UN COMMENTO ALLA DECISIONE
E. O.C V ABERCROMBIE & FITCH STORES, INC.
Adelaide Madera
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Il quadro normativo negli U.S.A. 3. I pa-
rametri adottati dalla giurisprudenza statunitense. 4. La decisione E.E.O.C. v.
Abercrombie & Fitch Stores, Inc. 5. La differenziazione fra disparate treatment
e disparate impact. 6. La collocazione di E.E.O.C. v. Abercrombie nell’ambito di un indirizzo giurisprudenziale espansivo della protezione della libertà reli- giosa.
1. Introduzione
Il contesto giuslavoristico si presta sempre più a divenire terreno di scontro fra istanze di accomodamento religioso da parte dei prestatori d’opera, il cui mancato soddisfacimento è potenzialmente suscettibile di configurare forme di discriminazione, e la legittimità dei limiti cui può essere soggetto l’esercizio della libertà religiosa in funzione delle esi- genze organizzative di una impresa. Tali questioni sono sempre più fre- quenti nell’ambito delle moderne democrazie multiculturali, ove sem- pre più si assiste al fenomeno del moltiplicarsi delle presenze confes- sionali (sia pure accompagnato da una crescente “fluidità dell’affilia- zione religiosa”)1 con una conseguente pluralizzazione delle modalità
di espressione delle credenze e delle convinzioni da parte dei singoli e dei gruppi.
Fra le questioni concernenti il limite entro il quale può essere eserci- tato il diritto ad “essere se stessi” in ambito lavorativo, e la conseguente definizione dei confini entro cui è possibile restringere la libertà dei
1 Cfr. D.F.F
LAKE, After Abercrombie: Religious Discrimination Based on Employ-
lavoratori di esprimere le proprie convinzioni, l’uso del velo islamico frequentemente determina “frizioni” con i datori di lavoro, producendo fenomeni di “radicalizzazione identitaria” da entrambe le parti2: si tratta
di una tematica che assume sempre più rilievo in ambito sia europeo sia statunitense. Anche negli U.S.A. vi è infatti una crescente attenzione rivolta all’emergere di nuove tensioni fra le rivendicazioni dei prestatori d’opera all’esercizio della libertà di espressione della propria apparte- nenza confessionale e il contrapposto “employer’s …right to cultivate the corporate image of its choosing”3. Recentemente, problemi relativi
a possibili restrizioni della libertà del lavoratore emergono non solo quando l’impresa rivendichi la propria adesione ad un orientamento ideologico (sia religioso sia puramente filosofico) ma pure quando tali limitazioni siano connesse a logiche di carattere commerciale, quale la rivendicazione della crescente importanza attribuita all’“immagine del- l’impresa”4. L’immagine che un’azienda proietta sui suoi dipendenti,
sugli shareholders e sul pubblico viene infatti considerata un fattore chiave del successo di una impresa: tale fenomeno determina un più attento scrutinio delle istanze di accomodamento religioso suscettibili di interferire con la stessa5.
2 Cfr. A.D
E OTO, L’osservanza di precetti religiosi in ambito lavorativo, in S.DO- MIANELLO (a cura di), Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguar-
dia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, Bologna,
2012, p. 194.
3 Cfr.D.F.F
LAKE, Image is Everything: Corporate Branding and Religious Ac-
commodation in the Workplace, in University of Pennsylvania Law Review, 2014-2015,
163, p. 2 ss.
4 Cfr. Fagan v. Nat’l Cash Register Co., 481 F.2d 1115, 1124-25 (D.C. Cir. 1973):
“Perhaps no facet of business life is more important than a company’s place in public estimation. That the image created by its employees dealing with the public… affects its relations is so well known that we may take judicial notice of an employer’s proper desire to achieve favorable acceptance”.
5 Cfr. A.L
ICASTRO, Quando è l’abito a fare il lavoratore. La questione del velo
islamico, tra libertà di manifestazione della religione ed esigenze dell’impresa, in Sta- to, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, settembre 2015, p. 18.
2. Il quadro normativo negli U.S.A.
Negli U.S.A., la protezione dei lavoratori contro forme di discrimi- nazione religiosa è affidata al Title VII del Civil Rights Act del 1964. La tutela dell’esercizio della libertà religiosa non è tuttavia offerta in forma incondizionata: si richiede ai datori di lavoro di fornire ai dipendenti forme di accomodamento per le loro credenze e pratiche religiose, pur- ché questo non implichi una “undue hardship on the conduct of the em- ployer’s business”6. La legge per un verso consente ai datori di lavoro
di escludere alcune condotte e al tempo stesso impone loro obblighi positivi. Inizialmente la tutela offerta dal Civil Rights Act consisteva nel garantire ai prestatori d’opera solo un formale equal treatment, proi- bendo le cosiddette status-based discriminations, ossia le discrimina- zioni fondate sullo status dell’individuo appartenente ad una classe pro- tetta. In seguito alle indicazioni contenute nelle direttive dell’Equal
Employment Opportunity Commission – indirizzate ad ampliare la tute-
la del lavoratore e ad onerare il datore di lavoro di un obbligo positivo di venire incontro ai “reasonable religious needs” dei dipendenti, a me- no di un “serious inconvenience to the conduct of the business” – e in forza delle pronunzie che interpretavano il divieto di discriminazione solo come eguale trattamento dei dipendenti senza riguardo specifico per l’appartenenza confessionale7, il Congresso nel 1972 ha ampliato la
definizione di religione, includendo, nella protezione offerta dal Civil
Rights Act, “all aspects of religious observance and practice”. Nella sua
formulazione attuale la tutela antidiscriminatoria protegge non solo lo
6 È illegale infatti per un datore di lavoro (1) “to fail or refuse to hire or to discharge
any individual, or otherwise to discriminate against any individual with respect to his compensation, terms, conditions, or privileges of employment, because of such individ- ual’s race, color, religion, sex or national origin or (2) to limit, segregate, or classify his employees or applicants for employment in any way which would deprive or tend to deprive any individual of employment opportunities or otherwise adversely affect his status as employee, because of such individual’s race, color, religion, sex or national origin”. Cfr. 42 U.S.C. §2000e-2(a).
7 Cfr. Dewey v. Reynolds Metal Co. and Riley v. Bendix Corp., 402 U.S. 689
(1971), ove le Corti inferiori hanno ritenuto, e la Corte Suprema ha confermato, che richiedere ai dipendenti di lavorare la domenica non costituiva discriminazione qualora la regola si applichi a tutti i dipendenti senza riguardo alla loro appartenenza fideistica.
status di membro di una determinata confessione ma tutte le condotte
connesse all’osservanza di pratiche fideistiche8. Nel 1991 è stata ag-
giunta una ulteriore clausola di salvaguardia della libertà religiosa, vol- ta ad estendere la responsabilità del datore di lavoro a tutte le ipotesi in cui il prestatore d’opera dimostri che il fattore religioso (sia pure in concorso con altri fattori) abbia costituito un “fattore motivante” di una “unlawful employment practice” da parte del datore di lavoro9.
3. I parametri adottati dalla giurisprudenza statunitense
In base ai parametri consolidatisi in sede giurisprudenziale, grava, tuttavia, sul dipendente l’onere di dimostrare la sussistenza di una
Prima Facie Failure to Accommodate Claim10. Il datore di lavoro a sua
volta ha l’onere di dimostrare di aver offerto un “ragionevole accomo- damento” o l’impossibilità di soddisfare tale istanza, a causa di una un-
due hardship che impedisce l’accomodamento dell’esigenza religiosa
del dipendente. Se un datore di lavoro riesce a provare una delle due
8 La clausola quindi protegge le caratteristiche “immutabili” (sesso, razza) ma an-
che quelle sotto il controllo dell’individuo (come l’appartenenza religiosa).
9 In base alla sezione 2000e-2(m), il datore di lavoro pone in essere una unlawful
employment practice qualora “the complaining party demonstrates that race, color,
religion, sex, or national origin was a motivating factor for any employment practice, even though other factors also motivated the practice”. È stato osservato, per altro, che le due clausole sembrano apparentemente in contraddizione fra di loro, in quanto su- scettibili l’una di restringere la tutela del dipendente alle ipotesi in cui il datore di lavo- ro ponga in essere una condotta che configura una discriminazione per motivi religiosi, la seconda di estenderla a tutte le ipotesi in cui il fattore religioso costituisca elemento motivante della condotta del datore di lavoro. Cfr. D.F.FLAKE, Image is Everything,
cit., p. 2 ss.
10 Il lavoratore deve provare la sussistenza di una credenza religiosa che confligga
con le regole o politiche organizzative dell’impresa, di aver adempiuto all’obbligo di informazione del datore di lavoro dell’esigenza di un accomodamento religioso, e di aver subito una azione lesiva per non essersi adeguato alle regole organizzative dell’im- presa. Per azione lesiva si intende ogni rilevante cambiamento nello status lavorativo (assunzione, licenziamento, mancata promozione, riassegnazione con responsabilità si- gnificativamente differenti, decisioni che implicano cambiamenti considerevoli nel go- dimento di vantaggi derivanti dalla posizione lavorativa).
circostanze, graverà nuovamente sul dipendente dimostrare che le ra- gioni addotte dal datore di lavoro costituiscono solo un pretesto per ma- scherare un intento discriminatorio. L’estrema fluidità dei parametri della reasonable accommodation e dell’undue hardship ha reso difficile per le Corti calibrare un loro bilanciamento e delineare la soglia del de
minimis cost sopportabile dal datore di lavoro; il quantum della tutela di
cui può fruire il dipendente è stato connesso alla valutazione caso per caso delle circostanze di fatto, dando luogo a pronunzie giurispruden- ziali oscillanti fra una preferenza accordata alla “corporate image” o alla religious expression. Va sottolineato che la Corte Suprema ha ini- zialmente adottato una interpretazione restrittiva dei concetti di undue
hardship11 e di reasonable accommodation12. Nel bilanciamento fra
interessi del datore di lavoro e interessi del dipendente la Corte ha inse- rito, fra l’altro, un terzo interesse: quello degli altri dipendenti a non essere gravati del costo dell’accomodamento religioso13. Questo indi-
11 Essa ha previsto che ogni onere gravante sul datore di lavoro che costituisse
“more than a de minimis cost” (in termini di costi economici o non economici) si iden- tificasse con una undue hardship, rendendo l’accomodamento esigito “irragionevole”. Cfr. Trans World Airlines, Inc. v. Hardison, 432 U.S. 63 (1977). Una undue hardship si configura altresì, secondo la Corte, quando è impossibile trovare un compromesso o quando la concessione di eccezioni danneggerebbe l’immagine pubblica dell’impresa, o metterebbe a rischio la salute o la sicurezza del dipendente, degli altri dipendenti o della collettività. Secondo tale indirizzo, una undue hardship può concretizzarsi altresì quan- do l’offerta di una reasonable accommodation ad un prestatore d’opera avrebbe un impatto negativo sugli altri dipendenti, conferendo al primo un trattamento preferenzia- le: questa lettura della norma, coniugandosi con l’idea del de minimis cost, stabilisce una soglia molto bassa di scusabilità di trattamento disuguale.
12 Ad avviso della Corte, la reasonable accommodation costituisce una forma di ac-
comodamento che elimina il conflitto fra requisiti d’impiego e pratiche religiose. Al tempo stesso la Corte ha delineato in maniera rigorosa il concetto di reasonable ac-
commodation, reputando che quando sussistano una pluralità di forme di ragionevole
accomodamento, il datore di lavoro non abbia l’obbligo di accogliere quella preferita dal dipendente ma sia libero di offrire una forma accomodamento di sua scelta purché questa sia idonea a eliminare il conflitto del dipendente fra obblighi lavorativi e osser- vanza religiosa. Una volta che una forma di reasonable accommodation sia offerta al dipendente, l’obbligo gravante sul datore di lavoro è soddisfatto. Cfr. Ansonia Board of
Education v. Philbrook, 479 U.S. 60 (1986).
13 Cfr. Estate of Thornton, 472 U.S. 703 (1989), ove la Corte ribadisce la sua preoc-
rizzo ha costituito il substrato delle decisioni delle Corti inferiori nel determinare se l’impatto negativo sugli altri dipendenti costituisca una
undue hardship per il datore di lavoro14. Nell’analisi giurisprudenziale,
risulta inoltre cruciale il tipo di mansioni da svolgere, e quindi i lavora- tori maggiormente soggetti a restrizioni sono i frontline employees, de- putati a interagire con il pubblico e a contribuire a consolidare l’imma- gine esteriore dell’impresa15. In alcuni casi, però, la discriminazione è
ziale onere economico al datore di lavoro o richieda l’imposizione di oneri significativi sugli altri dipendenti. Cfr. R.B.BIRNBACH, Love They Neighbor: Should Religious Ac-
commodations that Negatively Affect Coworkers Shift Preferences Constitute an Undue Hardship on the Employer Under Title VII?, in Fordham Law Review, 2009, 78, p.
1331 ss.
14 Secondo le Corti inferiori, un datore di lavoro può dimostrare che un accomoda-
mento costituisce una undue hardship se va oltre il trattamento differenziato permesso, configurando un trattamento preferenziale inammissibile; la Corte Suprema non offre linee guida precise con riguardo all’impatto sugli altri dipendenti, ossia se possa confi- gurarsi un trattamento preferenziale qualora ci si muova al di fuori degli accordi collet- tivi: questo ha consentito alle Corti inferiori di ampliare il concetto di trattamento prefe- renziale, attribuendo rilievo anche ad un impatto minimo sugli altri dipendenti, solle- vando così il datore di lavoro dall’obbligo di accomodamento.
15 Cfr.D.F.F
LAKE, Image is Everything, cit., p. 23. In queste situazioni, le Corti fe-
derali hanno spesso consentito ai datori di lavoro di risolvere il conflitto adibendo il dipendente a mansioni che non implicano un contatto diretto con la clientela (quindi rimuovendolo da una posizione che lo esporrebbe al contatto con il pubblico) o addirit- tura non assumendo lavoratori che indossano un abbigliamento religiosamente caratte- rizzato che potrebbe produrre una reazione negativa o di disagio della clientela. Queste soluzioni risultano alquanto discutibili: nel primo caso il dipendente, il cui aspetto fisi- co è dettato dalle sue credenze religiose, viene limitato nella sua sfera di operatività ad operare in uno spazio distinto, isolato rispetto agli altri dipendenti, impedito nelle sue possibilità di interagire con colleghi, clienti e, in genere, con il pubblico, forzato a svol- gere compiti diversi da quelli che gli sono propri; nel secondo gli viene addirittura ini- bito l’accesso ad una posizione lavorativa, costringendolo a scegliere fra la possibilità di esprimere la sua identità confessionale e la possibilità dell’accesso suddetto. Qualora egli non mimetizzi la sua identità religiosa e non si conformi alle logiche maggioritarie, rimarrà escluso dall’ambiente di lavoro e dagli spazi sociali inerenti all’impiego. En- trambe le soluzioni perpetuano stereotipi e timori che sono alla base dell’isolamento sociale di individui appartenenti a gruppi confessionali meno rassicuranti e indicano il perseguimento di un ideale di omogeneità nell’ambiente lavorativo che rischia di mar- ginalizzare gli appartenenti a gruppi minoritari. Cfr. D.S.SIDHU, Out of Sight, Out of
consentita qualora sia in gioco una bona fide occupational qualifica-
tion, ossia qualora venga in gioco una caratteristica del dipendente
(connessa alla religione) di concreto ostacolo per lo svolgimento del- l’attività lavorativa16. Al di là di queste situazioni (riconosciute dalla
Corte solo in contesti circoscritti), sussiste uno spazio per un possibile contemperamento fra esigenze del datore di lavoro e del dipendente.
La Corte Suprema ha inoltre riconosciuto due tipi di responsabilità alla luce del Title VII: disparate treatment claims e disparate impact
claims17. A tal proposito, appare più facilmente individuabile la situa-
zione in cui il datore di lavoro opera una selezione sulla base dell’ap- partenenza confessionale (e la caratteristica protetta subisce una forma di discriminazione diretta); più ardua da individuare è la situazione in cui il trattamento differenziato derivi da regole apparentemente neutre (come l’imposizione di un codice di abbigliamento) che però hanno impatto differenziato su soggetti appartenenti ad alcuni gruppi religiosi, rivelandosi esclusive nei loro confronti18.
tion Based on Religion, in New York Univ. Review of Law and Social Change, forth- coming, p. 1 ss.
16 In tali situazioni-limite, il datore di lavoro dovrà dimostrare che tali caratteristi-
che vanno a costituire un impedimento assoluto allo svolgimento dell’attività lavorati- va, e che le attività essenziali dell’impresa verrebbero compromesse qualora non si ope- rasse la discriminazione: il lavoratore a causa della sua appartenenza confessionale verrebbe a mancare dei requisiti occupazionali necessari allo svolgimento delle man- sioni richieste.
17 La prima ricorre quando un datore di lavoro ha trattato un dipendente meno favo-
revolmente rispetto agli altri a causa della razza, della religione, del sesso o della nazio- nalità. In questo caso l’attore dovrà dimostrare che il datore di lavoro aveva un intento o motivo discriminatorio nei suoi confronti. Nella seconda ipotesi, le regole o pratiche di organizzazione del lavoro risultano apparentemente neutre ma hanno un’incidenza di- versa su alcuni gruppi e non possono essere adeguatamente giustificate facendo riferi- mento alle esigenze dell’impresa. In questo caso, l’attore non deve provare la sussisten- za di un intento direttamente discriminatorio da parte del datore di lavoro. Cfr. Int’l
Bhd. Of Teamsters v. United States, 431 U.S. 324 (1977).
18 Lo status quo risente della mancata approvazione del Workplace Religious Free-
dom Act, che avrebbe offerto al Congresso la possibilità di rinforzare la protezione of-
4. La decisione E.E.O.C. v. Abercrombie & Fitch Stores, Inc.
Secondo una recente pronunzia della Corte Suprema U.S.A., il fatto- re religioso può emergere come motivo di discriminazione non solo alla luce dell’effettiva richiesta di forme di accomodamento religioso, ma pure quando un simbolo di appartenenza identitaria divenga fattore mo- tivante di una adverse employment action verso il dipendente (o aspi- rante tale), anche a prescindere dalla concreta conoscenza che il datore di lavoro abbia della necessità di venire incontro alle sue esigenze reli- giose19. Con una decisione assunta con una maggioranza di otto a uno,
la Corte Suprema ha reputato che la dipendente debba solo dimostrare che la sua esigenza di accomodamento abbia costituito un fattore moti- vante della decisione a lei avversa del datore di lavoro. Nella opinion di maggioranza, il giudice Scalia ha sottolineato come, alla luce del Title
VII, le discriminazioni sul luogo di lavoro vengono in luce sotto un du-
19 Tale decisione concerne una impresa di abbigliamento (Abercrombie) che ha
adottato una rigorosa look policy, tale da coinvolgere anche i suoi dipendenti, in modo che la loro immagine sia coerente con le linee di abbigliamento dalla stessa trattati. Tale codice di abbigliamento proibisce l’uso dei copricapo, considerati “troppo informali”. Ad una giovane musulmana, Samantha Elauf, sia pure considerata “qualificata”, è stata pertanto negata l’assunzione in questa impresa a causa dell’uso del velo. L’assistant
manager ha informato la district manager di tale uso, presumendo che fosse per motivi
religiosi e quest’ultima ha interdetto l’assunzione, in quanto l’uso del velo avrebbe vio- lato la look policy dell’azienda. L’azione giudiziaria è stata intentata dall’Equal Em-
ployment Opportunity Commission. La Corte Distrettuale, con giudizio sommario, ha
riconosciuto che l’azienda avesse sufficienti elementi di consapevolezza della sussi- stenza di un conflitto fra la sua look policy e le pratiche religiose dell’aspirante dipen- dente. Diversamente, il Decimo Circuito ha rovesciato la decisione: l’azienda non po- trebbe considerarsi responsabile per aver negato la religious accommodation dal mo- mento che la giovane non aveva portato a conoscenza del datore di lavoro il potenziale conflitto fra la look policy e le sue esigenze di accomodamento religioso; solo tale esplicita notifica, accompagnata dalla reale consapevolezza del datore di lavoro, e dalla “inflessibilità” dell’esigenza religiosa, garantirebbe un corretto equilibrio fra le esigen- ze del datore di lavoro e quelle del dipendente. Un approccio volto ad enfatizzare il significato del sospetto di un potenziale conflitto imporrebbe al datore di lavoro oneri eccessivi, oltre a produrre indagini intrusive sull’appartenenza confessionale del dipen- dente. Per un primo commento alla decisione, cfr. J.M.HIRSH, EEOC v. Abercrombie &
Fitch Stores, Inc.: Mistake, Same Sex Marriage and Unintended Consequences, in Tex- as Law Review, 2015, 94 , p. 1 ss.
plice profilo: il disparate treatment (discriminazione diretta) e il dis-
parate impact (discriminazione indiretta). Come si è anticipato, la pri-
ma previsione interdice le discriminazioni nelle assunzioni direttamente causate dall’appartenenza confessionale, introducendo un parametro di causalità (“because of such individual’s religion”). In base al Title VII del Civil Rights Act del 1964, ai datori di lavoro è vietato rifiutare di assumere qualcuno “a causa della” sua appartenenza confessionale e dell’osservanza di pratiche religiose ad essa connesse. La sezione 2000e-2 però affievolisce questo rigido parametro di causalità, con la