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Do ut des: la collaborazione nel baratto tra il criminale e lo Stato

2. Il primo vaglio della Corte Costituzionale, la “sentenza pilota” n 306/1993:

2.1. Do ut des: la collaborazione nel baratto tra il criminale e lo Stato

L’art. 15 del d.l. 306/1992 prevede, quale condicio sine qua non per la concessione dei benefici ai condannati di cui alla prima fascia, la collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter o.p.

Quest’ultima disposizione, introdotta con d.l. 152/1991, inizialmente non si poneva come presupposto indispensabile per l’accesso ai benefici, bensì fungeva da presupposto per una deroga riguardante i limiti di pena da espiare, previsti dalla legge, per la concessione del beneficio per i delitti ivi indicati e, in presenza delle relative condizioni, l’applicazione dell’art. 16 nonies del d.l. 8/1991, convertito con l. 82/1991 e, per ultimo, modificato dalla l. 45/2001.

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Margaritelli M., I limiti applicativi della liberazione anticipata all’esame della Corte

Costituzionale, in Giurisprudenza Costituzionale, 1993, III, p. 2515. 219 Acconci A., op. cit., p. 863.

Dati gli avvenimenti storici succedutisi tra il ’91 ed il ’92, il legislatore ha pensato di costruire un sistema più rigoroso, ma che nello stesso fosse di incentivo nei confronti del criminale: uno “scambio” tra il criminale e gli organi giurisdizionali che avesse, come prezzo, la collaborazione.

Questa diviene, dunque, l’unica chiave di accesso ai benefici penitenziari per i condannati per delitti di cui alla prima fascia, che altrimenti sarebbero destinati a divenire “ergastolani ostativi”.

La ratio della norma è destinata a mutare: introdotta per neutralizzare i detenuti più pericolosi, individuati per fasce di reato, diviene successivamente incentivo alla collaborazione e strumento di natura processuale, utile per acquisire elementi per le indagini.

Nell’originario art. 15, il legislatore aveva previsto la sola ipotesi della collaborazione rilevante, utile e piena, che presentasse i caratteri del succitato art. 58 ter, lasciando delle perplessità nei casi in cui il condannato, per circostanze non dipendenti dalla sua volontà, non avrebbe mai potuto prestare una collaborazione nei predetti termini.

Per queste ragioni, in sede di conversione del decreto, il legislatore introdusse la possibilità di concedere i benefici penitenziari a coloro che, pur avendo prestato una collaborazione oggettivamente irrilevante, avessero goduto del riconoscimento delle attenuanti ex artt. 62 n. 6), 114 e 116 comma II c.p. e che avessero dimostrato l’insussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.

Questo “mostro” normativo (come stato definito in varie occasioni) ha provocato non pochi problemi per varie motivazioni: innanzitutto il passaggio breve ma scoordinato segnato dall’introduzione dei “reati ostativi” con oneri probatori invertiti, una collaborazione per la realizzazione della risocializzazione del condannato, ed il ritorno al sistema delle presunzioni iuris et de iure di pericolosità sociale, che la legge Gozzini era riuscita a scardinare dal nostro ordinamento220, offrendo agli interpreti ed ai cultori del diritto un sistema del tutto privo di coerenza: una controriforma carceraria vera e propria.

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Nello specifico, l’art. 31 della l. 663/1986, al comma II, prevedeva che : “Tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è

L’art. 4 bis si è preoccupato di subordinare l’accesso ai benefici penitenziari ad un requisito di natura e carattere diverso rispetto a quello concernente la partecipazione al trattamento, di cui i benefici penitenziari sono elemento indispensabile, consentendo il superamento delle presunzioni di pericolosità sociale solo in vista della condotta collaborativa, piena o attenuata, negandogli dunque l’attuazione di quei principi che il Giudice delle leggi aveva proclamato nella sentenza 204/1974, ossia il diritto del condannato al riesame della pena sulla base di presupposti di natura soggettiva.

Ne deriva un sistema di “privilegio” normativo nei confronti dei collaboratori, prescindendo dall’accertamento della progressione del trattamento rieducativo, subordinando la rieducazione alla collaborazione che potrebbe essere senz’altro una condotta opportunistica, senza che il condannato abbia effettivamente raggiunto quel grado di rieducazione ancorato all’art. 27 comma III221.

Quindi, se i presupposti richiesti da ciascun beneficio penitenziario (finalizzato alla totale rieducazione del condannato) si concretizzano, oltre ai quantum di pena da espiare, anche nella partecipazione alla rieducazione, nel suo ravvedimento e in una prognosi di non recidiva, come può la collaborazione essere l’unico presupposto necessario e sufficiente per determinate categorie di condannati? Proprio perché si tratta di soggetti con una pericolosità così elevata, sarebbe forse più opportuno un programma trattamentale che risulti ancora più incisivo, che scavi più a fondo nella personalità del condannato, in modo tale da rieducarlo e iniziarlo ad un graduale reinserimento nella società, tale da esaltare maggiormente la funzione rieducativa della pena, e non a sminuirne la portata.

L’art. 15 introduceva poi un meccanismo di revoca del beneficio concesso prima dell’entrata in vigore della normativa, nei confronti di chi non avesse assunto una condotta collaborativa.

I giudici a quibus lamentavano la lesione dell’art. 27 comma III Cost. sia per l’irrilevanza del percorso rieducativo intrapreso dai condannati che avevano beneficiato della concessione del beneficio, per poi subirne la revoca, sia

persona socialmente pericolosa.”, rendendo necessaria dunque la valutazione del reo con il conseguente accertamento della pericolosità.

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Fiorio C., Sempre nuove questioni di diritto penitenziario: la collaborazione come presupposto

nell’ottica di tutte quelle situazioni che avrebbero comportato l’impossibilità di una collaborazione rilevante, piena ed utile, realizzando “un’ingiustificabile assimilazione nel trattamento penitenziario tra chi non può prestare alcuna collaborazione e chi assume, invece, un atteggiamento di non collaborazione o di perdurante solidarietà con i correi222.”

La Corte, in linea con le pronunce precedenti, evidenzia come tale meccanismo faccia svanire nel nulla il percorso rieducativo affrontato dal condannato, arrecando particolare pregiudizio nei confronti dei condannati la cui collaborazione sia incolpevolmente impossibile o priva di utilità, o comunque nei confronti dei condannati per i quali “la rottura con le organizzazioni criminali sia stata dimostrata223.”

Nel momento in cui, in sede di conversione, il legislatore introdusse la fattispecie di collaborazione attenuata, nacquero inevitabili dubbi interpretativi: se la revoca presupponeva la mancanza di collaborazione utile, bisognava conciliare tale previsione a quella secondo la quale il soggetto non avrebbe mai potuto prestare la collaborazione piena, bensì una collaborazione impossibile.

La Corte Costituzionale, rilevando un evidente “chiaro difetto di coordinamento”, affermò come fosse “evidente che se le condizioni considerate nella norma legittimano l’ammissione ai benefici in discorso, a maggior ragione esse debbono valere a precludere la revoca di quelli già concessi224”, disponendo la restituzione degli atti ai giudici a quibus che avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale nei confronti dell’originario art. 15 del d.l. 306/1992, in vista delle modifiche sopravvenute.

Secondo quanto lamentato dai giudici a quibus, successivamente all’introduzione della forma di collaborazione oggettivamente irrilevante in sede di conversione, permaneva comunque una inconciliabilità con il principio rieducativo, perché l’accesso al beneficio rimaneva comunque subordinato alla prova, in maniera certa, della mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, quindi la prova di un fatto negativo.

222 Fiorio, op.cit., p. 2507. 223 Fiorio, ibidem, p.2508. 224

In tali termini si espresse la stessa Corte nella sentenza in esame, n. 306/1993, in http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do, p. 15.

Per converso, qualora il c.p.o.s. non avesse fornito le dettagliate informazioni in grado di dimostrare l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, si sarebbe verificata l’imposizione di una probatio diabolica perché il condannato, essendo in carcere da tempo, non sarebbe stato in grado di fornire alcun elemento di prova che andasse a suo favore225.

I giudici remittenti sottopongono all’attenzione del Giudice delle Legge elementi di irrazionalità che permangono nella nuova figura di collaborazione: innanzitutto, sarebbe quasi inverosimile l’applicazione dell’attenuante ex art. 116 comma II c.p. ai reati previsti dall’art. 416 bis e 630 c.p. e 74 t.u. n. 309/1990, fattispecie a dolo specifico, che porterebbe alla conseguenza di favorire casi più gravi , rispetto a quelli di minore gravità, in cui l’attenuante in questione non sarebbe applicabile; per quanto concerne, poi, l’attenuante ex art. 62 6) c.p., essa crea un contrasto con la ratio del sistema, perché il risarcimento è legato anche alle condizioni economiche del condannato (questione affrontata nel capitolo I della prima parte) e dunque non idoneo a ritenere, per questo, il soggetto meno pericoloso; il riferimento poi all’art. 114 c.p. è quasi aleatorio, in quanto, considerando che l’attenuante ivi prevista risulterà inapplicabile nel caso di concorso di persone nei reato ex art. 112, rimanendo privo di riscontri nella fattispecie.

Motivando la decisione di rigetto, la Consulta parte dal presupposto che la pena debba avere una funzione rieducativa, e quindi special preventiva, ed una funzione di difesa sociale, e dunque general preventiva.

È infatti il concetto di “polifunzionalità” della pena a consentire al legislatore la possibilità di prevedere degli strumenti che, a seconda delle varie esigenze, realizzino prevalentemente l’una o l’altra, purché “nessuna della due ne risulti

obliterata”226

.

La Corte salva in extremis la legittimità della norma, in quanto il principio rieducativo sarebbe fatto salvo dall’introduzione della collaborazione oggettivamente irrilevante, purché coadiuvata dalla concessione delle attenuanti precedentemente esaminate e dall’accertamento dell’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, alla stessa stregua della collaborazione utile e piena

225

Acconci, op.cit., p. 864.

226

Così la Corte Costituzionale nella sent. 306/1993, in http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do, p. 19.

dell’art. 58 ter, facendo venir meno, secondo la stessa Corte, la presunzione di pericolosità nei confronti di chi non collabora, e che dunque non risulti meritevole dei benefici penitenziari.

Parte della dottrina critica le motivazioni assunte dalla Corte a sostegno di tali previsioni: in particolare, si evidenzia come l’art. 4 bis crei un divieto assoluto di accesso ai benefici penitenziari, per coloro che non abbiano collaborato, pur avendo raggiunto un grado di rieducazione idoneo alla concessione degli stessi227. Ne consegue una negazione del “diritto alla rieducazione” sulla base dell’assenza di “un’opzione pratica che nasce dalla valutazione della convenienza processuale, condizionata anche dall’andamento delle indagini e del processo228”cioè la collaborazione, a scapito, invece, della valutazione del “percorso di rivisitazione dei propri valori, delle proprie condizioni di vita e alla creazione, nella fase riabilitativa, di valori e condizioni che favoriscano il reinserimento sociale229.”, rendendo il legame tra collaborazione e rieducazione “mistificatorio”, ed impedendo l’accesso a quelle misure che costituiscono l’ossatura del programma trattamentale.

La collaborazione diviene dunque il mezzo privilegiato per l’accesso a vantaggi “non altrimenti conseguibili”.

Come rileverà la Corte nelle sentenze successive, inevitabile è il mancato coordinamento tra l’art. 4 bis e l’art. 58 ter o.p.: inizialmente, l’art. 58 ter era destinato ad operare come “clausola di salvezza” nei confronti di quei soggetti che, condannati per i delitti di cui all’art. 4 bis, avessero deciso di collaborare, consentendo una deroga sui quantum di pena da espiare prima di accedere ai benefici.

Successivamente, si trova ad operare in un diverso contesto, realizzando quasi una reciproca elusione con la disciplina dell’art. 4 bis, nel momento in cui la

227

Cfr Acconci A., op. cit., p.865.

228

Così il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, con Ordinanze 552 e 556 del 1993 solleva le questioni di incostituzionalità dell’art. 4 bis in relazione al presupposto della collaborazione.

Sentenza Corte Costituzionale n. 306/1993, in

http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do, p. 3.

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collaborazione diviene lo strumento per la realizzazione di due diversi fini: per i delitti ostativi di cui all’art. 4 bis, la collaborazione diviene l’unica chiave di accesso ai benefici penitenziari; ex art. 58 ter, la collaborazione ha come scopo quello di ridurre i quantum di pena da espiare per accedere ai benefici.

L’autonomia riconosciuta all’art. 58 ter, si ritiene, si realizzi nel consentire un accesso immediato ai benefici penitenziari, realizzando però, di conseguenza, la violazione dell’art. 13 ter del d.l. 306/1992, il quale riserva ai soli collaboratori, ammessi allo speciale programma di protezione, l’accesso alle misure alternative anche in deroga dei presupposti legali230.