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Maria Luisa Lo Giacco

SOMMARIO: 1. Carcere e libertà religiosa. 2. Il pluralismo religioso in car-

cere. 3. Dalla discriminazione alla convivenza religiosa.

1. Carcere e libertà religiosa

In un suo recente scritto, Mario Ricca individua nella prigione “uno dei topoi della critica spaziale”1. Infatti, come sottolinea questo Autore,

è sufficiente spostare persone e corpi all’interno di quel luogo perché improvvisamente le forme di concettualizzazione di essi mutino e con esse anche le connesse prerogative normative. Dignità, libertà, autode- terminazione, esigenze igienico-sanitarie, alimentari – giusto per fer- marsi ad alcuni aspetti – dentro la prigione mutano statuto2.

Questa osservazione è confermata dalla realtà e dalle condizioni nel- le quali versano gli istituti penitenziari, non solo in Italia, ma in quasi tutta l’Europa. Il Report annuale del Consiglio d’Europa dedicato al- l’analisi della situazione delle carceri europee, rileva per il 2013 un 43% di istituti sovraffollati3. Il sovraffollamento è un problema, e una

scusa; un problema perché in se stesso costituisce una violazione del diritto dei detenuti a che la detenzione avvenga in condizioni rispettose della dignità umana, una scusa perché dietro alla situazione emergen-

1 A.C

ANCELLIERI, M. RICCA, Ubiquità planetaria nei condomini. Microspazi di

convivenza, corologia interculturale e diritti umani, in CALUMET – intercultural law and humanities review (www.calumet-review.it), p. 17 (consultato il 13 ottobre 2015).

2 Ibidem. 3 M.F.A

EBI,N.DELGRANDE, SPACE I - Council of Europe Annual Penal Statistics:

Prison Populations. Survey 2013, Strasbourg, 2015 (http://wp.unil.ch/space/files/2015/

ziale di sovraffollamento si giustificano altre lesioni dei diritti fonda- mentali dei detenuti.

La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha condannato più volte l’Italia per il grave sovraffollamento delle sue carceri. Il caso, “Torre- giani e altri contro Italia” dell’8 gennaio 2013, ricalca un precedente, “Sulejmanovic contro Italia” del 6 novembre 2009 e sono stati entrambi introdotti per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea che vie- ta i trattamenti inumani e degradanti. Ancora, in “Scoppola contro Ita- lia” del 17 luglio 2012, la Corte ha considerato inumana la detenzione di un uomo gravemente malato e ciononostante recluso in un carcere italiano.

Scorrendo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo si nota come casi di violazione dei diritti dei detenuti si verifichino in praticamente tutti gli Stati firmatari della Convenzione. Una ricca giurisprudenza, della quale il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’11 gen- naio 2006 ha fatto tesoro nell’adottare una “Raccomandazione sulle regole nelle prigioni europee”. La Raccomandazione, dopo aver affer- mato all’art I.1 quello che dovrebbe essere un principio di civiltà, ma che evidentemente nel caso delle carceri deve essere ricordato, ovvero che “tutte le persone private della loro libertà devono essere trattate rispettando i loro diritti umani”, si preoccupa di negare ogni possibile giustificazione economica a un eventuale mancato rispetto dei diritti dei reclusi: “Le condizioni del carcere che ledono i diritti umani dei detenu- ti non possono essere giustificate da una carenza di risorse economi- che” (art. I.4).

Questa sottolineatura è interessante, soprattutto se comparata con la giurisprudenza statunitense che, in materia di tutela della libertà religio- sa delle persone in carcere, ha in alcuni casi ritenuto che l’aggravio di spesa derivante dalla soddisfazione delle esigenze religiose dei detenuti fosse un motivo valido a restringere l’esercizio della libertà religiosa, alla luce del compelling interest test, in questo caso identificato nell’in- teresse dell’istituzione penitenziaria a risparmiare e a non gravare su un budget già ridotto4.

4 Cfr. A.K. B

LOCK, When Money is Tight, is Strict Scrutiny Loose? Cost Sensitivity

La crisi economica, o più in generale la mancanza di risorse, ri- schiano infatti di essere un alibi dietro al quale giustificare la mancata tutela dei diritti dei detenuti. Anche l’effettivo godimento del diritto di libertà religiosa all’interno delle carceri potrebbe essere considerato un problema secondario, rispetto alle difficili condizioni di vita determina- te anche dalla mancanza di risorse. Ma non deve essere così. Il libero esercizio della libertà religiosa assume al contrario grande importanza proprio in condizioni di vita particolari come la mancanza di libertà o la malattia. Come sappiamo, quasi tutte le religioni prestano molta atten- zione alle persone che si trovano in queste situazioni e gli Stati gene- ralmente prevedono la c.d. “assistenza spirituale” nelle caserme, negli ospedali e nelle carceri.

Quando si ragiona sul tema della libertà religiosa delle persone de- tenute nelle strutture di reclusione e pena, si pensa infatti generalmente al classico tema dell’assistenza spirituale, a quella cioè che viene consi- derata come una “materia tradizionale del diritto ecclesiastico”5.

In effetti, i contributi degli studiosi sul tema, e non solo degli eccle- siasticisti (mi riferisco per esempio alla rivista online Costituzionali-

smo.it che ha dedicato il secondo fascicolo del 2015 ai diritti dei dete-

nuti)6, si soffermano soprattutto sui problemi legati all’assistenza spiri-

tuale, cattolica e delle altre confessioni religiose, con o senza intesa7.

Questione che, come sappiamo, è sicuramente centrale e pone problemi di attuazione dei principi di libertà religiosa, di laicità e di non discri- minazione, ma che in una società pluralista come quella attuale, non

alized Persons Act of 2000, in Texas Journal on Civil Liberties & Civil Rights, 2008-

2009, 14, pp. 239-245.

5 Così P. C

ONSORTI, Diritto e religione, II ed., Roma-Bari, 2014, p. 158.

6 www.costituzionalismo.it, 2015, fasc. 2, I diritti dei detenuti. 7 Cfr. C. C

ARDIA,Manuale di diritto ecclesiastico, II ed., Bologna, 1996, pp. 410-

411; L. MUSSELLI,V.TOZZI, Manuale di diritto ecclesiastico. La disciplina giuridica

del fenomeno religioso, Roma-Bari, 2000, pp. 285-292; S.ZAMBELLI,La religione nel

sistema penale e tra le mura del carcere, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica,

2001, 2, pp. 470-480; R.BOTTA,Manuale di diritto ecclesiastico. Valori religiosi e

chiude certamente la questione della tutela della libertà religiosa nelle strutture detentive8.

A questo proposito, e in via generale, il sistema italiano dell’assi- stenza spirituale, che prevede un servizio stabile all’interno delle carce- ri solo a favore dei reclusi appartenenti alla religione di maggioranza, comincia a mostrare tutti i suoi limiti. Il panorama religioso è profon- damente mutato, soprattutto negli Stati dell’Europa occidentale, e ormai i detenuti appartenenti ad altre religioni sono un numero considerevole, anche a causa di politiche di controllo dell’immigrazione che hanno introdotto il reato di immigrazione clandestina. Allo stesso tempo è in- negabile il ruolo che la religione può avere nel cammino riabilitativo dei condannati, sia come percorso di fede personale, sia attraverso l’in- tervento di associazioni di volontariato di matrice religiosa9.

Le Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners, adotta- te dalle Nazioni Unite nel 1955, prevedono al riguardo che: “41. (1) Se nell’istituto penitenziario è ospitato un numero sufficiente di detenuti appartenenti alla stessa fede religiosa, un rappresentante qualificato di detta religione dovrebbe essere nominato o approvato. Se il numero dei detenuti lo giustifica e la situazione lo consente, l’impegno dovrebbe essere a tempo pieno. (2) Un ministro di culto, nominato o approvato in base al paragrafo (1) deve essere autorizzato a svolgere regolarmente i riti religiosi e ad avere colloqui privati con i detenuti della sua religione in momenti stabiliti. (3) A nessun detenuto può essere impedito di in- contrare il ministro di culto di qualsiasi religione. Allo stesso tempo, se un detenuto non intende incontrare un ministro di culto, la sua volontà deve essere assolutamente rispettata. 42. Nei limiti del possibile, ogni detenuto deve essere messo in grado di soddisfare le necessità della sua

8 Si veda in particolare il contributo di E. O

LIVITO, “Se la montagna non viene a

Maometto”. La libertà religiosa in carcere alla prova del pluralismo e della laicità, in

www.costituzionalismo.it, 2015, fasc. 2.

9 Su questo aspetto è particolarmente interessante uno studio americano che indivi-

dua dieci motivi che giustificano la presenza di attività di assistenza, spirituale e reli- giosa, in carcere: J. THOMAS, B.H. ZAITZOW, Conning or Conversion? The Role of Re-

ligion in Prison Coping, in The Prison Journal, vol. 86, n. 2, June 2006, pp. 242-259.

Cfr., inoltre, D. BELLANTONI, L’atteggiamento religioso maturo come fattore di resi-

vita religiosa partecipando ai riti organizzati all’interno dell’istituto e avendo a disposizione i libri di dottrina religiosa e degli insegnamenti della sua confessione”.

Le regole ONU legano pertanto la presenza stabile di un ministro di culto all’interno delle carceri a un criterio numerico, storico e facilmen- te verificabile, “il numero sufficiente di detenuti appartenenti alla stessa fede” e non al criterio della religione di maggioranza nel paese, che potrebbe non essere specchio fedele della presenza religiosa in carcere. In altre parole, considerare acriticamente una religione che è maggio- ranza tra la popolazione generale anche come religione di maggioranza della popolazione detenuta rischia di condurre a conclusioni errate e, dal punto di vista giuridico, a porre in essere regole e atti discriminato- ri.

2. Il pluralismo religioso in carcere

Si è scritto che il carcere, come le altre c.d. comunità segreganti, o separate, sia un “terreno privilegiato per testare le politiche della laicità e del pluralismo in direzione inclusiva, quale espressione del mosaico multiculturale e multireligioso dell’odierna società civile”10.

Infatti, il pluralismo culturale e religioso che caratterizza le società europee – e occidentali in genere – ha complicato il quadro, in questa come in altre materie, poiché le richieste che provengono dai detenuti e che hanno una motivazione religiosa, non sono più soltanto limitate al- l’assistenza spirituale, e possono talvolta mettere in crisi l’organizzazio- ne carceraria, determinando, se non accolte, situazioni di discrimina- zione, magari indiretta, su base religiosa, per esempio quando il rego- lamento interno dell’istituto di pena prevede un certo tipo di abbiglia- mento o determinate regole di igiene personale.

Da questo punto di vista sono particolarmente interessanti gli spunti di riflessione che provengono dalla giurisprudenza d’oltreoceano, che è

10 A.M

ADERA, Le pratiche religiose nelle comunità segreganti, in S.DOMIANELLO

(a cura di), Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della

libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, Bologna, 2012, p.

specchio del grande pluralismo religioso che caratterizza la società sta- tunitense e che proprio per questo ci presenta problemi e questioni che negli anni a venire potrebbero occupare anche l’attenzione della nostra giurisprudenza.

Recentemente, la Corte Suprema americana si è occupata del caso di un detenuto musulmano al quale le autorità del carcere avevano negato l’autorizzazione a tenere la barba lunga. Il ricorrente affermava che il fatto di voler tenere la barba lunga fosse un modo di esercitare la sua libertà religiosa, poiché l’islam raccomanda ai credenti di non radersi, e rilevava una discriminazione con altri detenuti che, per ragioni derma- tologiche, erano autorizzati a non radersi. Si tratta del caso “Holt v. Hobbs”, deciso il 20 gennaio 201511. Il diniego a tenere la barba lunga

(la richiesta era relativa a una barba di meno di un cm e mezzo) veniva giustificato dalle autorità del carcere con le esigenze di sicurezza: sotto la barba il detenuto avrebbe potuto nascondere qualcosa, e in caso di fuga, tagliandosela, avrebbe potuto modificare il suo aspetto, rendendo- si così meno riconoscibile. La Corte ha ritenuto entrambi questi motivi non sufficienti per restringere il diritto di libertà religiosa del ricorrente: sarebbe stato difficile per il detenuto nascondere qualcosa sotto una barba così corta, mentre le esigenze di riconoscibilità avrebbero potuto essere soddisfatte facilmente conservando due diverse foto segnaletiche del soggetto, con e senza barba.

In questo caso la Corte Suprema – giudice relatore era S. Alito, lo stesso del caso “Burwell v. Hobby Lobby”12 – ha incentrato tutta la sua

argomentazione sulla tutela della libertà religiosa individuale, applican- do il Religious Land Use and Institutionalized Persons Act (RLUIPA) del 200013, che prevede l’utilizzazione del compelling governmental interest test come strumento di valutazione di leggi o atti che comporti-

11 574 U.S. (2015).

12 573 U.S. (2014). Per un commento cfr. M. G

RECO, Il caso «Hobby Lobby»: la di-

fesa della libertà religiosa di una particolare tipologia di datore di lavoro nel più re- cente arresto della Corte Suprema americana, in Quaderni di diritto e politica eccle- siastica, 2014, 3, pp. 895-908.

13 Un commento a questa legge in M.A. H

AMILTON, Federalism and the Public

Good: The True Story Behind the Religious Land Use and Institutionalized Persons Act, in Indiana Law Journal, 2003, 78, pp. 311-361.

no, anche indirettamente, una limitazione della libertà religiosa indivi- duale. In realtà, lo stesso risultato avrebbe potuto ottenere applicando un principio già affermato negli Anni ’80 in “Widmar v. Vincent”14,

ovvero il principio secondo il quale costituisce violazione della libertà religiosa e del dovere di imparzialità rifiutare a qualcuno per motivi religiosi ciò che ad altri viene concesso per altri motivi15. La Corte

avrebbe cioè potuto applicare il principio di non discriminazione, estendendo ai motivi religiosi la possibilità già prevista dal regolamento del carcere di portare la barba lunga per motivi dermatologici16.

La sentenza “Holt v. Hobbs”, come si diceva, è solo l’ultima di una lunga serie di pronunce della giurisprudenza statunitense. A livello di Corti Distrettuali, i giudici nordamericani si sono trovati di fronte a un’ampia casistica di ricorsi concernenti il libero esercizio della libertà religiosa in carcere, con richieste alquanto particolari; abbiamo così il caso del detenuto Nativo Americano che chiedeva di poter allestire nel- la sua cella una sauna tradizionale per poter effettuare le abluzioni ri- tuali previste dalla sua fede17; quello che invece chiedeva di poter com-

piere in carcere riti pagani perché appartenente alla religione “diani- ca”18; oppure il detenuto credente nel rastafarianesimo che chiedeva di

poter portare i capelli lunghi e raccolti in treccine così come previsto dalla sua fede, e di tenere in cella un grosso pettine utile a disciplinare la chioma19; ancora, un detenuto che lamentava di non aver potuto tene-

re in cella i libri sacri del culto di Odino del quale era seguace20. In tutti

14 454 U.S. 263 (1981). 15 Cfr. F. O

NIDA, La rilevanza dell’identità religiosa negli Stati Uniti, in ID., Il giro

del mondo in duecentocinquanta pagine. Itinerari di diritto ecclesiastico comparato,

Bologna, 2010, p. 249.

16 Insiste su questo aspetto anche V. F

IORILLO, La sentenza della Corte Suprema

USA Holt v. Hobbs: l’esenzione cresce con la barba del condannato, in www.diritticom

parati.it, 16 febbraio 2015.

17 “Pounders v. Kempker”, 79 F. App’x 941 (8th Cir. 2003). 18 “Coronel v. Paul”, 316 F. Supp. 2d 868 (D. Ariz. 2004). 19 “Williams v. Snyder”, 150 F. App’x 549 (7th Cir. 2005). 20 “Borzch v. Frank”, 340 F. Supp. 2d. 955 (W.D. Wis. 2004).

questi casi la giurisprudenza ha applicato in maniera ampia il RLUIPA e ritenuto legittime le richieste avanzate21.

3. Dalla discriminazione alla convivenza religiosa

Anche se in Italia siamo probabilmente lontani dal verificarsi di casi simili, di sicuro non mancheranno richieste quali quella di poter osser- vare il digiuno islamico nel mese di Ramadan, durante il quale i pasti possono essere consumati soltanto in orari diversi rispetto a quelli della routine carceraria, oppure di poter indossare un determinato abbiglia- mento, di esporre simboli religiosi o di possedere oggetti necessari al culto come ad esempio il tappeto per la preghiera, di poter esercitare forme particolari di culto, come l’accensione dei bastoncini di incenso per i buddisti.

L’art. 58, II co. del d.P.R. n. 230 del 2000 autorizza i detenuti a esporre immagini e simboli della propria fede religiosa nelle stanze o nello spazio di appartenenza in caso di celle non individuali. Per quanto riguarda l’abbigliamento non esiste invece una previsione specifica, i detenuti devono adeguarsi alle regole generali in materia di abbiglia- mento previste dai singoli istituti penitenziari, che in genere autorizza- no l’utilizzazione di vestiario proprio, purché dignitoso e non in contra- sto con le regole di sicurezza del carcere; non sono certamente ammessi capi di abbigliamento che possano impedire il riconoscimento del re- cluso, per esempio il velo integrale nel caso di detenute di religione islamica22.

21 I casi sono citati da M.F. J

OHNSON, Heaven Help Us: The Religious Land Use

and Institutionalized Persons Act’s Prisoners Provisions in the Aftermath of the Su- preme Court’s Decision in Cutter v. Wilkinson, in Journal of Gender, Social Policy & the Law, 2006, 14, pp. 585-612. In generale, cfr. B.I. BITTKER,S.C.IDLEMAN,F.S.RAV- ITCH, Religion and the State in American Law, New York, 2015, pp. 809-850.

22 Cfr. E. O

LIVITO, op. cit. Si veda inoltre R. SANTORO,Isimboli religiosi nell’ordi-

namento penitenziario italiano, in R.COPPOLA,C. VENTRELLA (a cura di), Laicità e

dimensione pubblica del fattore religioso. Stato attuale e prospettive, Atti del I Conve-

Non sempre le amministrazioni che governano le carceri riescono (o vogliono) dare una risposta positiva alle richieste che derivano da esi- genze religiose, che tra l’altro spesso provengono da detenuti stranieri e quindi rischiano di essere percepite come richieste “strane”, “immotiva- te”, “folkloristiche”. Il Report del Consiglio d’Europa, che fotografa la situazione delle carceri al 1° settembre 2013 ci dice che a quella data il 14,1% della popolazione detenuta in Europa era costituita da stranieri, con notevoli differenze fra paesi dell’Europa orientale (dove la percen- tuale di stranieri è minore) e occidentale (dove invece è maggiore). In- fatti, se ad est solo circa il 2% dei detenuti è straniero, all’ovest questa percentuale sale a più del 30%, anche se di questi il 37% circa è in ogni caso cittadino di un paese europeo.

In Italia su 64.835 detenuti (sempre al 1° settembre 2013), 22.862 erano stranieri, una percentuale del 35,3%; di questi 4.909 erano citta- dini europei (il 21,5%).

Anche se l’art. 1 della legge n. 354/75 afferma un criterio di impar- zialità nel trattamento penitenziario, “senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politi- che e a credenze religiose”, spesso la condizione di straniero è di per se stessa motivo di discriminazione all’interno del carcere, per esempio per quanto riguarda l’applicazione delle misure alternative alla pena detentiva, e influisce anche sull’esercizio del diritto di libertà religiosa: “le norme penitenziarie del 1975 e del 1986 sono italianocentriche”23;

infatti, “nel corpo della legge italiana le differenze nazionali, etniche, religiose non sono adeguatamente prese in considerazione”24. L’art. 26

dell’ordinamento penitenziario riafferma la necessaria presenza del cappellano cattolico all’interno delle strutture penitenziarie e ribadisce il diritto dei detenuti non cattolici, dietro richiesta, a ricevere l’assisten- za spirituale da parte di ministri di culto. Questo sistema inevitabilmen- te, all’interno della popolazione carceraria non cattolica, penalizza maggiormente i detenuti non italiani che potrebbero essere messi in difficoltà, nell’effettuare la richiesta di assistenza spirituale, anche dalla mancata, o scarsa conoscenza della lingua italiana.

23P. G

ONNELLA, Le identità e il carcere: donne, stranieri, minorenni, in www.costi

tuzionalismo.it, 2015, fasc. 2, p. 15.

La “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati” pub- blicata con decreto del ministero della giustizia del 5 dicembre 2012 riguardo ai detenuti stranieri stabilisce, tra l’altro, che essi hanno “il diritto di soddisfare le proprie abitudini alimentari e le loro esigenze di vita religiosa e spirituale”. Ma questi diritti, come gli altri, “resteranno insoddisfatti in caso di incomprensione linguistica”25.

Sulla libertà religiosa dei detenuti la Raccomandazione del Consi- glio d’Europa stabilisce che: “29.1 La libertà di pensiero, coscienza e religione dei detenuti devono essere rispettate. 29.2 Il regime carcerario per quanto è possibile deve essere organizzato in modo tale da permet- tere ai detenuti di praticare la loro religione e seguire il proprio credo, di partecipare alle funzioni religiose o a riunioni guidate dai rappresen- tanti approvati di tale religione o credenza, di ricevere da questi rappre- sentanti visite private e di avere a disposizione libri o pubblicazioni riguardanti la loro religione o credo. 29.3 I detenuti non devono essere obbligati a praticare una religione o un credo, a partecipare a cerimonie religiose o ad accettare incontri con i rappresentanti di una religione o credo”. Anche la dieta dei detenuti dovrebbe essere rispettosa di even- tuali regole alimentari religiose: “22.1 Ai detenuti deve essere sommi- nistrato un regime alimentare che tenga in debito conto la loro età, con- dizioni di salute e fisiche, religione, cultura e il tipo di attività svolta”26.

La Raccomandazione non ha valore giuridico vincolante per gli Stati, però la Giurisprudenza della Corte Europea la considera importante e la utilizza nelle sue decisioni.

Il diritto dei detenuti a seguire un’alimentazione in linea con le pre- scrizioni religiose è stato oggetto di due sentenze della Corte Europea dei diritti umani: “Jakóbski contro Polonia” del 7 dicembre 201027 e