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Stella Coglievina

SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. I concetti chiave: i divieti di discriminazio-

ne tra uguaglianza e diversità. 3. Diritto antidiscriminatorio e libertà religio- sa: potenzialità e punti critici. 3.1. Diversi, ma non troppo: una tutela limitata della libertà religiosa. 3.2. Giustificare la neutralità… con la neutralità. 3.3. Il costo degli accomodamenti. 4. Per concludere: il diritto antidiscriminatorio tra luci ed ombre.

1. Introduzione

Libertà religiosa, diversità e convivenza: sono i concetti che, già in- seriti nel titolo di questo Convegno, guideranno l’analisi di un tema tanto complesso quanto abbondantemente esaminato quale la non di- scriminazione e il suo rapporto con il fattore religioso1. Mi occuperò

dei divieti di discriminazione, appunto, non tanto per ricostruire esau- stivamente le fonti del cosiddetto “diritto antidiscriminatorio” – sulle quali mi limiterò a qualche cenno – quanto per osservare se e in che modo essi appaiono come strumenti per la tutela della libertà religiosa, per la promozione delle diversità, per la convivenza di più religioni nel- le società plurali. Sicuramente l’introduzione della religione tra i fattori presi in considerazione dal diritto antidiscriminatorio denota l’attenzio- ne per una caratteristica che può dare adito a disparità e ad esclusioni. Un’attenzione che si manifesta nel legislatore – europeo prima, e na- zionale poi – proprio in un momento storico in cui la pluralità delle

1 Mi sono occupata del tema nella monografia Diritto antidiscriminatorio e religio-

ne. Uguaglianza, diversità e libertà religiosa in Italia, Francia e Regno Unito, Tricase

(LE), 2013, dalla quale scaturisce gran parte delle riflessioni presentate a questo Con- vegno e alla quale rinvio per ulteriori approfondimenti e indicazioni bibliografiche.

espressioni religiose e delle presenze etniche e nazionali si fa sempre più forte e ha bisogno di essere governata2.

Nascono così, nell’ambito dell’Unione europea, gli interventi che hanno dato origine alle ormai celebri direttive dell’anno 20003, delle

quali una, la 2000/78, relativa anche alla discriminazione religiosa.

2. I concetti chiave: i divieti di discriminazione tra uguaglianza e di- versità

Prima di osservare quali siano le conseguenze del diritto antidiscri- minatorio per la libertà religiosa e per le dinamiche della convivenza, occorre fare chiarezza sui termini utilizzati dal legislatore europeo, nei quali si possono individuare alcuni aspetti di novità e alcune potenziali- tà per la tutela del fattore religioso. Le direttive del 2000 contengono, infatti, un apparato concettuale finalizzato ad uniformare, negli Stati membri, la lettura della non discriminazione e la tutela della parità. Ci concentreremo in particolare su due divieti, previsti dalla direttiva 2000/78: quello di discriminazione diretta e quello di discriminazione indiretta4.

2 F. M

ARGIOTTA BROGLIO, Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell’Unione

Europea, in F. MARGIOTTA BROGLIO, C. MIRABELLI, F. ONIDA, Religioni e sistemi giu-

ridici, Bologna, 2000, p. 150 e 162 ss.; A. LICASTRO, Unione europea e “status” delle

confessioni religiose, Milano, 2014, p. 59 ss.; F.AMATO, Le nuove direttive comunitarie

sul divieto di discriminazione. Riflessioni e prospettive per la realizzazione di una società multietnica, in Lavoro e diritto, 2003, n. 1, p. 127 ss.

3 Direttiva n. 2000/43 del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trat-

tamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica; Direttiva n. 2000/78, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trat- tamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Sull’elaborazione di queste direttive cfr. C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, Bologna, 2008,

spec. p. 183 ss.; S. COGLIEVINA, Diritto antidiscriminatorio e religione, cit., p. 27 ss.

4 Gli altri concetti presenti nella direttiva sono le molestie e l’ordine di discrimina-

re, anch’essi vietati nel quadro della tutela della parità. I divieti e i concetti espressi nelle due direttive sono formulati con termini del tutto analoghi; qui ci occuperemo della direttiva 2000/78 perché relativa al fattore religioso. Sulle nozioni utilizzate, so- prattutto su quelle di discriminazione, sono stati versati fiumi di inchiostro: ampiamente sul tema cfr. D. SCHIEK,L.WADDINGTON,M.BELL et al. (eds.), Cases, materials and

Ai sensi dell’art. 2, par. 2 della direttiva, la discriminazione diretta si ha quando, sulla base della religione o delle convinzioni personali, «una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sareb- be trattata un’altra in una situazione analoga». La discriminazione indi- retta, invece, sussiste «quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione […] rispetto ad altre persone», a meno che tale disposizione, criterio o prassi possano essere giustificati5.

Come si può notare, benché collegati al principio di uguaglianza, i divieti di discriminazione sono volti a reprimere non tanto e non solo le differenziazioni, ma i trattamenti deteriori o «meno favorevoli» in ra- gione di una particolare caratteristica (tra cui la religione). Il concetto di discriminazione assume quindi un’accezione negativa e peggiorativa6.

Le due declinazioni del divieto individuano, poi, gli atti o le prassi che possono determinare il trattamento sfavorevole. Nella discriminazione diretta, si è in presenza di norme, criteri o prassi che si riferiscono, più o meno esplicitamente, al fattore religioso e che, sulla base di esso, de- terminano uno svantaggio per alcune categorie di soggetti. Ciò significa

Text on National, Supranational and International Non-Discrimination Law, Oxford-

Portland, 2007, con numerosi riferimenti a dottrina e giurisprudenza.

5 La definizione di discriminazione diretta è stata qui codificata distinguendola da

quella di discriminazione indiretta, introdotta in ambito internazionale ed europeo attra- verso alcune sentenze della Corte di giustizia e della Corte di Strasburgo. Particolar- mente interessante, per quanto riguarda quest’ultima, è la sent. del 6 aprile 2000, Thlim-

menos c. Grecia (ric. n. 34369/97) nella quale per la prima volta – e proprio relativa-

mente a un problema di libertà religiosa – la discriminazione è stata individuata non solo nel trattamento ingiustamente differenziato, ma anche in un trattamento uguale di situazioni diverse, introducendo così la nozione di discriminazione indiretta (cfr. O.DE

SCHUTTER, The Prohibition of Discrimination under European Human Rights Law.

Relevance for the EU non-discrimination Directives - an update, Luxembourg, OPEC,

2011, p. 23 ss.).

6 Il concetto di discriminazione come trattamento peggiorativo deriva da un’inter-

pretazione consolidata già in ambito internazionale, nelle convenzioni internazionali sulla lotta alla discriminazione: cfr. E.W. VIERDAG,The concept of discrimination in

international law: with special reference to human rights, The Hague, 1973, p. 19 ss.;

M. BOSSUYT, L’interdiction de la discrimination dans le droit international des droits

che, per non incorrere in una discriminazione diretta, una disposizione dovrà essere neutra e non prendere in considerazione i fattori di discri- minazione previsti: come è stato detto, dovrà «ignorare una differen- za»7. Nella discriminazione indiretta, invece, lo svantaggio è causato da

una norma, un criterio o una prassi “ingiustamente” neutro, che mette in una posizione di sfavore un insieme di soggetti proprio in ragione della mancata considerazione di una certa caratteristica. In questo caso, quin- di, sarà necessario differenziare le regole, per evitare una discrimina- zione8.

Osservando più nel dettaglio alcune delle caratteristiche fondamen- tali delle nozioni introdotte dalle direttive, si può osservare che nelle direttive – come nelle norme di attuazione negli Stati membri – non rileva l’intento soggettivo di discriminare: una misura è discriminatoria se, a prescindere dalla volontà di chi l’ha messa in atto, vi è un nesso causale tra il credo religioso della vittima e la situazione di svantaggio che si è determinata. Si è parlato, in questo senso, di una nozione ogget-

tiva della discriminazione: essa si individua, infatti, non solo in astratte

differenziazioni, ma nelle situazioni di sfavore che effettivamente si verificano e indipendentemente dalle motivazioni soggettive di chi le realizza9.

Per quanto riguarda la tutela della libertà religiosa, il carattere og- gettivo e non soggettivo della discriminazione10, in particolare l’irrile-

7 Così nel noto scritto di P. I

CHINO, Il contratto di lavoro, in A. CICU,F.MESSINEO,

L. MENGONI (dir. da), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 2000, vol.

XXVII, t. 2, p. 570. Sul passaggio da una tutela classica – dove non discriminare signi- fica astenersi dal considerare alcune caratteristiche – verso una più innovativa tutela delle differenze attraverso il diritto antidiscriminatorio cfr., di recente, J. RINGELHEIM,

Adapter l’entreprise à la diversité des travailleurs: La portée transformatrice de la non-discrimination, CRIDHO working paper, 2013/5, p. 3, in http://cridho.uclouvain.be

/fr/.

8 M.V. B

ALLESTRERO, Eguaglianza e differenze nel diritto del lavoro. Note intro-

duttive, in Lavoro e diritto, 2004 (XVIII), n. 3-4, pp. 501-525.

9 D.S

TRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, Torino, 2008, p. 79 e 317 ss.

10 L’enfatizzazione dell’effetto discriminatorio (elemento oggettivo) rispetto all’ele-

mento intenzionale/soggettivo mostrerebbe una finalità principalmente ridistributiva del diritto antidiscriminatorio europeo. Si presta, cioè, attenzione agli effetti “dispari”, in

vanza dell’intenzionalità, agevola la prova da parte della vittima di un trattamento discriminatorio, specie quando il riferimento al fattore reli- gioso non è esplicito nel comportamento contestato11. L’accento è po-

sto, infatti, sugli effetti discriminatori di una misura: partendo dal sem- plice riscontro di una situazione svantaggiosa di una persona rispetto ad un’altra, a motivo del suo credo religioso, sarà possibile – almeno in teoria – classificare molti atti come discriminatori12.

L’irrilevanza dell’intentio dell’azione non comporta che qualsiasi svantaggio possa essere considerato una discriminazione. Un’altra im- portante caratteristica di questi concetti è, infatti, la presenza di un ele- mento comparativo, nucleo di tutte le definizioni di discriminazione13.

Il trattamento discriminatorio è infatti definito come «meno favorevo- le» e tale minor favore deve essere rilevato attraverso il raffronto tra situazioni analoghe14. Attraverso la comparazione, il divieto di discri-

modo da correggerli, e non a individuare e reprimere un atto intenzionale (cfr. D. STRAZ- ZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 214).

11 A tal proposito, si noti che chi mette in atto il trattamento discriminatorio potreb-

be non essere a conoscenza dell’appartenenza religiosa della “vittima”: ipotesi assai plausibile, considerato che le convinzioni religiose fanno parte di una sfera personale che può non emergere in segni visibili all’esterno.

12 Poiché l’obiettivo è quello della verifica e della rimozione delle disparità “di fat-

to” che limitano l’espressione della libertà religiosa, il diritto antidiscriminatorio con- sente di controllare tutti quei trattamenti sfavorevoli che derivino anche da pratiche consolidate o da norme che non siano dirette a discriminare, proprio per l’irrilevanza della “volontà” soggettiva. La direttiva, peraltro, non si applica solo ai datori di lavoro o a soggetti privati, ma anche ad enti pubblici che possono determinare trattamenti sfa- vorevoli attraverso prassi o norme. Se si pensa alle disposizioni o alle pratiche che ri- guardano le religioni – specie quelle tradizionali – e che non hanno un intento discrimi- natorio, il diritto europeo comporterebbe un’analisi molto incisiva che guardi ai loro effetti più che alla loro ratio, ferma restando la limitata applicabilità dei divieti di di- scriminazione (all’ambito del lavoro) e la libertà lasciata agli Stati circa gli strumenti per la loro messa in atto.

13 In tal senso M.V. B

ALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., pp. 516-517.

14 V’è da dire che, rispetto alle norme previgenti, le direttive del 2000 hanno allar-

gato la gamma dei possibili termini di paragone: questi non sono individuati obbligato- riamente in una situazione reale e contemporanea al verificarsi della presunta discrimi- nazione, ma anche in una collegata al passato, oppure addirittura ipotetica (l’art. 2, par. 2, lettera ‘a’, si riferisce a come «sia stata o sarebbe trattata» una persona in una circo- stanza simile a quella del soggetto discriminato). Ciò aumenta, evidentemente, le op-

minazione diretta è volto a eliminare gli “svantaggi comparativi” e quindi, come obiettivo ultimo, a realizzare una parificazione della si- tuazione di tutti i lavoratori, a prescindere dalla loro appartenenza con- fessionale.

È necessario, poi, soffermarsi sulla definizione di discriminazione indiretta, particolarmente rilevante se applicata al fattore religioso. Si parla in questo caso di disposizioni o prassi «apparentemente neutre», ovvero applicate indistintamente a tutti i soggetti e che possono creare uno svantaggio per una categoria di persone in ragione – nel nostro ca- so – della religione. Questa definizione è stata resa, con le direttive del 2000, più lineare e adattabile ai diversi fattori considerati.

In primo luogo, se prima del 2000 era necessario provare che una norma neutra comportava uno svantaggio per una quota numericamente più consistente di soggetti rispetto ad altri (si parlava, in questo senso, di un disparate impact su alcune categorie di soggetti)15, nella direttiva

2000/78 non si richiede più alcun calcolo statistico per provare la di- scriminazione. Si stabilisce, invece, che norme apparentemente neutre sono discriminatorie se «possono mettere» (anche potenzialmente) in posizione di «particolare svantaggio» talune persone rispetto ad altre. In

portunità di provare una situazione di discriminazione. Sul punto M. BARBERA, Egua-

glianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio comunitario, in Giorn. dir. lav. e relazioni industriali, 99-100, 2003, p. 411; G.DE SIMONE, Eguaglian-

za e nuove differenze nei lavori flessibili, fra diritto comunitario e diritto interno, in Lavoro e diritto, 2004, pp. 535 ss.; D. IZZI, Discriminazione senza comparazione? Ap-

punti sulle direttive comunitarie “di seconda generazione”, in Giorn. dir. lav. e rela- zioni industriali, 99-100, 2003, p. 426; P. CHIECO, Le nuove direttive comunitarie sul

divieto di discriminazione, in Riv. it. dir. lav., 2002, p. 75 ss.; sui risvolti delle nuove

comparazioni nella valutazione delle discriminazioni religiose cfr. P. BELLOCCHI, Plu-

ralismo religioso, discriminazioni ideologiche, in Argomenti dir. del lavoro, 2003, n. 1,

p. 211 ss.; L. VICKERS, Religion and belief discrimination in employment – the EU Law,

European Commission, Luxembourg, 2007, p. 14 ss.

15 M.V. B

ALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 513; G.THÜSING, Follow-

ing the U.S. Example: European Employement Discrimination Law and the Impact of Council Directives 2000/43/EC and 2000/78/EC, in Int. Journal Comparative Labour Law Industrial Rel., 2003, p. 191 ss.; sulle diverse interpretazioni del termine ‘disparate

impact’: D. SCHIEK,Indirect discrimination, in D. SCHIEK,L.WADDINGTON,M.BELL et

al., Cases, Materials and Text on National, Supranational and International Non- Discrimination Law, cit., p. 397 ss.

questo modo, si tiene conto della difficoltà nell’uso di un criterio quan- titativo per alcuni fattori di discriminazione presenti nella direttiva. Ad esempio, può essere difficile misurare la porzione di soggetti svantag- giati in base alla religione, se mancano statistiche o dati sull’apparte- nenza e, più in generale, la raccolta di dati sull’appartenenza religiosa e razziale dei lavoratori è fortemente limitata, quando non proibita16. I

parametri per la dimostrazione del trattamento sfavorevole diventano così meno rigidi, ma anche più vaghi ed opinabili17. Difatti, venendo

meno un criterio quantitativo (e perciò oggettivo), non è chiarito come possa essere provata la sussistenza di un «particolare svantaggio», né rispetto a quali soggetti (l’art. 2 parla genericamente di «persone che professano una determinata religione […] rispetto ad altre persone»)18.

Peraltro, per la direttiva c’è discriminazione non soltanto quando lo svantaggio è reale ed attuale, ma anche quando la misura neutra può crearlo potenzialmente.

La definizione in esame è ampia anche per quanto riguarda gli atti che possono determinare una discriminazione indiretta. L’articolato parla, infatti, di «una disposizione, un criterio o una prassi», applican- dosi sia a regole presenti nella normativa statale, sia ad altre misure messe in atto da privati19.

Occorre a questo punto sottolineare un dato fondamentale per la de- finizione di discriminazione indiretta: non qualsiasi norma o prassi neu- tra che causi uno svantaggio sarà da classificare come discriminatoria, ma si ammettono dei criteri di giustificazione. Una norma “parificatri- ce”, quindi, sarà lecita e non discriminatoria quando sia «oggettivamen-

16 Sul punto, ampiamente, J. R

INGELHEIM, Processing Data on Racial or Ethnic

Origin for Antidiscrimination Policies: How to Reconcile the Promotion of Equality with the Right to Privacy?, Jean Monnet Paper n. 08/06 (disponibile sul sito www.ssrn.com).

17 M.V. B

ALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 513.

18 Ciò non significa, anche alla luce di quanto affermato nel preambolo della diret-

tiva 2000/78 (n. 15), che i criteri statistici non debbano mai essere utilizzati per dimo- strare l’esistenza di una discriminazione, ma soltanto che non si tratta più di una condi- zione necessaria per poter definire un trattamento come sfavorevole. Come si vedrà, in alcuni casi giurisprudenziali recenti, misurare anche quantitativamente i soggetti svan- taggiati da una misura neutra torna ad essere un criterio rilevante (infra, par. 3.1).

19 Cfr., oltre agli Autori citati nella nota 15, C.F

AVILLI, La non discriminazione nel-

te giustificat[a] da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari» (n. 2, lettera b, sub i). La questione della “giustificazione” della discriminazione indiretta è stata spesso affrontata dalla giurisprudenza europea e dalla dottrina20. Si trat-

ta, infatti, di un momento fondamentale per comprendere fino a che punto può giungere l’obbligo di differenziare i trattamenti (per non cau- sare una discriminazione indiretta) e sulla base di quali criteri un trat- tamento uguale per tutti sia corretto.

La norma neutra deve anzitutto rispondere a un fine legittimo; suc- cessivamente si dovrà verificare che, per raggiungerlo, le misure prese siano state proporzionate. Ad esempio, in alcune attività commerciali può essere imposto un codice di abbigliamento, uguale per tutti i dipen- denti, che risponde allo scopo legittimo di presentarsi in modo “unifor- me” alla clientela. Si dovrà, però, dimostrare la necessità e l’appropria-

tezza di questa prassi nel momento in cui si dovesse rifiutare ad alcune

persone di indossare simboli religiosi, intaccando l’omogeneità della divisa aziendale21. In particolare, occorrerà provare che l’abbigliamento

imposto era adeguato a perseguire lo scopo ricercato (appropriatezza) e che non vi erano altri modi (necessità) per preservare l’immagine del- l’impresa data alla clientela, se non eliminando i riferimenti ai simboli religiosi. Si tratta, in sostanza, di operare un bilanciamento tra la tutela del fattore religioso e gli obiettivi della norma neutra. Vi saranno casi in cui sarà facile stabilire la prevalenza di questi ultimi sull’attenzione alle diversità religiose: ad esempio, le disposizioni sulla sicurezza dell’am- biente di lavoro non risulteranno indirettamente discriminatorie, pur penalizzando i lavoratori che vogliano portare un copricapo a carattere religioso invece di un casco protettivo. In altri casi, invece, la valuta-

20 Sul tema, anche per ulteriori riferimenti e rinvii alla giurisprudenza, cfr.

D. SCHIEK, Indirect discrimination, cit., p. 434 ss.; F. SAVINO, Differenze di trattamento

e giustificazioni legittime nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in Lavoro e diritto, 2004, p. 576 ss.; P. CHIECO, Le nozioni di discriminazioni diretta e indiretta nel-

l’ordinamento italiano, in AA.VV., Molestie e discriminazioni: tutela civile e sanzioni penali, UNAR – Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 2006, p. 81 ss.; G.DE

SIMONE, Eguaglianza e nuove differenze, cit., p. 536.

21 A tale rifiuto può seguire un demansionamento o il licenziamento, come in alcuni

recenti casi britannici, poi analizzati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sent.

zione dell’appropriatezza della misura neutra rispetto ai diversi interessi in gioco sarà meno netta.

Sintetizzando, quindi, i punti fondamentali delle nozioni introdotte dalla direttiva, possiamo affermare che i divieti di discriminazione sono volti a individuare e a reprimere trattamenti sfavorevoli (deteriori, non solo differenziati), determinati da uno dei fattori protetti (nel nostro ca- so la religione). Altra caratteristica fondamentale è che si guarda agli svantaggi subiti di fatto da individui o gruppi a motivo della religione, senza che rilevi l’intentio di discriminare. Il trattamento sfavorevole, infine, può derivare non solo da comportamenti che riguardano diretta- mente il fattore religioso, ma anche da norme, criteri o prassi che sono applicati indistintamente a tutti e che non diversificano adeguatamente il trattamento per gli appartenenti ad alcune religioni.

3. Diritto antidiscriminatorio e libertà religiosa: potenzialità e punti critici

Come possono incidere, i due divieti summenzionati, sulla tutela del diritto di libertà religiosa?

L’obiettivo di questi due divieti appare quello di una garanzia della parità in base alla religione (nessuno può subire trattamenti sfavorevoli a causa del proprio credo), ma si estende anche alla tutela delle diversi- tà religiose. Da un lato, infatti, si vietano le norme o le pratiche che considerano la religione come fattore per trattare in modo peggiorativo i soggetti portatori di una determinata identità confessionale; in altre parole si vieta di escludere qualcuno perché portatore di una diversità, di un’appartenenza religiosa. Dall’altro lato, con il divieto di discrimi- nazione indiretta si obbliga – qualora ricorrano determinate condizioni – a differenziare il trattamento, perché si riconosce che una norma uguale per tutti e standardizzata può creare uno svantaggio per alcuni. Per quanto riguarda il fattore religioso, è proprio il divieto di discrimi- nazione indiretta a porre, come vedremo, le questioni più complesse: infatti, sarà necessario stabilire fino a che punto si possano prendere in considerazione le differenti esigenze religiose, in modo da non deter-

minare svantaggi, salvaguardando allo stesso tempo la neutralità e