2. Il primo vaglio della Corte Costituzionale, la “sentenza pilota” n 306/1993:
2.2. Retroattività: un ostacolo alla rieducazione?
Altra questione sollevata dai giudici a quibus riguardava la procedura di revoca automatica dei benefici penitenziari già concessi, prima dell’entrata in vigore del d.l. 306/1992, ai condannati per i delitti di cui all’art. 4 bis, qualora non avessero posto in essere una condotta collaborativa, a sensi dell’art. 15 comma 2 del suddetto decreto, pur avendo raggiunto un certo grado di rieducazione.
La norma in esame, inoltre, affidava all’autorità di polizia l’accertamento e la comunicazione della sussistenza della condizione di cui all’art. 58 ter, eliminando ogni potere discrezionale e valutativo del giudice.
Successivamente, in sede di conversione, è stato inserito l’inciso “in tal caso, accertata l’insussistenza di tale condizione, il tribunale di sorveglianza dispone la revoca”.
I giudici a quibus lamentavano la violazione dell’art. 25 comma II Cost., ossia il principio di irretroattività della legge penale, secondo il quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione del fatto”.
I giudici remittenti, sollevando la violazione del principio di irretroattività, mostravano la loro adesione a quel filone interpretativo che riteneva tale principio
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Coppetta, il permesso premio come strumento di rieducazione: ancora una declaratoria di
applicabile non solo alla pena in senso sostanziale, ma anche alla pena nel momento esecutivo, avendo delle ripercussioni anche sul quomodo
dell’esecuzione della stessa.
La ratio del principio di irretroattività si sostanzia nella necessità che il soggetto sia consapevole al momento della commissione del fatto, di quella che è la legge da applicare e, dunque, il quantum di pena a cui verrà condannato.
I benefici penitenziari, anche se si contrappongono alla pena vera e propria, sono pur sempre delle misure che in qualche modo limitano la libertà personale del condannato, e dunque anche in questo ambito va riconosciuta l’operatività del principio sopra citato.
Il Giudice delle leggi ha dichiarato non fondata la questione relativa alla violazione dell’art 25 comma II, ritenendo che l’estensione del divieto di irretroattività della legge penale debba essere valutato a seconda del momento in cui debba operare il divieto di introdurre innovazioni restrittive con valenza retroattiva anche in materia di trattamento penitenziario: a parere della Consulta, la compressione di un diritto costituzionalmente garantito deve essere valutata alla luce dei principi di ragionevolezza231 e colpevolezza232.
In genere, la concessione di un beneficio penitenziario deve sottostare ad un duplice ordine di presupposti: uno di carattere oggettivo, in riferimento ai quantum di pena, ed uno di carattere soggettivo, che attiene alla valutazione dello stadio di rieducazione del reo in seguito alla progressione trattamentale. Da ciò ne consegue che la revoca deve essere disposta se il condannato ponga in essere dei comportamenti, in sede di esecuzione del beneficio penitenziario, che ostino alla progressione trattamentale: dunque, la revoca può essere posta in essere solo per comportamenti riconducibili al condannato, sulla base del principio di colpevolezza sancito all’art. 27 comma I Cost.
Inoltre, in fase di esecuzione di pena o di beneficio penitenziario, va applicato anche il principio di uguaglianza di fronte alla pena, cioè una proporzionalità della
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In proposito, la Corte rileva come “la vanificazione con legge successiva di un diritto positivamente riconosciuto da una legge precedente non possa sottrarsi al necessario scrutinio di ragionevolezza.” Corte Cost., sentenza 822/1988, in Fiorio C., op. cit., p. 2509, nota n. (17).
pena alle esigenze del condannato, e che, come tale, sia individuale e proporzionale ( come riconosciuto anche dall’art. 1 Ord. Penit.).
Il giudice di legittimità costituzionale ha dunque dichiarato l’illegittimità della norma laddove prevede, come causa di revoca, la sola assenza di collaborazione, senza che vi sia l’accertamento circa la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata: solo il sinallagma “collaborazione – collegamenti attuali” è in grado di dimostrare una elevata pericolosità del condannato233.
Volendo tirare le somme sulle argomentazioni a sostegno delle decisioni della Corte, è doveroso osservare come sia quasi evidente una contraddizione in termini: quest’ultima ribadisce il rispetto dei principi di uguaglianza e colpevolezza in materia penitenziaria, e sostiene, inoltre, come la collaborazione con la giustizia non sia altro che uno strumento di politica criminale, e non indice di colpevolezza e criterio di individualizzazione del trattamento234; ne consegue, dunque, la necessità che alla mancata collaborazione si affianchi la prova della sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata per ritenere il condannato socialmente pericoloso.
Se questo è pacifico in sede di revoca del beneficio, perché al momento della concessione del beneficio, si deve tener conto della sola sussistenza dell’elemento collaborativo?
Non si può non concludere come la decisione della Corte sia stata una “soluzione di comodo”, volta a salvare il frutto della legislazione di emergenza, riconoscendogli in extremis la garanzia di determinati principi: ne viene fuori un sistema nuovo, basato su principi malleabili per ragioni di convenienza, con un principio rieducativo avvilito, svalutato235.
Ne deriva un sistema basato su una pena concepita come minaccia o intimidazione, un accesso ai benefici penitenziari basato su un “ricatto” nei
233
Acconci A., op cit., p. 836.
234
In merito, la Corte Cost.: “È ben vero che la collaborazione consente di presumere che chi la presta si sia dissociato dalla criminalità e che ne sia perciò più agevole il reinserimento sociale. Ma dalla mancata collaborazione non può trarsi una valida presunzione di segno contrario, e cioè che essa sia indice univoco di mantenimento dei legami di solidarietà con l'organizzazione criminale.” In http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do, p. 21.
confronti del condannato, ed una magistratura di sorveglianza fortemente limitata nei suoi poteri. In merito a quest’ultimo punto, il d.l 306/1992, all’art. 15, prevedeva la disposizione della revoca da parte del magistrato di sorveglianza, qualora l’autorità di polizia avesse comunicato l’inesistenza della condotta collaborativo. Il decreto di conversione inserì l’inciso “ove lo ritenga” tentando di riequilibrare il sistema giurisdizionale e restituendo alla magistratura di sorveglianza quella discrezionalità necessaria per decidere o meno. Tale discrezionalità e, in un certo senso, autonomia, sono evidenziate dalla previsione che affida al c.p.o.s la competenza alla raccolta di elementi necessari per dimostrare o meno la sussistenza dei collegamenti con la criminalità, attribuendo al magistrato di sorveglianza l’obbligo di chiedere le informazioni a tale organo, incluso il questore, ma non il vincolo di attenersi alle stesse, potendosene comunque discostare.
Sempre in merito alla questione della irretroattività delle leggi in materia penitenziaria, va annoverata una pronuncia della Corte con cui dichiara l’infondatezza della questione sollevata dal giudice a quibus: si tratta della sentenza 273/2001.
Come esaminato nella sentenza 306/1993, la Corte non sembra dare una soluzione pacifica all’applicabilità o meno del principio di irretroattività anche in ambito penitenziario.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione, con conseguente “diniego” di applicabilità del principio retroattivo, in quanto la norma successiva non ha modificato gli elementi costitutivi del beneficio in questione (liberazione condizionale), né ha creato nuovi reati.
La Corte segue un iter logico preciso: il d.l. 152/1991 prevedeva, quale condizione per l’accesso ai benefici, la dimostrazione dell’assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e la rottura con gli stessi, non essendo possibile ipotizzare, in assenza di tale “rottura”, il venir meno della pericolosità sociale del condannato.
Il successivo d.l. 306/1992 introduce il parametro di valutazione della rottura di tali collegamenti, cioè la collaborazione ai sensi dell’art. 58 ter o.p236
: di
conseguenza, il rifiuto della collaborazione, viene valutato come indice della persistenza del rapporto con l’organizzazione criminale.
Ciò che lascia perplessi è il criterio, elaborato dalla Corte, che consente di capire se applicare o meno il divieto di irretroattività della legge anche sul piano esecutivo della pena, basandosi sulla avvenuta modifica o meno degli elementi costitutivi.
Invero, l’assunzione di una condotta collaborativa diviene “indice legale” dell’avvenuta recisione dei collegamenti; qualora, invece, la collaborazione risulti oggettivamente irrilevante, a questo punto è necessaria la prova negativa dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata.
Non si può non negar come la collaborazione assuma la veste di elemento costitutivo, arrivando a disciplinare un aspetto della fattispecie legale sostanziale237.
È la stessa giurisprudenza della Corte a fare della collaborazione la condotta qualificata idonea a far sorgere, in capo al condannato, il diritto al beneficio penitenziario.
Sulla base di queste argomentazioni, non si può allora non escludere l’applicabilità del principio di irretroattività anche nel caso delle leggi penitenziarie.
Secondo la Cassazione, invece, in questi termini si porrebbe solo un problema di applicazione diretta di ius superveniens, in quanto l’irretroattività è un principio che va applicato alle norme penali sostanziali o che introducono circostanze aggravanti.
Se si ritenesse pienamente applicabile il divieto di retroattività anche alle misure alternative, il disposto costituzionale impone all’interprete l’individuazione del momento temporale in riferimento a quello della commissione del fatto, con la conseguenza che il sopravvenire di una norma che modifica in peius l’accesso alle misure alternative pone problemi per la sua applicazione “retroattiva”.
La dimostrazione dell’applicabilità di tale principio alle misure alternative alla detenzione parte dal’assunto secondo il quale l’irretroattività si applica sia al precetto della norma penale, che alla parte che infligge la sanzione238.
Il momento successivo riguarda l’individuazione del concetto di “pena” e del concetto di “fatto”.
Per quanto riguarda il concetto di pena, i lavori della Costituzione non offrono degli elementi per poter definire tale concetto, per cui ben potrebbe ricomprendere, nel divieto di retroattività, anche le misure alternative.
Il “fatto”, invece”, diviene un concetto ambivalente, che ricomprende sia la condotta che l’evento.
Se si ammettesse l’applicabilità del principio di irretroattività anche all’ambito delle misure alternative, non si può non negare come queste, concretamente, influiscano non solo sulle modalità di esecuzione della pena in generale, ma anche sul quantum di pena detentiva.
Il cammino giurisprudenziale percorso dalla giurisprudenza costituzionale e della Suprema Corte ha sempre indotto a considerare le misure alternative come delle vere e proprie pene, non potendo dunque offrire delle “solide” motivazioni per l’esclusione del principio di irretroattività della legge penale anche in questo ambito.
Nell’ambito che ci interessa in questa sede, già con il d.l. 324/1990, si rivelò il contrasto con l’art. 25 comma II Cost. con riferimento all’inasprimento dei tetti di pena fissati, da espiare, prima della richiesta di accesso al beneficio. Diversamente, non incostituzionale doveva essere considerata l’immediata condizione di accesso ai benefici sulla base dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, in quanto risultava un parametro su cui basare la condotta del reo.
Il d.l. 152/1991 introduce l’art. 4 bis, prevedendo, per la concessione del beneficio a talune categorie di condannati, la mancanza dei collegamenti con la criminalità organizzata, presupposto retroattivo, e l’inasprimento del quantum di pena,
238 La Corte Costituzionale aderisce al principio secondo il quale le pronunce additive in malam partem sono inammissibili, sulla base dei principi di legalità dei reati e delle pene. In generale, tale
divieto verrebbe ad operare nei confronti delle pronunce che comportino un aggravamento sul piano sanzionatorio e sul piano del trattamento del condannato, comprese quelle che riguardano l’innalzamento de tetti massimi del lavoro sostitutivo delle pene pecuniarie, o quelle che ampliano una fattispecie penale punita più gravemente. Granata, ibidem.
dichiaratamente irretroattivo, in quanto rappresenta una condizione peggiorativa ch incide sul quantum di pena da espiare.
Nella novella introdotta con d.l. 306/1992, la lettura offerta sul precedente requisito dell’assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata non può essere avvalorata, sia perché nel decreto legge precedente rappresentava una condizione per poter derogare al quantum di pena da espiare necessario per l’accesso al beneficio, e sia perché diviene “un nuovo collegamento della fattispecie sostanziale, requisito non controvertibile ed immediatamente esigibile per l’ammissione alla fruizione delle misure alternative.239”