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Doc prat., 1373, pag 72, riga 16: imboteremo nella sopra detta ciella e tutti

Tavola 5. BnF, Franç 1203, c 149r

D) E DIZIONI CRITICHE

II. U SI DEL COPISTA DI N A

3) Doc prat., 1373, pag 72, riga 16: imboteremo nella sopra detta ciella e tutti

denari che noi ispenderemo p. questo anno. Annche togliamo a pigione di Biagio di Lapo Peruzzi ecc.

II.2.2.2. In fonosintassi

Tra due parole susseguenti, ma il più delle volte riunite in un’unica parola grafica nel ms., il segno abbreviativo viene apposto a indicare raddoppiamento fonosintattico. Ciò si verifica in particolare

1) sulla e di ne ‘né’ 120

Altre occorrenze che potrebbero essere ricondotte alla tipologia qui in discussione sono i(n)sperare (I IV I 27); e(n)ssmuovarvisi (I III I 32); e(n)state (II I XIV 1); e(n)stabilire (I II XX 21), in cui il compendio sulla prima vocale potrebbe indicare o la nasale oppure il raddoppiamento, frequente in Na, di s dopo i- / e- prostetica.

79 2) sulla e di se (congiunzione)

3) sulla a di ma 4) su o (congiunzione)

tutte quante seguite da nasale: n non ‘né non’, n neuno ‘né nessuno’, n nei ‘né nei (preposizione)’, mānon ‘ma non’, ōne ‘o ne [sia]’, ōno ‘o no’ ecc. In questo caso il titulus mantiene il suo valore di abbreviazione per nasale, e nell’edizione ho risolto la grafia in né (n)non, né (n)necessita, se (n)no, ma (n)non, o (n)ne, o (n)no ecc. Peraltro, l’indicazione del raddoppiamento fonosintattico tramite consonante geminata (pur irregolare - come ci si aspetta - in Na) si nota, dopo e e a, in almeno due casi: e nno(n)n (I II IV 4=6vb 15), a nno ‘a non’ (I II XXV 25=15va 32).

Da confrontare con l’uso appena descritto è la presenza del titulus sulla e di ne o, in un caso, sulla a di āp(re)nçi > a’ (p)p(re)nçi (I I XII 17=5ra 27), seguite da consonante non nasale: n l/n le/n lo (n lalbrito I II I 22=6ra 45; n lecose I II III 7=6va 39, I II XIII 1= 9vb 16; n |lointendim(en)to I II II 8=6rb 31-32; n lop(e)(r)e I II XVIII 10=12rb 31121),

n reame (I II XVIII 32=12va 37, I III IV 23=20rb 51, I III V 24=20vb 40, I III VI 8=21ra 40), n te(n)p(er)ato (I II XXXI 26 = 8ra 45), che tuttavia non fa difficoltà interpretare come indicazione di raddoppiamento analoga ai casi in cui segue una consonante nasale122.

In un altro gruppo di occorrenze il titulus è sovrapposto alla consonante della parola seguente: ne c os (I II XVI 11=11rb 26), eim ali (I III VIII 38=22vb 7), eim ovimenti (I III X 14 = 23va 19). Circa quest’ultima condizione è da notare tuttavia che il copista non sembra prestare particolare attenzione alla precisa collocazione del segno abbreviativo; lo dimostrano i seguenti fatti:

a. non di rado il titulus non si trova sulla lettera immediatamente precedente la consonante abbreviata, ma su una lettera diversa, es. āvedo ‘avendo’ (I II XIII 22 = 10ra 25) per ave(n)do, dōctinati (III II VII 13 = 53ra 26) per doct(r)inati, pndāno (III III XVI 12=64rb 18) per p(re)ndano; in modo simile l’abbreviazione della p in entrapn de (I II XIV 2= 10va 4) è spostata sulla n seguente – queste grafie e altre analoghe sono segnalate nell’Apparato;

b. talora il segno abbreviativo si estende su più lettere (il che sembrerebbe ulteriore indizio di un uso ‘esornativo’ del titulus): si veda ad esempio ente(n)de(re) (I II XXI 20=14ra 8), in cui il titulus per (n) si allunga dalla prima n alla e successiva, abbracciando tre lettere consecutive: come si è già accennato, una tendenza simile parrebbe tipica delle grafie duecentesche (la si riscontra nel canzoniere V:

CLPIO, pp. CLXVIb-CLXVIIa).

Prescindendo dunque dal problema della collocazione del titulus, può rimanere semmai qualche dubbio nell’interpretazione del compendio come raddoppiamento in eim ali (I III VIII 38 = 22vb 7) e eim ovimenti (I III X 14 = 23va 19), in cui la consonante geminata

121

Qui con ulteriore titulus su e finale (v. sotto Tabella 4). 122

In n |sono (13va 38-39) il ne ha valore partitivo (donare e suoi beni a coloro che ne | sono dengni), perciò di regola non dovrebbe produrre raddoppiamento fonosintattico. Il titulus sarà dunque da considerare ‘ridondante’, a meno di non considerare la grafia un errore indotto dal fraintendimento di un ne per né (d’altra parte v. anche Volume 2, GRAFIA, § 9).

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seguirebbe l’articolo maschile plurale ei ‘i’. Per il momento si è preferito lasciare l’indicazione della doppia nell’edizione del Governamento di Na, poiché parimenti non si è intervenuti sulle altre grafie che registrano analoghi rafforzamenti dopo articolo (v. Volume 2, GRAFIA, § 9). D’altra parte, il fenomeno potrebbe avere una qualche affinità con il tipo occidentale (o meglio lucchese) me llo per ‘me lo’ (vs antico pisano me lo: v. CASTELLANI 1980, I, pp. 327-29), in cui il raddoppiamento segue il pronome clitico. Peraltro, LARSON 2008 (p. 372) riscontra un esempio di ve lle per ‘ve le’ in una lettera del 1313 del banchiere senese Biagio Aldobrandini, il che, confortato dai dati relativi a Na, potrebbe far pensare alla presenza di un tale tipo di raddoppiamento anche in area senese.

II.2.2.3. Due tipi speculari di raddoppiamento

In questo paragrafo vorrei commentare ancora due fenomeni notevoli relativi alla grafia di Na, che si intrecciano all’interpretazione della vasta gamma di impiego dei tituli da parte del copista.

Il primo riguarda la presenza della nasale n dove si richierebbe una consonante geminata: anciò per acciò (I II XIX 29 =13rb 7), denti per detti (I III III 3 =19va 19),

ensendo per essendo (II III II 18;III II XIX 6 apparato),sente per sette (I II XIV 1=10va 1, II I XV 1=39ra 3), solanço per solaçço (I II XXXI 17),e forse anche dense(n)no (I IV VI 21 =27ra 6)> de·se(n)no ‘del senno’.

Il secondo fenomeno è speculare al primo, e consiste nella presenza di una consonante geminata dove si richiederebbe una nasale: gette per gente (I II XI 24=9ra; III II XXXI 5), fatti per fanti (II III II 14,II III XIV 11), dricta|mette per drictamente (III III IV 15).

Di tali grafie si possono dare più spiegazioni.

1) La più facile e scontata (ma in fondo banalizzante) è pensare a errori di copia. A favore di questa ipotesi potrebbero giocare altri fattori: per esempio, per quanto riguarda dricta|mette ‘drittamente’, è innegabile che il vicino contesto grafico avrebbe potuto influenzare la scrittura dell’avverbio, dal momento che la frase che si legge nel segmento è l’uomo si mette dricta|mette ed arditam(en)te (da notare anche il cambio di riga subito prima del secondo mette); quanto alle altre forme, non si possono tacere attestazioni molto simili, che rispetto all’intero Corpus OVI ricorrono unicamente in Na e dunque risultano fortemente sospette, come cando per caldo (I IV IV 3) o difanta per difalta(II I XIII 13): su queste ultime v. anche sotto.

2) Alternativamente, si potrebbe pensare che già nell’antigrafo di Na il titulus fosse impiegato per indicare raddoppiamento, e che tuttavia il copista lo abbia talora interpretato nel senso più comune, cioè come compendio per nasale: ciò potrebbe ben spiegare i casi del primo fenomeno esaminato, ovvero il tipo anciò per acciò o denti per detti (il copista legge deti con titulus su e e scrive denti invece che

detti perché pensa che si tratti di un’abbreviazione per nasale). Non altrettanto

bene si spiegherebbe tuttavia il fenomeno speculare (il tipo gette per gente): infatti, qualora il copista leggesse gete con titulus su e, perché non avrebbe dovuto trascrivere gente, se il compendio per nasale è la consuetudine a lui più abituale?

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Il suo comportamento di copia risulterebbe cioè contraddittorio (il che, beninteso, non è del tutto impensabile): per una serie di volte il copista mostrerebbe di non riconoscere il titulus per raddoppiamento, e per altrettante lo estenderebbe invece dove non necessario.

3) Infine, non è del tutto da escludere che le forme viste finora possano ricondursi a una consuetudine grafica (che sarà da approfondire con ulteriore documentazione) per l’indicazione del grado forte della consonante. A questo proposito risultano particolarmente significative le osservazioni di CASTELLANI 2009, I, p. 527, relative ad alcuni usi grafici che si riscontrano nel registro di un mercante pisano della prima metà del Trecento, Nesone di ser Lenzo di Genovese: «alla mano di Nesone, nelle carte del dare, se n’alterna tavolta un’altra, molto inesperta. È caratteristico di tale mano […] il ricorso alla lettera n per esprimere il grado forte o anche medio-forte di qualsiasi consonante: ad esempio manpe = mappe 56r 23,

spagento = spaghetto ibid., bontoni = bottoni 28r 15, chorndelle =

(probabilmente) chorddelle ibid., vernde = (probabilmente) verdde 11v 8». Tale consuetudine – cursoriamente segnalata già in CASTELLANI 1952, I, p. 18 – si ritrova nel XVI secolo in area fiorentina, negli scritti di Antonio Mini, garzone di Michelangelo (v. CIULICH 1970, pp. XXX-XXXI): ancora secondo CASTELLANI 2009, I, p. 262 n. 61, «uno dei tratti più notevoli [della grafia di Antonio Mini] è l’uso di n +cons. in luogo di cons. doppia (uso che sembra determinato dalla duplice funzione [esprimere la nasale o indicare un raddoppiamento] del «titulus» orizzontale) […]. Antonio Mini raddoppia spesso non soltanto le consonanti di grado medio-forte, ma anche le consonanti di grado tenue in posizione intervocalica all’interno di parola o di frase (avette = avete). Questo tratto, combinato colla tendenza ad adoperare n per i rafforzamenti consonantici, dà luogo a scrizione del tipo di avente ‘avete’ CIM1 343.2, ccholorinto cho- ‘colorito’ 343.8.15; e n può anche diventare un grafema del tutto superfluo, v. per esempio cchanssa ‘cassa’ CIM1 343.20, dantto 350.18 accanto a danto 350.23 (=

dato), tuntto 346.26, 349.9 accanto a tunti 349.25 (= tutto, tutti)».

Mi pare dunque che i casi del primo fenomeno qui esaminato (denti per detti) possano giustificarsi sulla base di un’abitudine grafica, non esclusiva del copista di Na, per l’indicazione del grado forte della consonante; abitudine sulla quale avrà avuto non poca influenza il doppio uso (che si ritrova in Na e che forse apparteneva già al suo antigrafo) del titulus per raddoppiamento e per nasale. È possibile che la seconda tipologia di forme (gette per gente) rappresenti una reazione alla prima, o che ad ogni modo risenta della stessa sovrapposizione nell’uso del titulus (impiegato, riassumendo, sia per nasale, sia per raddoppiamento, sia per semplice fine esornativo) o della nasale stessa, che come si è visto può indicare il grado forte della consonante seguente; peraltro, data quest’ultima circostanza, è anche possibile che le forme cando e difanta siano da interpretare come indicazione del grado medio-forte (cando = calldo? / difanta = difallta? come, forse, i casi citati da Castellani: chorndelle = chorddelle? e vernde =

verdde?).

Aggiungo infine una breve osservazione su un passo che a prima vista potrebbe essere considerato erroneo in Na, ma per il quale è anche possibile una spiegazione alternativa, basata sulle particolarità grafiche finora osservate. In I II XXX 11si legge tutto sia cosa

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che neuno no(n) | debbia mettere, neente meno ciaschuna ve(r)i|tà no(n)n è buona a dire se(n)p(re), dove mettere sembrerebbe da correggere in mentire sulla base della

lezione unanime del resto della tradizione123. Tuttavia, sono da tenere presenti ancora una volta le osservazioni a p. Ca dell’Introduzione alle CLPIO:

Curiosa l’alternanza tra mentire e mettere, per cui a volte si ha mettere invece di

mentire […] e, viceversa, mentire al posto di mettere. Per Rohlfs I § 334 si

tratterebbe, nel secondo caso, di epentesi di una nasale (ma gli esempi sono

méntere oppure mìntere). Sempre Rohlfs, II § 615, cita le voci calabresi mintere e mintire («mettere»), di cui la seconda corrisponde alla nostra. In tale prospettiva le

forme rientranti nella prima serie (mettere invece di mentire) potrebbero essere delle false ricostruzioni. Si osservi che l’uso è ristretto quasi al solo Guittone.

Data l’estrema complessità osservata finora negli usi del copista di Na, è parso opportuno lasciare a testo le grafie del tipo denti ‘detti’ o gette ‘gente’, e così anche

mettere ‘mentire’124; non ci si è sentiti tuttavia di accettare le forme isolate cando e

difanta perché estremamente più dubbie rispetto alle altre (non si spiegano per

incomprensione di tituli come invece si è visto in molti altri casi e non fanno serie con forme analoghe, se non per via del tutto suppositiva attraverso una particolarità grafica individuata da Castellani in uno scrivente di secoli più bassi e posta come dubbia già in quello studio).

II.2.2.4. Un fenomeno opposto: l’omissione di nasale davanti a consonante

Prima di proporre una sintesi conclusiva sui tituli più o meno ‘ridondanti’ che compaiono nel codice Na, vorrei dedicare ancora un paragrafo all’analisi di un fenomeno opposto (ma in un certo senso complementare) a quanto osservato finora sull’uso della nasale e del titulus per indicare raddoppiamento, all’interno di parola o in fonosintassi.

Si tratta dell’omissione della nasale di fronte ad alcuni tipi di consonante, una fenomenologia nota da tempo agli studi (v. SCHIAFFINI 1926, p. 265; POPPE 1963; BRAMBILLA AGENO 1985, p. 111; LORENZI 2010, p. 105), e così riassunta nell’Introduzione alle CLPIO, p. XCIX a-b:

La particolarità […] non è propria dei soli testi fiorentini, ma compare anche altrove, ad esempio a Cortona e nell’Italia padana. Nella nostra serie la n manca per lo più davanti alla t (31 casi su 68), e poi, ma a distanza, davanti alla d (8 casi), alla velare c (8 casi), alla v (4 casi), e così via. Interessante la forma di V 126BoOr, v. 2: «’ntale[n]tta», dove, invece di cadere la prima n, cade la seconda. Oscillazioni del medesimo genere sono osservabili anche per quel che riguarda l’uso della r, rappresentata a volte in V con un compendio.

Mi sembra interessante che anche in questo caso l’abitudine grafica ricorra più volte non solo in testi fiorentini o a Cortona (come si legge sopra) ma anche in area occidentale. Si veda infatti CASTELLANI 2009, II, p. 776, a proposito della Lettera lucchese del 1315: «è notevole la frequenza con cui viene omessa la lettera n dinanzi a

123

Che legge m(en)tire O R mentire Va. 124

Si è intervenuti solo su dense(n)no (I IV VI 21=27ra 6)> de·se(n)no ‘del senno’, perché si tratta di due parole.

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consonante (scho[n]fitta 8, intendime[n]to 9, acho[n]ci 12, 18, Mocide[n]ti 14, soprascr. [ecc.]», o p. 921, a proposito della Nota pisana del 1337: «è anormalmente frequente l’omissione dei segni abbrevativi (o delle lettere) per la nasale e r seguite da consonante» (gli esempi per quest’ultimo testo sono: po[r]toe 3volte, cha[m]pana,

Cho[n]se[r]vatore, pio[m]bo, i[n]fine, po[r]ta, che rappresentano un’alta percentuale

se si considera che il testo occupa una ventina di righe in tutto).

Questi i dati relativi a Na, dove il fenomeno interessa sia la nasale che, pur in un unico caso, la r preconsonantica:

chesengna = ch’e[n]sengna (I I II 14), co(n)venieçe = co(n)venie[n]çe (II II III 1), conoscieça = conoscie[n]ça (I I IV 9), copiutam(en)te=co[n]piutam(en)te (I III VI 14), coropono = coro[n]pono (I IV I 57), differeça = differe[n]ça (I III VII 18),

dighanarli=d’i[n]ghanarli (I II XXIII 29), dite(n)dim(en)to = d’i[n]te(n)dim(en)to (Pr. 11, I II VII 20, 23, III II XXIX 39), doctado=docta[n]do (I II XVI 9), du|dessi = du[n]|d’essi (I IV I 48), (e)digengno (e)dite(n)dim(en)to = (e) d’i[n]gengno (e) d’i[n]te(n)dim(en)to (Pr. 10), e(n)proto=e(n)pro[n]to (II II VI 19), e|sengnaremo = e|[n]sengnaremo (I I II 16), edi(n)tato = ed i(n) ta[n]to (III II XXVII 18), grada(n)i(m)o=gra[n]d’a(n)i(m)o (I II XXII 26, III I VII 9), grade = gra[n]de (I II XXV 1, II III XI 16, III II XXIV 11), ifino = i[n]fino (II I XIII 2), inco(n)tenete = inco(n)tene[n]te (III II XXII 21), Lasecoda=La seco[n]da (III I I 17), leguaggio = le[n]guaggio (II II VII 7, 12), magiare = ma[n]giare (II I XVI 10, II II XI 14), ollisengna = o ll’i[n]sengna (I II VIII 17), pareti = pare[n]ti (II I VIII 4),

p(er)teghono = p(er)te[n]ghono (I II XIX 22), quadellino = qua[n]d’ellino (II II XVII 22, III III III 15), quado = qua[n]do (III I XI 3, III II XXIX 35, III III XVIII 5), quatesi=qua[n]t’esi (I I V 20), quato=qua[n]to (II II XXI 5,III III XIV 2), quinta = qui[n]ta (III II IX 10), somel|liantemete = somel|lianteme[n]te (III III XXI 20),

somelliate=somellia[n]te (II I III 3), somilliati=somillia[n]ti (II I XVIII 5, III III I 23), speraça = spera[n]ça (I III V 14), sufficietem(en)te=sufficie[n]tem(en)te (II I VII 26), tep(er)ança = te[n]p(er)ança (I II II 30, I II X 16), tep(er)atam(en)te = te[n]p(er)atam(en)te (I II XV 21), tepo(r)a|li=te[n]po(r)a|li (I II XXII 31), vatano = va[n]tano (I II XXX 28)

 III III XVII 25 gittavi = gitta[r]vi.

Nell’edizione si è scelto – come già nelle CLPIO, p. XCVIIIb e in LORENZI 2010, p. 105 – di reintegrare prudenzialmente la nasale o la r tra parentesi quadre, vista la difficoltà di distinguere tra uno scorso grafico e dissimilazione, tanto più nel contesto particolarmente intricato dell’uso dei tituli e della nasale che si riscontra nella grafia di Na125.

Coerentemente a quest’ultima scelta, si è intervenuti su casi che in parte potrebbero essere assimilati ai precedenti, cioè le scritture avie per ‘aviene’ e be per ‘bene’, in cui si

125

Segnalo qui che l’intreccio di due fenomeni simili alla tipologia abbreviativa descritta in Na è stato rintracciato da LARSON 2003nella Ragione di Luca Buonsignore (1279) conservata all’Archivio di Stato di Siena: anche qui si hanno, da un lato, l’«uso della lineetta orizzontale soprascritta, tanto frequente quanto spesso priva di ogni significato sul piano fonico» (dunque il titulus ridondante che si è visto tipico anche di Na), dall’altro, «quasi come per compensare tale abbondanza, un grandissimo numero di nasali preconsonantici non […] segnalato in alcun modo» (LARSON 2003, pp. 288-289).

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è di fronte a una perdita della nasale, che potrebbe essere il risultato tanto di un fatto fonetico che di un errore grafico.

Per quanto riguarda la prima forma, essa ricorre nei seguenti luoghi:

 I II XIII 27:mo(r)|te che vie[ne] [ms. vie] p(er) mala(t)tia

 I II XXVI 19:ma s(econd)o | ch’elli avie[ne] [ms. chellia vie] al loro estato126  II I XV 26:s’elli avie[ne] [ms. avie] | ched elle si sostenghano di no(n) gharrire Come si vede, se per le due attestazioni di fronte a consonante è possibile pensare a un’assimilazione, che si potrebbe dunque rendere con un punto in alto finale (avie·, come nelle CLPIO, p. CXLIII, vè·, vie·), più difficile sarebbe giustificare l’occorrenza di fronte a vocale, circa la quale resta alto il sospetto di scorso grafico, magari per omissione di un compendio per nasale.

Quanto a be ‘bene’, che ricorre unicamente in:

 I III IV 21:Et die savia|m(en)te amare el be[ne] [ms. be] del co(mun)e

è da notare che nel Duecento le forme assimilate del tipo be· sembrano confinate all’uso avverbiale (v. CLPIO, p. CXXXIV); viceversa, non si registrano, stando ai dati OVI, occorrenze di be· sostantivo maschile, che dunque risulterebbe una forma unica del ms. Na. Essendo anche in questo caso più probabile che si tratti di un’omissione grafica, restituisco la terminazione be[ne] al pari di avie[ne].

Prima di arrivare a una conclusione che proponga anche una soluzione coerente per uniformare nell’edizione la fenomenologia finora osservata relativa a segni abbreviativi e usi affini, dedicherò il paragrafo successivo all’analisi di un’ulteriore tipologia di titulus ‘ridondante’, ricordata all’inizio del § II.2.

II.2.3. Il tipo op(e)(r)e / sap(e)(r)e

Come accennato all’inizio del paragrafo II.2., il copista sovrappone spesso un titulus sulla a o sulla e finali di parole come opera, opere/uopere127 o sapere, già abbreviate

con taglio dell’asta della p.

Questo caso, non avendo niente a che vedere, ovviamente, con l’uso del titulus per indicare raddoppiamento, non può che spiegarsi come variante grafica per la scrittura di

opere o sapere con un unico segno tachigrafico, cioè con solo p tagliata (> op(er)e, sap(er)e) o con solo titulus su e finale (> ope(re), sape(re).

Nell’interpretazione di forme come op(er) (?) o sap(er) (?), si possono percorrere due vie, ovvero:

1) ritenere il titulus finale superfluo, e quindi dare pieno valore alla p tagliata per

p(er);

126

V. anche I II RUBR.20:a{vie}[ne] || a lloro, in cui il vie è aggiunto in fine rigo attaccato alla prima a. Anche qui il vie precede il medesimo segmento alloro di I II XXVI 19.

127

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2) viceversa, attribuire significato al titulus e spostare l’attenzione da questo al taglio della p (che peraltro, come rilevava già AGENO 1961, subisce un’evoluzione a partire dal XIV secolo tale da fargli assumere valori in parte nuovi rispetto a quelli consueti128).

In particolare, rispetto al punto 2) si possono formulare due ipotesi:

a) il copista taglia la p non per abbreviare p(er), bensì solo p(e); il titulus vale dunque (r) > op(e)(r)e, sap(e)(r)e;

b) il copista taglia l’asta della p non per abbreviare p(er), ma come soprappiù esornativo; il titulus su e vale dunque regolarmente (re) almeno in ope(re),

sape(re).

Sembrano smentire l’ipotesi b):

 il singolare del sostantivo ‘opera’ (abbreviato tuttavia con doppio segno tachigrafico solo inI II VI 8 = 7rb 3 e I II X 18 = 8va 42), in cui se si considera superfluo il taglio di p, il titulus dovrebbe allora valere (er), e non (re) come di consueto (v. sopra, § II.1.3.1, Abbreviazioni della p);

e confermare l’ipotesi a):

la grafia di conp(e)rò (II III X 15= 44rb 2), con e implicita nel taglio dell’asta della p;

i casi di ate(n)p(e)(r)a(I II V 6 = 7ra 5), te(n)p(e)(r)ato (I II XXXI 6 = 17vb 40) e esp(e)(r)itali (II I XVIII 25=33va 15),tutte con taglio della p e titulus increspato tra p e vocale successiva, o di p(e)(r) sete (III III XX 14=65rb 40), con p tagliata e sovrastata da titulus increspato: queste forme farebbero serie con un’interpretazione > op(e)(r)e / sap(e)(r)e.

Farebbero invece propendere per l’ipotesi b):

grafie come apicchola ‘riduce’ (I II XIII 6=9vb 29), ste(n)perati (I II XXVII 17= 16rb 27), più (II I XX 19 = 34ra 10), tutte caratterizzate da un taglio superfluo della p (ammesso che apicchola non sia un errore indotto dal contesto, in cui ricorrono più volte p(er)icolo, p(er)icoli ecc., abbreviate con p tagliata);

altri casi simili, che non interessano direttamente p(er) ma mostrano la stessa tendenza a ricorrere a grafie ‘sovrabbondanti’: in III II X 22 la p di poveri è

trascritta con taglio obliquo dell’asta, quando è evidente che non si richiede abbreviazione di p(ro) (a meno che, come per l’apicchola ora citato, la grafia non sia il frutto di un errore, magari per riverbero di p(ro)cu|ra della riga precedente).

128

V. in particolare AGENO 1961, p. 177: «Il taglio dell’asta di p, che in origine indicava p(er), p(ar), già in manoscritti trecenteschi (autografo sacchettiano, Laur. Ashb. 574) sostituisce il semplice r (p(r)ima, sop(r)a) […]), e nel Quattro- e Cinquecento si trova perfino in luogo di p(e)- davanti a r. P. es. dal Trivulziano 1089, della fine del Quattrocento, contenente il Convivio dantesco in una corsiva trascuratissima, possiamo citare, scegliendo a caso, non solo 3v p(r)esente; 4r p(r)ochura, p(r)ima, p(r)incipale, p(r)oposito; 4v p(r)ima, p(r)egiata, p(r)esenza, p(r)osimo, ecc., ma anche: 3r deleop(e)re; 6v p(e)ro che imposibile; 8r p(e)ro chella virtu (due volte); 8v p(e)ro che nonaquistano; 62v op(e)re, ecc. E 5r piu chel v(e)ro». Tale fenomenologia si ritrova nel Governamento del ms. O, per es. in III III II 6.

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Si aggiunga che la distribuzione della grafia con doppio segno abbreviativo (taglio della

p e titulus) non è regolare in tutto il codice Na, ma si limita al primo libro del

volgarizzamento, fino cioè alla c. 27v (con uno stacco dalla c. 18v alla 27r, v. il dettaglio della Tabella 4 sotto riportata).

In seguito ricompare sporadicamente in sap(e)(r)e, in particolare in III I V 23=48rb 2, III II XXXIV 3=59va 10, III III I 9=60rb 5, e sapere, scritto a tutte lettere e con taglio ‘superfluo’ della p in III II RUBR.25 = 51ra 30; non compare più invece l’abbreviazione sovrabbondante per opera/e, ma si ha in un caso ado|pera con taglio, di nuovo, ‘superfluo’ della p (II II XX 9=40va 43), a meno che non si tratti di un errore (futuro per presente = adopererà).

La Tabella 14 riassume tutte le occorrenze di sapere e opere con doppio segno abbreviativo, che per ora si è scelto di indicare a testo attraverso due parentesi tonde in successione in modo da distinguerle da quelle con abbreviazione consueta (solo taglio della p o solo titulus finale).

Rispetto ad altre, la soluzione proposta – pur sempre da considerare nel suo valore di convenzione – sembrerebbe maggiormente in grado di dare coerenza a un quadro notevolmente intricato quale quello presente in Na, dove la p tagliata parrebbe equivalere al tempo stesso a p(e), a p(er), o alla semplice p. L’interpretazione, che peraltro non resta esclusa, del titulus come segno superfluo in sapere / opere con doppia abbreviazione, sarebbe stata più difficile da rappresentare nell’edizione: la lasciamo come possibile lettura alternativa di un problema che meriterà senz’altro in seguito ulteriore approfondimento.

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Tabella 4

sap(e)(r)e op(e)(r)e uop(e)(r)e adop(e)(r)a

Luogo Carta Luogo Carta Luogo Carta Luogo Carta I I I 4 I I I 17 I I II 3 I I II 11 I I II 11 I I II 11 I I II 11 I I II 14 I I II 19 I I II 23 I I II 23 I I III 14 I I IV 8 I I IV 15 I I IX 14 I.2.Rubr.6 I II IV 10 I II VI 20 I II VIII 30 sap(er)e I II IX 2 I II X 10 I II X 14 I II XIII 9 I II XV 9 I II XVII 3 I II XVII 11 I II XIX 3 I II XXV 9 I II XXVI 6 I II XXXII 20 I III I 4 I III I 11 I III I 19 I III III 2 1rb 47 1va 32 1va 48 1vb 18 1vb 18 1vb 20 1vb 21 1vb 30 1vb 40