legato a contesti inerenti al sesso, alla moda e alla bellezza e solo il 2% va in tv per impegni socia-li o professionasocia-li; diffondere una specifica educazione scolastica, per-ché i bambini a scuola devono imparare il rispetto e l’uguaglianza tra i sessi e solo così cresceranno consapevoli e capaci;
– individuare risorse economiche per non chiudere i centri anti-violenza che, purtroppo, in Italia sono allo stremo (ce ne sono 127 concentrati tra Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Lombardia con 500 posti letto in tutto, il che rappresenta una goccia nel mare, visto che soltanto nell’ultimo anno più di 30.000 donne hanno bussato alle loro porte; a seguire le raccomandazioni della UE servirebbero invece 5.700 posti, 1 ogni 10.000 abitanti).
Infine, occorre offrire alle donne reali opportunità di inserimento nel mondo del lavoro perché quasi sempre quelle che ce la fanno ad uscire da certi “gironi infernali” ci riescono solo perché sono in grado di reggersi economicamente; e sotto tale profilo l’Italia è in enorme ri-tardo perché è l’ultimo Paese in Europa per tasso di occupazione fem-minile.
Introduzione Giovanna DI ROSA
Componente del Consiglio Superiore della Magistratura
Malgrado la legislazione, anche recente, tenti di codificare le possibili forme di violenza nei confronti delle donne, si avverte an-cora una resistenza culturale all’accettazione diffusa di un severo giudizio di disvalore sociale alle aggressioni, soprattutto morali, verso il genere. Manca anche, nella coscienza dell’illeicità della con-dotta e quindi della necessità di evitare rischi di una recidiva quasi abituale. La specializzazione degli operatori di giustizia tenta di pre-venire quella che, nel processo penale, viene definita la vittimizza-zione secondaria della parte lesa che si concretizza, ciò malgrado, nella eccessiva durata delle procedure, nella scarsa protezione del te-stimone, nella quasi indifferenza al suo trauma. Nella sfera civile la violenza domestica non riesce ad essere contenuta e, se possibile, ri-parata, attraverso lo strumento dell’ordine di protezione che, dopo anni dalla sua istituzione, trova ancora scarsa applicazione nelle aule giudiziarie.
Purtroppo la nuova immagine sociale della donna, nel suo model-lo essenzialmente estetico, ha posto la stessa in una nuova forma di subordinazione di genere, gravemente compromettendo lo spirito del nuovo articolo 51 della Carta Costituzionale, che prescrive situazioni di parità nella vita professionale e istituzionale. Ci è parso bene, quin-di, affrontare il problema in una prospettiva di diagnosi e di possibili rimedi culturali.
Vorrei ricordare la giurisprudenza della Cassazione sui jeans, quella sulle violenze sessuali nei luoghi di lavoro, l’attenzione dei giu-dici alla crudeltà dei reati in ambito familiare a carico delle donne, la sempre più stringente necessità di tutela della vittima, una tutela che duri nel tempo e che non dimentichi che da certe ferite non si guari-sce mai, una tutela quindi che sappia garantire la presenza dello Stato in modo durevole, perchè le ferite che apre una violenza su una donna, spesso, non guariscono più.
Di tutto questo abbiamo invitato a parlare Giulia Bongiorno, av-vocato di fama e già Presidente della Commissione Giustizia della Ca-mera ma soprattutto fondatrice dell’Associazione Doppia difesa per
donne maltrattate; Mara Carfagna, onorevole, relatrice della Legge di ratifica della Convenzione di Istanbul e promotrice della legge sullo stalking; Carole Beebe Tarantelli, da sempre attenta ai problemi delle donne e fondatrice dell’Associazione Differenza donna contro la vio-lenza di genere; Maria Monteleone, Procuratore aggiunto, che su que-sti temi lavora tutti i giorni quale dirigente del pool specializzato della Procura di Roma.
C ONTRIBUTI
Mara CARFAGNA
Componente della Camera dei Deputati
Gentili presenti,
permettetemi di ringraziare innanzitutto il Vice Presidente Vietti e tutti i componenti del Comitato per le Pari Opportunità in magistra-tura per la lodevole iniziativa di oggi, volta a fare il punto non solo sul ruolo delle donne all’interno della magistratura, ma anche sull’appor-to che la donna magistrasull’appor-to può, o potrebbe dare, innanzi alle sfide della società attuale.
Tra queste sfide, la donna magistrato è chiamata a trattare, tutti i giorni, il fenomeno della violenza contro le donne, che negli ultimi de-cenni ha assunto una dimensione preoccupante, suscitando una pro-gressiva attenzione fino a diventare una priorità di azione sia a livel-lo internazionale che nell’ambito delle agende dei governi nazionali e locali.
L’istanza del rispetto dei diritti umani, all’interno della quale è stato posto il tema della violenza contro le donne, è riconosciuta dai massimi organismi internazionali fin dal 1948, anno della Dichiara-zione universale dei diritti umani. Questo tema è stato progressiva-mente integrato nell’agenda delle Nazioni Unite attraverso una lunga serie di raccomandazioni e iniziative.
Si tratta di una piaga mondiale, ancora non sufficientemente ri-conosciuta e codificata. In Europa, come nel nostro Paese, la quasi to-talità dei casi di violenza non è denunciata, per timore del giudizio al-trui, per paura della reazione del proprio persecutore, ma anche per-ché le donne hanno difficoltà a riconoscere la violenza subita come elemento estraneo al rapporto di coppia e come violazione dei propri diritti e della propria libertà personale.
Si sviluppa soprattutto nell’ambito dei rapporti familiari e coin-volge donne di ogni estrazione sociale e di ogni livello culturale, pro-vocando danni fisici e gravi conseguenze sulla salute mentale e com-portando – vorrei sottolinearlo – alti costi socio-economici alle comu-nità. I dati che ormai tutti conosciamo mostrano una situazione preoccupante, in cui i luoghi più familiari diventano anche quelli del rischio più elevato.
Dal 2005 al 2012, sono stati 903 i casi di donne uccise da uomini e gli assassini sono uomini, nella maggior parte dei casi, appartenenti al nucleo familiare, alla cerchia degli affetti più vicini. Questi numeri sottolineano l’ampiezza del fenomeno e il suo profondo radicamento, soprattutto, nella cultura del nostro Paese, nella vita delle famiglie, nella mentalità della gente.
Si tratta peraltro di dati relativi, poiché la prima caratteristica che accomuna le diverse forme di violenza è quella dell’omertà. La violen-za non è denunciata. Il sommerso resta molto alto.
La complessità della materia ha portato molti Paesi ad elaborare delle vere e proprie strategie di prevenzione ed assistenza alle vittime, da affiancare alle misure di carattere giudiziario. Anche l’Italia, che già da tempo ha una Rete di Centri Antiviolenza Nazionale, supporta-ta dal numero di pubblica utilità 1522, possiede una vassupporta-ta ed articola-ta normativa in materia e si è doarticola-taarticola-ta del primo Piano Nazionale Con-tro la Violenza di Genere e lo Stalking.
Nel nostro Paese, dunque, sono state numerose le modifiche nor-mative volte alla tutela delle donne e dei minori vittime di violenza ses-suale o familiare e proprio nei giorni scorsi abbiamo assistito alla di-scussione sulla ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violen-za, Convenzione che si pone come ulteriore motore propulsore per l’attuazione di iniziative sociali e normative e per il sostegno e l’attiva-zione di indagini sul tema, le cui evidenze forniranno dati ed elemen-ti uelemen-tili a definire il contesto in cui sviluppare azioni di prevenzione e contrasto alla violenza di genere nel territorio italiano.
La Convenzione di Istanbul, che riconosce esplicitamente la vio-lenza sulle donne come violazione dei diritti umani è il primo stru-mento internazionale giuridicamente vincolante che si prefigge di creare un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza, grazie a misure di prevenzione, di tutela in sede giudiziaria e di sostegno alle vittime.
Vorrei inoltre porre all’attenzione della sala il dramma delle donne provenienti nel nostro Paese come sfollate. L’80% dei rifugiati nel mondo sono, secondo una stima dell’UNHCR, donne con i loro bam-bini. Nonostante questo, le donne sono una minoranza dei richieden-ti asilo nei Paesi industrializzarichieden-ti dell’emisfero nord, a causa della dif-ficoltà di movimento e della difdif-ficoltà di accedere alle risorse necessa-rie per chiedere asilo. In fuga da paesi in guerra o da aree di crisi por-tano segni di abuso che in molti casi le hanno colpite proprio in quan-to donne: in un gran numero di conflitti si è, infatti, manifestata
vio-lenza di genere come reale arma di guerra. Spesso questa viovio-lenza
“viaggia” con le donne immigrate, per essere perpetrata anche nel no-stro Paese, da aguzzini italiani o stranieri.
In definitiva, le cause della violenza sono dunque da ricercare in diversi fronti: culturale, innanzitutto. Il contrasto alla violenza parte anche dalle aule di tribunale, da chi opera nel settore, che andrebbe sensibilizzato affinché possa scovare il non detto, affinché possa esse-re anche di supporto in un delicatissimo percorso di doloesse-re e pesse-resa di coscienza, affinché non sottovaluti mai i casi di violenza e di abuso, anche e soprattutto quando essi possono erroneamente apparire come manifestazioni fisiologiche di un rapporto di coppia.
In definitiva, è indispensabile che il fenomeno della violenza con-tro le donne non sia visto o percepito come un problema esclusiva-mente femminile, ma come un problema culturale che coinvolge l’in-tero Paese e che come tale deve essere affrontato.
Permettetemi un’ultima considerazione. Appartengo ad una gene-razione che non ha avuto la possibilità di partecipare alla stesura della Costituzione italiana. Eppure, considero ogni singolo articolo della Costituzione italiana elemento fondamentale, irrinunciabile del no-stro comune sentire civico e patriottico. Anche se non è questa l’occa-sione e non ci sarebbe il tempo di approfondire un concetto che mi è molto caro, consentitemi di dire una cosa: quello che dà un senso a tutto, quello che può sanare le lacerazioni di questo Paese, non è sol-tanto il passato più o meno recente, è soprattutto la ferma volontà di perseguire un futuro di condivisione e di libertà. Se si leggono gli in-terventi delle 21 donne della Costituente, appartenenti a diverse aree politiche, si percepisce questa continua ricerca di inclusione di sinte-si tra visinte-sioni, tra soluzioni anche molto diverse, il tentativo di costrui-re un fondamento di condivisione e di partecipazione. Considero il loro contributo fondamentale, per il ruolo della donna nella società e non solo nella politica. Ai tempi della Costituente, ai tempi di queste 21 grandi donne, quella femminile era una condizione di ghettizza-zione, non solo sul piano politico, non solo sul piano della società, ma addirittura all’interno della famiglia. A me sembra incredibile, oggi, pensare ad alcuni interventi nell’Aula di Montecitorio. La Senatrice Marisa Rodano invitava a sorvolare sulle motivazioni addotte da chi era contrario all’ingresso delle donne in magistratura. Davvero var-rebbe la pena di sorvolare, ma ricordare come determinate tesi siano incredibili per noi, forse può servire per capire il contesto nel quale si operava. Si disse che le donne non potevano entrare in magistratura in ragione di una loro presunta instabilità mentale, durante alcuni
specifici giorni del mese. Per quanto faccia sorridere, proviamo a im-maginare cosa volesse dire dover rispondere, argomentare su una te-matica di questo tipo: ci rendiamo conto della forza, del coraggio, della serietà e anche della difficoltà, quindi del valore di questo lavo-ro, di questo importante impegno.
Allora mi permetto di dire a tutte le persone presenti oggi: tutto andrà perduto se non si arriverà alla piena equiparazione dei diritti tra uomini e donne. È indispensabile arrivare al raggiungimento dell’u-guaglianza de jure e de facto, identificando e condannando tutte quel-le microvioquel-lenze che, messe insieme nel quotidiano, giustificano una mentalità violenta. E per microviolenza intendo anche la soverchieria tra donne, l’incapacità di fare spesso squadra tra di noi, l’agire per ste-reotipi, il non saper discernere l’agonismo aggressivo dalla sana grin-ta competitiva. È invece indispensabile, oggi più che mai, lavorare per amore delle Istituzioni, senza politicizzazioni, senza preconcetti, per puro spirito di servizio. Sto parlando della piena equiparazione non sulla carta, ma nell’intimo pensare di ciascuno di noi, donne e uomi-ni. Ed è proprio alle donne impegnate in magistratura che mi rivolgo, alle tante donne che quotidianamente combattono sul proprio territo-rio il fenomeno della discriminazione delle violenze e di genere. A tutte voi dico: nessuna di noi può essere veramente libera se alcune di noi non lo sono, nessuna di noi può andare avanti fino a quando al-cune di noi resteranno indietro.
Giulia BONGIORNO Avvocato
In effetti, non è possibile obbligare le donne alla denuncia. Nella fondazione in cui opero con Michelle Hunziker, adottiamo un espe-diente per incoraggiare le donne: permettiamo loro di avvicinarsi alla fondazione tramite mail, mantenendo l’anonimato ed evitando la de-nuncia alle forze dell’ordine. Pensate che una donna, da almeno tre anni, ci scrive in forma anonima: l’abbiamo identificata; sappiamo chi è, ma non la costringiamo a denunciare, perché una denuncia forzata non ha la stessa efficacia di una denuncia spontanea, perché non la ri-peterebbe in aula e avrebbe sempre paura. Tra l’altro, si tratta di una donna autolesionista; un caso tragico: è stata stuprata dal nonno, poi dal padre e, infine, dai fratelli. Oggi, che più nessuno le usa violenza, è lei stessa a farlo e le uniche persone con le quali parla sono Michel-le Hunziker e Michel-le nostre operatrici. Come ho già detto a Mara, questa storia doveva fungere da monito, proprio al fine di evitare, in sede di redazione del testo di legge, che le denunce, una volta depositate, non potessero essere revocate. Una buona parte di donne non denunce-rebbe più. Peraltro, i reati più gravi sono comunque perseguibili d’uf-ficio. In questo modo, evitiamo – nella fase in cui maggiore è la diffi-coltà a denunciare – di dire loro “Se denunciate non potrete mai più re-vocare la denuncia”, perché può sembrare facile ma non lo è.
Anch’io farò un intervento breve, per il tempo rimasto a nostra di-sposizione (perché so che siamo in ritardo). Di solito inizio sempre con dei numeri, che secondo me fanno capire qual è il problema. Ora pen-serete: “Adesso tirerà fuori dei numeri statistici. Ora tirerà fuori chissà che numeri”. Se vi dico i seguenti numeri: 100, e circa 12-13, a cosa pensate che mi riferisca? Circa 100 donne in questa sala, circa 12 uo-mini. Non mi stupisce che gli uomini siano in prima fila – perché de-vono arrivare i tempi in cui dopo l’ottimo Vietti arriverà una “Vietta”, devono ancora arrivare questi tempi – e non mi stupisce quindi questa prima fila. Se per l’anno prossimo doveste organizzare un altro con-vegno e voleste invitarmi, voglio vedere se in questa fila riusciremo a conquistare qualche posticino. Ciononostante, temo sia più grave il rapporto di 100 a 12, perché il fatto che ci siano pochi uomini mi ter-rorizza: da sole, le donne, difficilmente possono riuscire a cambiare al-cune cose. Eppure questo viene considerato un problema prettamente
femminile. Ecco: sarebbe bello se ci fossero più uomini ad occuparsi di questo problema. Detto questo, ne abbiamo 12 – perché abbiamo il top in prima fila – e li dobbiamo già ringraziare.
So che stamattina avete parlato delle magistrate donne: voi sape-te che la prima donna che si laureò in Giurisprudenza era Amoretti nel 1883? Parini le dedicò un’ode che diceva “tu gisti colà, Vergin preclara,/
Ove di molle piè l’orma è più rara”. Le dedicarono addirittura una poe-sia – perché era raro che una donna si laureasse in utroque iure (cioè,
“nell’uno e nell’altro diritto”) – e meritò un’ode.
Quando la prima donna avvocato, dopo lunga fatica, si iscrisse al-l’albo degli avvocati, sapete cosa accadde? Accadde che la Corte d’Ap-pello di Torino la cancellò dall’albo per tre ragioni che noi donne dob-biamo tenere in considerazione: prima ragione – questo è diritto – nel-l’albo si usa la parola “avvocato” e non “avvocata”; seconda ragione, la toga che si usa nei tribunali è molto aperta davanti, ergo gli abiti fem-minili avrebbero potuto essere provocatori; la terza ragione della
Quando la prima donna avvocato, dopo lunga fatica, si iscrisse al-l’albo degli avvocati, sapete cosa accadde? Accadde che la Corte d’Ap-pello di Torino la cancellò dall’albo per tre ragioni che noi donne dob-biamo tenere in considerazione: prima ragione – questo è diritto – nel-l’albo si usa la parola “avvocato” e non “avvocata”; seconda ragione, la toga che si usa nei tribunali è molto aperta davanti, ergo gli abiti fem-minili avrebbero potuto essere provocatori; la terza ragione della