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Lo «speciale liberalismo» di un popolare: Mario Augusto Martini storico del cattolicesimo risorgimentale

2. Dalla politica alla storia: itinerari alla ricerca di un popolarismo di opposizione

2.3 Lo «speciale liberalismo» di un popolare: Mario Augusto Martini storico del cattolicesimo risorgimentale

Nella sua recensione a Religione e politica di Galati, De Gasperi tornava nuovamente a menzionare sulla stampa popolare la relazione congressuale di Martini dopo i commenti politici su di essa già rilasciati in veste di Segretario del partito. Incoraggiandolo a sviluppare in altro studio il suo interessamento per il cattolicesimo risorgimentale, gli anticipava che esso avrebbe potuto trovare «oggi, vasta eco e lettori attentissimi; come attentissima era l’assemblea nell’ultimo congresso popolare di Roma, quando il relatore sul problema costituzionale on. Martini riallacciava la dottrina democratica dei popolari colla direttiva politica dei cattolici costituzionalisti (evitiamo la parola «liberali» per non ingenerare equivoci) che scrissero ed agirono nelle varie fasi della formazione dell’unità italiana»122.

Al di là probabilmente della sua stessa consapevolezza, l’abbinamento di De Gasperi tra Galati e Martini coglieva realmente una comunanza di interesse su quel tema tra i due dirigenti popolari. Anche se non strettamente riconducibile all’intransigenza antifascista di «Parte Guelfa», quella di Martini fu un’altra figura del popolarismo attivamente interessata alla storia del movimento cattolico in Italia e ai suoi intrecci di rapporto con le classi dirigenti nazionali. A questa

121 P. Malvestiti, Il partito democratico cristiano, in «Popolo e Libertà», 30 novembre 1943. Per i passi dell’opera citati

cfr. V.G. Galati, Religione e politica, cit., pp. 109-110.

74 sensibilità fu guidato dall’educazione degli scolopi fiorentini alla scuola di padre Giovanni Giovannozzi, che lo formò all’«apologetica riguardosa e non aprioristica» del rosminianesimo, avvicinandolo alla «temperie di liberalismo moderato che mirava all’armonizzazione del cittadino col credente per farlo partecipare dialetticamente alla nuova progettualità politica»123. Intimamente sofferta rimase sempre in lui la segregazione della coscienza cattolica dal sentimento pubblico della nazione, che gli impose già dai primi anni del Novecento l’indifferibilità di una pacificazione non meramente istituzionale tra patria e fede religiosa. Questa condivisione degli orientamenti guelfi e risorgimentali lo avrebbe reso sempre autonomo dal retroterra di formazione cattolico-intransigente, a cui pure si sarebbe gradualmente accostato nella sua militanza politica prima del popolarismo.

L’orizzonte del conciliatorismo condizionò Martini fin dai suoi primi orientamenti politici, convincendolo che «le forze avverse a questo erano una deviazione dagli stessi interessi nazionali»124. In linea con la sua formazione di cattolico «temperato», per il giovane Martini la riconquista della cittadinanza cattolica nello Stato unitario non doveva necessariamente transitare dall’attivismo politico dei movimenti di ispirazione intransigente. Al contrario i suoi ricordi testimoniano che ad un certo momento «la soluzione liberale si presentò alla coscienza religiosa»125 di lui e di altri giovani della sua generazione, prima di approdare definitivamente alla politica nelle fila del laicato cattolico. Come si può cogliere dalle sue riflessioni dell’età matura, il liberalismo uscito dal Risorgimento dovette apparire a Martini più un movimento di indipendenza nazionale che una dottrina ideologicamente connotata, soprattutto se messo a confronto con la coerenza programmatica di quello anglosassone: «mentre in Inghilterra – osservava – il liberalismo è sorto con un fondamento utilitario e individualistico a carattere prettamente economico, il liberalismo del nostro Risorgimento sorge come rivendicazione della libertà dallo straniero, aspirazione a darsi un governo proprio che realizzi lo spirito italiano»126. A partire dalla realtà indiscutibile del Regno d’Italia, l’approccio di un cattolico come Martini al liberalismo di inizio secolo dovette introdurre non poche variabili rispetto alle precedenti condanne della Chiesa, richiamandosi in questo senso alla più antica continuità di tradizione del cattolicesimo risorgimentale. L’ingresso nella giolittiana «conciliazione silenziosa» contribuì ulteriormente a fargli apparire quella liberale una forza politica non più dominata dall’anticlericalismo del Risorgimento e come tale tollerabile per gli stessi cattolici che avrebbero rifiutato l’intransigenza antistatale127. Questa apertura di giudizio non trascurabile nei confronti del liberalismo rimase – tuttavia – solo un pronunciamento di carattere

123 L. Bedeschi, Il modernismo italiano. Volti e voci, San Paolo, Torino 1995, p. 215. 124 ABS, Fondo Mario Augusto Martini (MAM), II, 118.

125 MAM, II, 127. 126 MAM, II, 139.

127 «Vi era una soluzione che poteva sedurmi. […] La soluzione poteva sedurmi per le mie convinzioni nazionali, sulle

75 storico e culturale. Da parte sua Martini avrebbe sempre continuato a considerare come ostacoli al suo passaggio nell’area di liberalismo moderato la posizione politicamente residuale del conciliatorismo e le resistenze ad accettare un rapporto paritario con i cattolici:

Perché non fui liberale, dal momento che, scartate le altre soluzioni, avevo in comune certe convinzioni nazionali di libertà civile e politica? In realtà non sono mai stato un conformista nel senso di quei tali che accettano opinioni senza averle meditate […]

La stessa corrente del catt[olicesimo] lib[erale] [ormai] era in declino e assorbita dal lib[eralismo] dei moderati, e restava pertanto come un’aspirazione nobile, ma per cultura influendo verso la conc[iliazione] fra Chiesa e Stato128.

In sostanza la posizione di distanza giovanile di Martini dal liberalismo fu dovuta alla sua insoddisfazione per la limitata considerazione del cattolicesimo come indirizzo di riferimento etico- religioso. Questa carenza gli appariva imputabile a una concezione puramente negativa e indifferentista che si ostinava a confinare nella soggettività individuale la tutela della libertà religiosa, tanto più incomprensibilmente in quanto ciò precludeva al liberalismo una indispensabile base di radicamento comunitario nell’Italia cattolica:

In quella parte di giovani […] che avevano e mantenevano sicure convinzioni cattoliche, il Liberalismo si presentava anche come mancante di una base positiva e razionale sicché, per darsi una linea in quel senso, aveva dovuto sempre ricevere idee e direttive or da una or da un’altra corrente ideologica e spesso contraddicendosi. La idea della libertà aveva portato anche lo stesso Liberalismo alla concezione di un ordine per impedire gli eccessi della stessa libertà e per garantire il funzionamento nella vita sociale e anche, specialmente nel periodo giolittiano, per consentire che, nell’ambito dello Stato liberale, potesse favorirsi lo stesso sviluppo sociale129.

Queste riserve avvicinarono Martini alla reazione antipositivistica della cultura di inizio secolo, anch’essa critica rispetto alle «ideologie del liberalismo agnostico», e lo resero inizialmente sensibile alla rivalutazione del fattore religioso all’interno della filosofia idealistica. In un suo scritto – non datato ma attribuibile agli anni del fascismo – dal titolo Il rinnovamento spiritualista

nella cultura sociale, nel Risorgimento e nel nazionalismo, Martini avrebbe rimarcato i punti di contatto tra il percorso della generazione cattolica poi approdata al popolarismo e il vario «spiritualismo» della cultura laica, che in età giolittiana aveva iniziato a superare l’equazione negativa tra religione e clericalismo. Per prime le nuove filosofie dello spirito avevano fatto emergere «la sociale necessità della legge morale, liberata dall’atomismo dissolvitore e dall’indifferentismo avvilente», anch’esse differenziandosi dall’individualismo religioso della cultura liberale130. E Martini prendeva atto che ciò le poneva in sintonia con la concezione cattolica per la quale «il problema religioso della società non si limita ad un problema negativo, la libertà di culto, come ha preteso il liberalismo; è qualcosa di più grande e più vasto: è una necessità

128 MAM II, 113. 129 MAM II, 114.

130 MAM, II, 55: il problema religioso della società non si limita ad un problema negativo, la libertà di culto, come ha

preteso il liberalismo; è qualcosa di più grande e più vasto: è una necessità sociale. L’umanità è credente nella sua specifica essenza…».

76 sociale»131. Passava così a interpretare positivamente l’influenza che aveva avuto sulla formazione dei cattolici la stessa componente religiosa del nazionalismo, accomunandole nella ricerca di «qualche cosa che risollevi dalla morta e fetida gora del materialismo e dell’indifferenza, riconducendo l’individuo a sentire spiritualmente la nazione, a sentirsene organo»132. In questo suo

excursus Martini ammetteva infine la personale convergenza con la filosofia gentiliana delle origini, che diversamente da Croce avrebbe teorizzato «la inseparabilità del sentire religioso dalla società politica», permettendo di superare «la vecchia laicità negativa dei rinunciatari e degli impotenti che presume di sfuggire al pericolo clericale e di spuntare dalla radice la forza di cui la Chiesa si armava contro lo Stato e il pensiero moderno»133. Anche l’assenza politica dei cattolici fino al PPI avrebbe in qualche misura allargato le possibilità di identificazione «religiosa» dei cattolici in questo genere di filosofie laiche, che pretendevano abilmente di muoversi «nello stesso campo del cattolicismo che è capito (anche da chi non crede) come il più alto ed universale interprete della religiosità». Ciò spiegava la larghezza dei consensi da esse conquistati e la suggestione mantenuta tra i cattolici da forme di pensiero come quella di Gentile anche dopo la comparsa postbellica del popolarismo:

Ad una èlite intellettuale avanti guerra, a molti in guerra e dopo, particolarmente a coloro che sentivano prepotente la necessità dello spirito, senza voler o saper attingere la legge della dottrina sociale cattolica, per pregiudizi o incomprensioni, non meno che ad alcuni cattolici che non sapendo restare sulla verità che era in loro han creduto supplirvi colla verità predicata dagli altri in nome dello spirito, quelle dottrine sono apparse come il vero ritorno dell’indirizzo spiritualistico nelle cose sociali134.

Determinante per mantenerlo estraneo da questa corrente fu l’incontro di Martini con Toniolo a Firenze agli inizi del secolo, che lo spinse a iscriversi alla facoltà di giurisprudenza dell’ateneo pisano dove l’economista padovano insegnava. Del suo maestro Martini tracciò durante il fascismo un ricordo che richiamava la matrice guelfa e non intransigente del suo pensiero, sottolineando l’apprezzamento espresso anche in campo liberale nei suoi confronti da un protagonista della scuola economica lombardo-veneta come Luigi Luzzatti:

Toniolo fu anche apostolo nel senso di un’aperta e alta propaganda delle sue convinzioni sulla civiltà cristiana. Non sarebbe stato un politico. Ma quell’apostolato conseguì fino all’ultima ora della sua vita. Solamente avversari furiosi e settari videro o mostrarono di vedere in lui “un prete” e per di più “un prete pericoloso per la sua patria” – tanto che ci fu chi nella reazione del 1898 tentò anche di metterlo in combutta coi “sovversivi”. Ma chiunque, anche avversario, fu sereno ed onesto, nutrì sempre per lui, anche nei dissensi, la massima stima. Ricordo che Luigi Luzzatti si domandava una volta perché Toniolo non fosse ancora senatore. La stessa forma stilistica del suo insegnamento e dei

131 «La libertà è la libertà di svilupparsi e fortificarsi al bene, non la libertà dell’indifferenza e del male, è un dovere

prima che un diritto, o meglio, è il diritto di esercitare il dovere»: ibidem.

132 «In questa ricerca dei valori spirituali, le nuove dottrine si sono venute naturalmente ad incontrarsi nella Religione,

valore spiritualissimo, e con alcuni scrittori, non con tutti, nella Chiesa cattolica come espressione e strumento di quel valore»: ibidem.

133 «Il pensiero non può esistere a nessun patto senza assumere un atteggiamento religioso: prescindere da questo è lo

stesso che proporsi di fare a meno del pensiero e soffocare quella vita in cui lo Stato deve pur realizzarsi»: ibidem.

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suoi scritti denotavano il fervore delle sue convinzioni e del suo spirito apostolico, che ricordavano, come egli stesso lo ricordò, la magniloquenza giobertiana del Primato135.

Sempre a Pisa Martini si avvicinò al Circolo universitario cattolico, assumendo responsabilità nell’associazionismo con la presidenza della FUCI dal 1905 al 1907 e la fondazione della rivista «Studium» nel 1906. Da discepolo di Toniolo fece parte del movimento democratico cristiano, nel quale riuscì a convertire la sua aspirazione di rinnovamento religioso in una «idea della solidarietà contro e sopra la lotta economica fra le classi e [nella] idea della spiritualizzazione del lavoro contro i bassi istinti della materialità». Di quella corrente affrontò anche la crisi per la «prevalenza di un indirizzo conservatore e moderato politicamente» dalle elezioni del 1904, dissentendo dalla «linea della Chiesa di non compromettersi dalla formazione di un partito cattolico» dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi136.

Eletto deputato del PPI nel 1919, Martini ricoprì il ruolo di segretario provinciale del partito a Firenze, distinguendosi come organizzatore delle lotte mezzadrili in Toscana e relatore sulla politica agraria al II Congresso del PPI. Nel 1920 entrò a far parte del comitato di redazione della rivista «La Politica Nazionale», fondata nel 1916 da Micheli come tribuna di opinione dell’area dei cattolici deputati, che nella nuova serie «popolare» funse da saldatura con la cultura democratico- cristiana grazie alla cooptazione di dirigenti cattolici – Fuschini e Donati su tutti – inizialmente critici sulla confluenza nel partito sturziano. Come Donati anche Martini superò qui definitivamente l’atteggiamento contestativo del murrismo verso le istituzioni liberali, ponendosi in difesa della libertà nello scontro in atto tra fascismo e popolarismo. Al termine della sua parabola la rivista riuscì a completare la transizione dei vecchi «democratici e cristiani» su una linea di resistenza liberale contro la tentazione del riflusso nella «trincea dell’azione cattolica»: non casualmente essa preannunciò nel commiato dell’ottobre 1923 la fusione con la conciliatorista «Rassegna Nazionale» nel frattempo avvicinatasi all’antifascismo popolare137.

Dopo il Congresso del giugno 1925 Martini prese atto del fallimento aventiniano e anticipò l’esigenza di un ripiegamento del partito sul terreno della cultura politica, come unica garanzia di continuità dopo la sua estromissione dalla legalità. Con questo intendimento fece coincidere la fine del popolarismo con la ripresa di una intensa per quanto non sistematica attività di ripensamento storiografico, parallelamente alla frequentazione dei circoli cattolici ancora disposti a ritagliare spiragli di sopravvivenza alla tradizione popolare.

L’importanza di questo itinerario di ricerca non può essere sminuita dalla sua potenzialità necessariamente limitata di circolazione dopo il 1925: anche Martini avrebbe infatti contribuito non

135 MAM, II, 126. 136 MAM, II. 130.

78 secondariamente alla «sommersione» dalla politica alla cultura storica degli ideali di cattolicesimo democratico che avevano animato la generazione del popolarismo. E – come per altri antifascisti popolari – il «lavoro compiuto nel segreto»138 negli interstizi della professione forense non poteva non sfociare in una ricapitolazione autobiografica forzatamente indotta dalla perdita di orizzonte politico sotto il fascismo, che divenne poi indispensabile patrimonio di ricostruzione dopo il fascismo. Il caso non isolato di Martini mantenne – tuttavia – caratteri di originalità rispetto ai contributi storici di Giordani e Galati maturati nel solco dell’intransigenza sturziana, da cui Martini rimase complessivamente estraneo in virtù del retroterra conciliatorista della sua formazione. In questo senso l’approfondimento della tradizione di libertà del cattolicesimo italiano non rimase in lui condizionato dall’incombenza delle ultime battaglie di opinione del popolarismo, pur scaturendo anch’esso implicitamente da esigenze di legittimazione «ideologica» del suo antifascismo cattolico e liberale.

Come orizzonte temporale le ricerche di Martini si orientarono quasi esclusivamente a ripercorrere le tappe del movimento intellettuale e politico dei cattolici dagli albori risorgimentali fino alla contemporaneità del fascismo. Tale interesse conferiva inevitabilmente ai suoi studi un intento di attualizzazione rispetto a tradizioni e figure potenzialmente fungibili alla scelta di opposizione del popolarismo, per sottrarle – in molti casi – ai tentativi di riassorbimento operati nei loro confronti dalla cultura fascista. In quegli anni la preoccupazione più evidente di Martini divenne quindi la ricostruzione di una continuità sotterranea – ideale se non direttamente politica – del movimento democratico dei cattolici sconfitto ma non interrotto dalla dittatura, secondo quanto si sarebbe poi preoccupato di testimoniare nel programma della DC fiorentina da lui redatto nel 1945:

La Democrazia Cristiana, costituita nel secolo decorso e da allora affermatasi nell’azione economico sociale, divenuta poi parte attiva di avanguardia nei successivi movimenti politici ad ispirazione cristiana, ha mantenuta viva la sua fede durante il luogo periodo di oppressione facendo anch’essa il cammino faticoso e doloroso di questi durissimi anni139.

L’ampiezza della produzione di Martini rappresenta per altro verso una delle espressioni più consistenti di quel realismo storico della «prima generazione» frequentemente associato dalla storiografia alla «sociologia storicista» di Sturzo. Tale sensibilità riannodava il popolarismo alla formazione della «scuola cattolico liberale» del primo Ottocento, che aveva saputo efficacemente concretizzare in «premessa di orientamenti politici» la sua interpretazione della storia d’Italia e della funzione in essa assunta dai cattolici e dalla Chiesa. Richiamandosi agli insegnamenti dei suoi alfieri Balbo e Manzoni, le stesse indagini storiografiche di Martini aspiravano significativamente a

138 M.A. Martini, La missione sociale e politica della Democrazia Cristiana, SELI, Roma s.d. [1945], p. 5. 139 Ibidem.

79 mantenersi «sopra un terreno che corrisponde particolarmente alla vocazione pratica e che può e deve essere aiutato dalla conoscenza di quella realtà che è l’esperienza storica specialmente dell’epoca nel cui ciclo ancora viviamo»140. Per converso le sue annotazioni polemiche dell’epoca riguardavano invece quei cattolici «ancora viziati da un eccesso di astrattismo intellettualistico» e propensi a intravedere senza basi storiche nel fascismo un movimento di restaurazione premoderna. Al «culto della medievalità» di costoro opponeva la validità di «un consiglio che il Balbo dava a chi voleva scrivere o comunque occuparsi di pubbliche faccende, che soprattutto ed almeno questi avesse a conoscere la storia […] non solamente la cronaca»141:

Anche il movimento dei cattolici che sotto diversi aspetti e forme in più riprese hanno dato forma ad un loro pensiero e ad una loro attività nella vita pubblica dell’Italia moderna ha ormai una storia. […] Si sente della gente che curiosamente parla di Sacro Romano Impero e di Repubblichette medievali come di realtà che possono tout court con poche variazioni ritornare, quasichè le costruzioni secolari avvenute da allora in poi fossero sorpassabili [a causa di] quell’eccessivo culto [della] medievalità che vari scrittori cattolici di cose sociali e politiche hanno avuto sì caro e che ha inspirato a loro anche certe eccessive simpatie per la concezione così detta «organica» dello Stato142.

In questi scritti clandestini Martini tentava dunque di ripresentare il radicamento storico- politico del cattolicesimo in funzione di una prospettiva di restaurazione democratica che la secolarizzazione contemporanea gli faceva avvertire ancora indeclinabile, rendendogli al contrario antistorica ogni aspettativa di «cattolicizzazione» del fascismo. Con questi presupposti i suoi studi storici si proposero crocianamente di indagare «ciò che è morto e ciò che è vivo nelle esperienze dei cattolici italiani»143, alla ricerca di una linea di cattolicesimo «nazionale» senza complessi d’inferiorità con l’ortodossia liberale. Nel suo schema sui Princìpi sociali di un cattolico del 1926, il criterio sturziano di relatività delle forme sociali portava Martini a denunciare la necessità di «conoscere la società ‘come è’ e non solo ‘come deve essere’»: sulla scorta della sua relazione congressuale dell’anno precedente, prendeva così le distanze dalle strozzature dello Stato liberale ma anche dalle tentazioni di «astrattismo in una teoria di diritto costituzionale» che intendesse unilateralmente superarlo:

Il fallimento dell’agnosticismo liberale in relazione ai fatti della dinamica sociale e l’ingiustizia dell’assolutismo statale. Il concetto cristiano della libertà, base indispensabile della soluzione dello Stato moderno [qui riportare relazione Congresso 1925 sulla Costituzione politica]144.

Il programma «storiografico» di Martini rimaneva quella di retrodatare ab origine – ossia prima ancora dell’antifascismo del PPI – l’intestazione cattolica dei valori di libertà contro l’illegittima pretesa di esclusività del liberalismo nei loro confronti. Questo suo riferimento al

140 MAM, II, 54 141 MAM, 115 142 MAM, II, 116 143 MAM, II, 116. 144 MAM II, 110.

80 cristianesimo presupponeva qualcosa di diverso dalla riconquista di una civiltà moderna nata fuori e contro la Chiesa, ma decaduta per il rifiuto della sua animazione religiosa: la preoccupazione di Martini era infatti quella di relativizzare in assoluto la frattura tra cattolicesimo e modernità, per comprovare – al contempo – le origini evangeliche delle libertà come prova del primato di civiltà storicamente detenuto dal cristianesimo:

I primi fondamenti della Democrazia contemporanea appariscono solo col Cristianesimo: libertà dell’uomo nel senso attuale della parola e eguaglianza di natura. Essenziale il concetto di fraternità per il concetto di eguaglianza perché se questa non si fonda in un concetto morale non trova riscontro nella realtà. Quindi bene il Bergson: la democrazia moderna è per essenza evangelica ed ha l’amore per motore145.