• Non ci sono risultati.

5. L’ora della Conciliazione

5.2 Dopo gli accordi del Laterano

Gli accordi del Laterano siglati dal regime mussoliniano introdussero – come è noto – laceranti contraddizioni nell’antifascismo dei protagonisti che ne avevano preconizzato lo sbocco nel quadro dello Stato liberale. Tuttavia furono proprio molti di quei protagonisti a sforzarsi di non leggere esclusivamente sub specie fascismi l’avvenimento della Conciliazione, proponendo

28 R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia, cit., p. 150.

29 G. Bevilacqua, I Patti Lateranensi dopo trent’anni, in «Humanitas», XIV (1959), n. 3, p. 183, che risente forse di una

eccessiva enfatizzazione della «opposizione» di antifascismo cattolico alla Conciliazione.

187 valutazioni non totalmente deprecatorie e articolando un quadro di analisi storicamente più ampio e non ristretto alla contingenza. Al netto delle naturali sfumature e differenze di reazione, l’orizzonte comune tra antifascismo liberale e cattolico potrebbe essere definito un atteggiamento di consenso alla Conciliazione in quanto tale, ma storicamente condizionato al rifiuto del connubio politico- religioso tra la Chiesa e il regime mussoliniano. Da questo punto di vista le aperture di giudizio riguardarono soprattutto le potenzialità della «pace religiosa» in funzione di una rilegittimazione non conflittuale delle forze cattoliche e moderate. Per quanto ancora proiettate a lunghissima gittata, le conseguenze dei Patti lateranensi neutralizzavano anticipatamente la ricostituzione di un centro- destra laico dopo il fascismo, ma intervenivano anche a riattivare flussi di integrazione tra mondo cattolico e laico oltre le discriminanti religiose del Risorgimento, lasciando credibilmente «ipotizzare una sorta di cattolicesimo politico, non strutturato in partito, ma attivo organizzativamente secondo una linea moderata, in grado di raccogliere consensi su una piattaforma nazionale, al di là dei limiti di uno schieramento strettamente cattolico»31.

Da questa articolazione di giudizio fu in massimo grado caratterizzata la reazione di De Gasperi, che già il 15 febbraio volle dichiararsi – in una sua lettera pubblicata senza firma da Donati sulla testata dell’emigrazione antifascista «Il Pungolo» – freddamente disposto a valutare gli accordi del Laterano «essenzialmente per quel che possono dare in avvenire come risultato religioso e politico»32. I suoi commenti sulla «pace vaticana» rimangono testimoniati dalle lettere ai due amici

e sacerdoti trentini, don Giulio Delugan e don Simone Weber, in cui non mancano sentimenti di amarezza per l’accordo stipulato dalla Chiesa alle spalle del popolarismo, ma anche indubbie dimostrazioni di superamento del disinteressamento popolare alla questione della politica ecclesiastica. Per De Gasperi era soprattutto il Trattato a meritare una valutazione positiva indipendentemente dalle strumentalizzazioni del regime politico che lo aveva sottoscritto: «ho passato – scriveva a Jacini il 15 febbraio 1929 – delle oscure ore di meditazione; pur sforzandomi a tranquillare qualche amico. In complesso il trattato mi pare buono e forse è buono più per quello che elimina che per quello che crea. Il p[apa] non poteva non accettare, anche se il trattato rappresenta per M[ussolini] il matrimonio con Maria Luisa»33. La liquidazione della «questione temporale» non poteva che apparirgli, «vista oggi in Italia, un successo del regime», ma nel trentino prevaleva la convinzione che essa rappresentasse «una liberazione per la Chiesa e una fortuna per la

31 G. Rossini, Per una storia dei Patti Lateranensi. Documenti, in Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel ‘900, a cura di G. Rossini, il Mulino, Bologna 1972, pp. 479-480.

32 In questi termini si esprimeva «un amico da Roma» (evidentemente lo stesso De Gasperi) in una lettera del 15

febbraio riportata a Parigi da Giuseppe Donati, in G. Donati, Le probabili sorprese dei Patti del Laterano, in «Il Pungolo», 15 febbraio-1 marzo 1929, ora in Id. Scritti politici, introduzione e note di G. Rossini, Edizioni Cinque Lune, Roma 1956, vol. II, p. 359.

188 Nazione Italiana», al punto che lo stesso Sturzo avrebbe potuto sottoscriverla. Quello che attirava la sua attenzione era il paradossale rovesciamento «tra la tesi e l’ipotesi» negli entusiasmi dei cattolici tradizionalmente oppositori del Risorgimento di fronte a un trionfo postumo del conciliatorismo:

I cattolici di qui sono variamente commossi. I vecchi popolari sono furibondi, perché temono una compromissione col regime e perché nel trattato si discorre di miliardi, i temporalisti più accesi, compresi i gesuiti, portano intorno una faccia trionfale, come se invece del Calabiana, del Tosti, del Bonomelli, della Lega Lombarda avessero prevalso quelle della “Civiltà”, del P. Zocchi e dell’“Osservatore cattolico”. […] Quindi contenti i clerico- papalini, contenti i fascisti, contenti i massoni, Mussolini è trionfante e Briand si dice lietissimo. Quest’oggi, al dir di Francesca, a S. Pietro sotto la pioggia, attendevano 200 mila persone, questa sera le porpore cardinalizie presiederanno al riconfluire delle due nobiltà romane, divise in due rivoli nel ‘7034.

In un più ampio quadro storico, De Gasperi tendeva ad assimilare la stessa condizione dei popolari dopo la Conciliazione a quella di «ultimi sacrificati» della questione romana, istituendo un parallelismo con i precedenti di altri cattolici – i legittimisti dopo il concordato napoleonico di Pio VII e, su una sponda più affine al popolarismo, i «costituzionalisti» dello Zentrum nell’accordo di Leone XIII con Bismarck – scavalcati dalla diplomazia vaticana per l’interesse superiore della Chiesa:

La S. Sede raggiunge veramente la sua libertà giuridica e diplomatica né è più soggetta alla tentazione di sacrificare questa o quella posizione alla speranza «romana». Ciò vale anche per l’Italia, ove l’ultima posizione sacrificata fu quella dei cattolico-popolari. Coraggio, ho detto al mio amico, abbiamo almeno la consolazione di essere gli ultimi sacrificati. In verità a noi la libertà arriva quando non ne possiamo usare, e siamo dichiarati maggiorenni quando ci hanno portato via il patrimonio; ed è certo che nascere disgraziati è una disgrazia; ma come figli della Chiesa dobbiamo gioire35

Le preoccupazioni di De Gasperi riguardavano invece la coabitazione concordataria tra Chiesa e Stato e il pericolo che potesse scaturirne una «compromissione» con l’annullamento della distinzione «fra cattolicismo e fascismo»36. Era così paventata da De Gasperi la tendenza di non pochi ambienti vaticani a interpretare il Concordato come regime di «concordanza»37 in senso globalmente restaurativo e confessionale, accentuando il fraintendimento del fascismo come regime cattolico e ridimensionando – in questo modo – la stessa libertà di movimento riconquistata dalla Santa Sede dopo il Trattato38. Non sfuggiva a De Gasperi – tuttavia – che proprio lo strumento del

34 A. De Gasperi, Lettere sul Concordato, cit., pp. 46-48, De Gasperi a Simone Weber, 12 febbraio 1929. 35 Ivi, pp. 49-50.

36 Ibidem.

37 Ivi, p. 57, De Gasperi a don Simone Weber, 26 febbraio 2929.

38 «Superare il turbamento prodotto dal Concordato non fu facile e, quando mi pare di aver spenta la vampa e

riguadagnata la quiete, scopro che sotto la cenere covano le brage. Molti, pur senza voler trinciare sentenze definitive, condividono le mie preoccupazioni. Quanto mi par facile plaudire alla pace vaticana, altrettanto più difficile riesce di aderire col cuore alla collaborazione del concordato. Quando si afferma che solo il presente governo poteva fare tali concessioni, si dice una cosa assai grave. Secondo informazioni e deduzioni, il Papa avrebbe voluto il concordato per giustificare in confronto a passati atteggiamenti temporalisti, inculcati in Italia e, più, fuori, «la magrezza» della soluzione romana. Viceversa l’alleanza interna era l’aspirazione prima del regime (ricordare l’iniziativa della commissione ecclesiastica 1924-25). Quindi le due aspirazioni s’incontrarono con facilità. Mi auguro che le preoccupazioni siano infondate e che l’alleanza sia senza pericoli per la Chiesa e migliori il regime»: ivi, p. 54, De Gasperi a don Giulio Delugan, febbraio-marzo 1929.

189 Concordato potesse diventare non soltanto l’architrave di una «collaborazione» tra Chiesa e fascismo, ma al contempo una base di autonomia giuridicamente opponibile alle aggressioni di uno Stato a ideologia «totalitaria»: «Quando si pensa che le trattative lusinghevoli duravano dal ’26 e che nel frattempo il Papa ebbe delle botte assai energiche, bisogna ritenere che ancora più nell’avvenire userà della sua libertà perché le idee non si confondano»39. In previsione di questa ripresa di conflittualità, De Gasperi vedeva riemergere sullo sfondo anche la questione della democrazia come orizzonte della società moderna nel quale la stessa Chiesa avrebbe dovuto prima o poi tornare ad ambientarsi:

certo questa sera al palazzo Colonna, riaprendo i famosi battenti, qualcuno crederà di riaprire le porte di secoli in cui s’intrecciarono lo scettro e il pastorale. Ma la realtà del sec. XX non tarderà a farsi sentire, le grandi masse ricompariranno dietro lo scenario. Auguriamoci che gli uomini di Chiesa non le perdano mai di vista, perché esse sono la realtà di oggi e di domani40.

Ne derivava la consapevolezza di una rinnovata centralità del cattolicesimo democratico come fermento di dissociazione della Chiesa dai totalitarismi, ma – in prospettiva futura – anche come competitore di altri movimenti di massa – su tutti il comunismo – che potevano minacciare la presenza religiosa del cattolicesimo dopo il ritorno alla democrazia. Da questo punto di vista assumeva un valore propriamente «ecclesiale» anche l’attesa in riserva degli ex popolari, che in quello scenario dischiuso dalla Conciliazione potevano riacquisire uno spazio politico oltre la durata del fascismo: nella visione degasperiana – infatti – proprio i superstiti dell’antifascismo popolare avrebbero potuto trasformarsi in un indispensabile punto di contatto tra Chiesa e democrazia, a condizione di mantenere un legame pur critico di identificazione con l’orizzonte ecclesiale che li aveva momentaneamente «sacrificati».

A queste riflessioni di De Gasperi diede immediato riscontro il raffreddamento delle relazioni tra il regime e la Santa Sede che precedette il dibattito di ratifica parlamentare dei Patti dell’11 febbraio. In quelle settimane il trentino non mancò di riconoscere il realismo politico con cui Mussolini tendeva decisamente a restringere le conseguenze degli accordi in termini di condizionamento ecclesiastico: come commentava a Delugan 15 marzo 1929, la relazione mussoliniana ai disegni di legge sui testi lateranensi ripristinandone la continuità del regime fascista con la tradizione laica del Risorgimento, facendo provvidenzialmente evaporare le attese «guelfe» che si erano susseguite dopo la Conciliazione:

La relazione alla Camera pubblicata ieri, ha buttato sui bollori dell’acqua fresca. Quella è una relazione, veramente notevole, di uomo di stato che fa politica positiva, mettendosi in serie dopo Cavour e Crispi, e dimostrando di avere la loro concezione, modificata solo in quanto è contingente e va adattata ai tempi. Non si può non ammirare tale documento – dal suo punto di vista – giacché è sincero e non lascia campo a emotività e ispirazioni religiose che,

39 Ivi, p. 50. 40 Ivi, p. 51.

190

comunque agiscano nella coscienza personale, non hanno certo influito sull’atto politico del trattato e del concordato. In Vaticano ne sono scontenti, ma Mussolini conosce meglio uomini e cose e sa che la Camera che deve votare non è cattolica, ma fascista. Si preoccupa quindi soprattutto di dimostrare che lo stato fascista non è diminuito, ma ha, con lievi sacrifizi guadagnato, e ch’egli non ha distrutta, ma completata ed adattata ai tempi l’opera della Destra: abilità grande, che fa pensare agli articoli organici. È giusto quindi che pur riconoscendo il buono e l’ottimo, ci riserviamo di vedere fino a qual punto egli riuscirà ad ottenere dai suoi, dopo il concordato, la concordanza. La Chiesa ha una grande speranza per le generazioni future, il fascismo incassa intanto un grande vantaggio al presente41.

La stesse considerazioni vennero riservate da De Gasperi al discorso che Mussolini tenne alla Camera il 13 maggio, nel quale il «duce» accentuava i tratti di autosufficienza «totalitaria» del fascismo rispetto al cattolicesimo, ribadendo l’unicità della «sovranità» statale e la posizione di privilegio concordataria della Chiesa, ma sempre per sovrana concessione dello Stato. Ne derivava una impostazione fortemente laicistica che avrebbe ben presto accompagnato il «ritorno alla realtà» della Santa Sede, liquidando di un colpo le illusioni post-concordatarie sugli esiti «cattolicizzanti» della Conciliazione. Appena insediatosi negli ambienti di lavoro della Vaticana, De Gasperi ne prendeva atto senza alcuna sorpresa:

Nessuno attendeva che il chiarimento venisse così presto. Una delle ragioni però che provocarono il colpo di barra del nocchiero fu appunto l’eccessiva illusione e bonarietà dei cattolici che manifestarono speranze infantili e parvero prendere delle ipoteche su di un avvenire che a loro non apparteneva. A furia di leggerlo sulle cantonate, gli uomini di chiesa credettero davvero che le classi dirigenti da ieri ad oggi avessero trasformato la loro coscienza in un’adesione spirituale al cattolicesimo. Ora la delusione è amara. Il discorso del Duce ha provocata in costoro una reazione formidabile, come avviene all’amore respinto. Esagerati! Che ha detto di più di quello che potrebbe attendersi ogni attento conoscitore dei precedenti e ogni buon lettore del Dux della Sarfatti, che si vende a migliaia di copie e che i cattolici si ostinano a non leggere? E il manifesto della vigilia e il discorso del trono non stanno in piena armonia col resto? Ma gli ostinati persistono anche oggi ad attribuirgli un semplice valore tattico, purché resti intatta quella figura irreale di «Costantino redivivo» che si sono creati. La verità è che, almeno per quello che si conosce in pubblico, Mussolini fu di una franchezza e di una logica perfetta42.

Scrivendo a Jacini il 14 maggio, De Gasperi non si limitava a rendergli conto dell’atmosfera di sconcerto in Vaticano, ma lo interrogava se fossero ancora possibili reazioni in Parlamento al discorso mussoliniano:

Nella «città» si è esterrefatti del discorso di ieri. Ma si spera che in Senato ne faccia un altro. Io trovo viceversa che è altamente lodevole per la ma franchezza e per le definizioni precise e limitatrici. Quale concetto più determinato che quello del carattere sacro di Roma? Che ci sia ancora qualche malinconico al Senato il quale abbia il coraggio di parlar contro?43

Il discorso di opposizione evocato da De Gasperi ne indicava chiaramente l’aspettativa di un pronunciamento antifascista di Croce in Senato, l’unico che sarebbe in effetti intervenuto nella discussione a rompere l’unanimità di consensi che l’approvazione dei Patti lateranensi raccolse anche in settori non «fascistizzati» dell’Assemblea senatoriale, ancora ampiamente rappresentativi di ex popolari e liberali della classe politica prefascista. Il 24 maggio Croce annunciò la sua

41 Ivi, pp. 63-64, De Gasperi a don Giulio Delugan, 15 marzo 1929. 42 Ivi, pp. 77-78.

43 AJC, Fondo Stefano Jacini, «Corrispondenza», cart. «Alcide De Gasperi», De Gasperi a Jacini, 14 maggio 1929;

191 dichiarazione a nome della ristretta pattuglia di senatori dissidenti di area liberale, tra cui Luigi Albertini, Francesco Ruffini e Alberto Bergamini, con i quali l’intervento era stato preventivamente concordato:

Dichiaro anzitutto, perché non abbia luogo equivoco, che nessuna ragionevole opposizione potrebbe sorgere da parte nostra all’idea della conciliazione dello Stato italiano con la Santa Sede. La dichiarazione è perfino superflua, in quanto è troppo ovvia. La legge stessa delle guarentigie avrebbe avuto il complemento della conciliazione, se la Santa Sede l’avesse accettata, o se, movendo da essa, avesse aperto trattative, che non erano escluse e potevano essere coronate da accordo. I ripetuti tentativi, fatti nel corso di più decenni, dall’una e dall’altra parte, comprovano la tendenza a metter fine a un dissidio che apportava danni o inconvenienti all’una e all’altra parte, e non starò ora a cercare per minuto a quale delle due li apportasse maggiori44.

Come mostravano queste sue argomentazioni, neppure Croce assecondava una impostazione nettamente «anticonciliatorista», ma teneva a precisare che «la ragione che ci vieta di approvare questo disegno di legge non è, dunque, nell’idea della conciliazione, ma unicamente nel modo in cui è stata attuata, nelle particolari convenzioni che l’hanno accompagnata, e che formano parte del disegno di legge». Tale impostazione gli faceva verosimilmente accettare il Trattato come liquidazione delle recriminazioni temporalistiche e adeguamento della Santa Sede allo status quo delle «guarentigie», ma soprattutto come epilogo dei «ripetuti tentativi» già esperiti dall’Italia prefascista. In questa direzione anche Ivanoe Bonomi interpretò il passaggio del discorso crociano che accennava «alle conversazioni che su quella conciliazione ebbero i Governi precedenti quello fascista», confidando qualche settimana dopo al filosofo i suoi contatti con la Santa Sede da Presidente del Consiglio nel 1921-‘2245.

Irriducibile era invece il dissenso crociano sulla svolta concordataria, che segnava «la rottura dell’equilibrio» e l’interruzione della pacificazione religiosa che il cinquantennio dell’Italia liberale aveva saputo gradualmente assicurare senza stipulazione di accordi diplomatici con la Santa Sede. Da qui Croce respingeva risolutamente il rapporto di continuità mussoliniano tra i Patti Lateranensi e la tradizione liberal-risorgimentale di cui l’anno precedente il filosofo aveva intessuto l’apologia con la sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, giudicando «altrettanto poco decorosa per il Papa quanto

44 R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia, cit.,, p. 665. «Ho partecipato alla seduta, e parlato contro il disegno di legge. Si è

rumoreggiato e procurato d’interrompere da parte di un gruppetto di senatori che facevano capo ai neosenatori Cian e Cavazzoni, e dalla tribuna della stampa. Ma io ho ripetuto le parole che coprivano con le loro voci, e ho rinforzato la mia voce sicché ho detto intero, e in modo comprensibile, il mio discorso»: B. Croce, Taccuini di lavoro,vol. III, 1927- 1936, p. 133, 24 maggio 1929.

45 Nella sua lettera a Croce dell’8 giugno 1929, Bonomi gli rivelava i suoi colloqui con il barone Monti, direttore del

Fondo dei Culti, intorno alla proposta di internazionalizzazione della legge delle guarentigie, confermando – involontariamente – di non avere colto all’epoca l’indisponibilità vaticana ad accettare negoziati su ipotesi di sovranità non territoriale del Pontefice. «Io esclusi si potesse parlare di una restaurazione anche parziale, anche minuscola del potere temporale dei Papi, la cui caduta rappresentava per me il coronamento del nostro Risorgimento, e l’inizio di un’êra spiritualmente propizia allo stesso cattolicesimo»: ACS, Fondo Ivanoe Bonomi, b. 2, Bonomi a Croce, 8 giugno 1929; la lettera è stata pubblicata anche in F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla

Conciliazione, cit., pp. 530-531. Di questi «approcci anche sotto il governo Bonomi» era venuto a conoscenza nei mesi precedenti lo stesso De Gasperi, che ne aveva scritto a don Simone Weber il 22 aprile 1929: A. De Gasperi, Lettere sul

192 per l’Italia» l’ipotesi di una «conciliazione, fondata su pezzetti di territorî da ritagliare per foggiare al Papa un giocattolo bambinesco di stato temporale»46. L’intransigenza di Croce contro il Concordato non era solo un modo per rimarcare la sua opposizione al regime, ma anche una scelta dettata da un giudizio di merito storico: il regime concordatario era visto come un arretramento rispetto alla separazione tra l’autonomia religiosa e quella civile che si era realizzata in epoca risorgimentale.

In conseguenza degli accordi Croce non temeva comunque «il risorgere in Italia dello Stato confessionale», ma confidava in una reazione del «pensiero moderno, adulto e robusto» contro «assalti o velleità di assalti» del clericalismo: preannunciava così che la stessa prassi concordataria sarebbe presto divenuta ben presto terreno di contrasto e non di pacificazione, con «spasimanti e sterili lotte su fatti irrevocabili, e pressioni e minacce e paure, e i veleni versati nelle anime dalle pressioni, dalle minacce e dalle paure». In questo caso – tuttavia – la polemica anticoncordataria di Croce finiva per associare la denuncia di due aspetti concettualmente separati, rispettivamente il sovvertimento del sistema di «libera gara» operato dal fascismo e il superamento del liberalismo ottocentesco nella direzione di un riconoscimento istituzionale della Chiesa47, a cui non pochi rappresentanti della tradizione di liberalismo antifascista – su tutti Gallarati Scotti e De Ruggiero – avevano finito per approdare nei decenni precedenti. Nello stesso discorso crociano mancavano – in ogni caso – accenni contestativi o riduttivi nei confronti dell’influenza «spirituale e morale» della Chiesa, ma vi emergeva semmai la delusione per il fatto che la «conciliazione» con l’Italia fascista ne dissolvesse la possibilità di resistenza religiosa ai totalitarismi, che già dal saggio su Stato e

Chiesa in senso ideale del 1928 Croce aveva preconizzato con l’«efficienza dell’antimachiavellismo della Controriforma»48. Espressiva di questa valutazione era anche la conclusione del discorso di Croce, che si rifiutava di considerare il Concordato come «un tratto di fine arte politica» da