4. L’antifascismo cattolico e liberale nella «lunga vigilia»
4.1 L’«esilio interiore»
Il 14 dicembre 1925 l’ultima seduta del Consiglio Nazionale del PPI approvò l’ordine del giorno che certificava l’impraticabilità dell’opposizione legale, preparandosi ad adeguare l’esistenza del partito allo stato di limitazione creato dal fascismo. Di fronte alla pressione liberticida del regime si deliberava una strategia di adattamento non compromissorio che impegnasse i popolari a «dedicare la loro maggiore attività a iniziative di cultura, studio e pensiero, che valgano ad alimentare negli aderenti gli ideali della cristiana democrazia»1. La dichiarazione non intendeva prefigurare lo scioglimento di protesta del partito, ma anticipare – in questo modo – una «uscita di sicurezza» di tipo essenzialmente culturale, proteggendo il patrimonio di una classe dirigente che aveva saputo conquistare il senso dell’autonomia politica e dei modelli democratici già all’interno delle strutture di associazionismo cattolico durante il pontificato di Pio X. Durante quel tirocinio gran parte dei popolari antifascisti aveva rapidamente incontrato la politica «in una visione di continuità nella distinzione» con l’ancoraggio ecclesiale e sociale del movimento cattolico: «la loro “politicizzazione” era stata insomma frutto di un processo tormentato ma per lo più profondamente interiorizzato, nel quale l’associazionismo era stato uno snodo non esclusivo ma certamente decisivo»2. Si trattava dunque di una generazione di cattolici abituata a difendere il suo ruolo di classe politica indipendentemente da una investitura di legittimazione della Chiesa, pur guardata come riferimento di ispirazione cristiana della politica e dello stesso antifascismo3.
Questo percorso la portava a considerare la conclusione del popolarismo come temporaneo riflusso e non estinzione della sua identità democratica, anche se vissuta in contraddizione con l’orizzonte ecclesiale dell’epoca. Da qui anche le ragioni di un estremo mandato di opposizione più culturale che politica, che consentisse di impedire fratture evidenti con la consegna di «apoliticità»
1 G. Spataro, I democratici cristiani, cit., p. 157.
2 G. Formigoni, L’associazionismo cattolico e la formazione della classe politica in Italia, in La formazione della classe politica in Europa, a cura di G. Orsina e G. Quagliariello, Lacaita, Manduria-Roma 2000, p. 275
3 «La passione fascista venne, negli ambienti cattolici, attutita per vent’anni dalla solidarietà antifascista generata dalla
coscienza religiosa, la quale, come comportava una comune istanza di libertà, comportava una condanna della dittatura. Pareva che un cattolico, il quale non avesse respinto l’oppressione politica, ripudiasse l’essenza della sua religione, la quale è la religione della libertà dei figli di Dio: della Redenzione, che è il recupero della libertà contro le tirannie del male. E male è anche la dispotia politica, la quale si sovrappone alle coscienze e invade l’autonomia spirituale e sopprime quei diritti della persona umana che sono le libertà di parola, di stampa, di associazione… La storia del cristianesimo mostrava ai cattolici vessati che la meraviglia non stava nella persecuzione dei tiranni contro la Chiesa, ma nella tolleranza di essi verso la Chiesa»: I. Giordani, Alcide De Gasperi, cit., p. 122.
157 delle gerarchie ma insieme di preservare in riserva il filone di cattolicesimo democratico nell’interesse futuro della Chiesa. Certamente la ricerca di nuove forme di organizzazione non contemplava l’ufficializzazione di un rientro nell’alveo dell’Azione Cattolica, se non come rinnegamento della laicità dei cattolici consolidata dal popolarismo. Nel Consiglio Nazionale del 28 e 29 novembre 1925 ritenne sconsigliabile questa soluzione l’ex ministro giolittiano Guido Rodinò, riconoscendo legittimo «che la Chiesa possa ritenere migliore una certa strada, per i suoi interessi superiori: ma questo non ci dispensa dal continuare nel cammino che a noi pare migliore»4. Altrettanto ristretti furono giudicati fin da subito i margini di qualsiasi politica di adattamento nei confronti del regime inteso come puro avvicendamento di governo e non – secondo le dichiarazioni rese in quella riunione da Martini – «distruttore della democrazia d’ieri, liberale»5. Il dato di fondo era che la svolta totalitaria del 1925 aveva definitivamente liquidato insieme al regime costituzionale anche la condizione di esistenza del popolarismo, ciò che imponeva di legare la testimonianza dell’«idea» sturziana alla restaurazione del «metodo della libertà» prima di ogni altro riferimento politico-religioso:
Oggi sembra che costituiamo un peso. Ci sono fenomeni di viltà. Se ci sono uomini di fede e di coraggio rimaniamo al nostro posto. […] questo fascismo non à distrutto il liberalismo e il socialismo, ma il metodo della libertà. Oggi vogliamo ripudiare il metodo della libertà. La libertà tornerà. Allora la ns. azione sarà di difesa della Chiesa e per gli interessi superiori6.
La scelta dell’antifascismo come luogo di fedeltà interiore e prosecuzione della politica con mezzi culturali risuonava nel settembre 1926 anche in un documento trasmesso dallo sturziano Rufo Ruffo della Scaletta a Giovanni Battista Migliori, dirigente milanese della «pentarchia» a cui rimase conferito il coordinamento nazionale fino allo scioglimento del partito. Vi si indicava espressamente la proposta di trasformare la rete di organizzazione in una «associazione di cultura politica» che rendesse possibile rimarcare la distinzione con l’azione religiosa e «mantenerci in forza sufficiente ed immuni da ogni compromissione per il giorno lontano ma immancabile della ripresa»
Il PPI dovrebbe, secondo me, funzionare quasi indipendentemente dagli avvenimenti e dalle contingenze della politica italiana, occupandosi solo di teorie politiche. Dovrebbe ridursi ad una associazione politica di cultura o meglio ad una associazione di cultura politica. Dovrebbe promuovere conversazioni in ritrovi privati, discussioni libere in regime assoluto. Dovrebbe tenere affezionati gli amici, senza troppi vincoli di compromissione, dovrebbe diffondere libri ed opuscoli, tenere corrispondenze private. Non mai compromettersi con l’attuale regime. Arrivare fino ad ignorarlo in teoria mentre le singole persone debbono adattarsi a subirlo nella pratica. Fare quel che hanno fatto i cattolici italiani con Pio IX e con Leone XIII, ma con l’esperienza del passato. Dimenticare per ora e per molto tempo ancora la raccomandazione, la risposta del ministro, la Croce di Cavaliere, il codazzo degli elettori alla porta,
4 A. Canavero, L’esperienza del partito Popolare (1918-1926), cit., p. 405. 5 Ivi, p. 404.
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dimenticare l’interrogazione in Parlamento per il campanile della parrocchia. Siamo in periodo di regime assoluto, i partiti non hanno campo di azione politica, non possono che prepararsi per l’avvenire7.
Da queste indicazioni generali Ruffo derivava una serie di corollari pratici per la continuità di un popolarismo di opposizione, affidata a meccanismi di coordinamento informale e a legami comunitari come la diffusione di iniziative culturali e materiali di studio:
1) Inutili i convegni grandi e clamorosi con le solite discussioni sul momento politico e il dovere del PPI. Non è per la politica contingente che il PPI o l’associazione di cultura politica democratico-cristiana deve vivere ed agire. Opportunissime invece le conferenze su argomenti speciali o anche generali ma molto dall’alto.
2) Penetrazione nell’azione cattolica, ma senza clamore. L’azione cattolica è in piena decadenza perché i migliori elementi si sono dedicati al PPI. Riducendo al minimo anzi allo zero l’azione dei membri del PPI nella politica contingente, il pericolo della loro collaborazione nell’azione cattolica verrà a poco a poco a cessare, e questa riavrà i suoi migliori elementi e potrà di nuovo prosperare pur tenendosi sempre ben distinta dal partito o associazione per la cultura politica.
3) Organizzazione e tesseramento. Poche tessere e molte amici. Dove è possibile mantenere le sezioni, lasciarle in vita come circoli di cultura; comunicazione diretta fra le sezioni e la direzione; mantenere un segretario provinciale qua e là solo eccezionalmente dove effettivamente l’antica organizzazione provinciale abbia bene funzionato.
4) Ogni socio e ogni dirigente locale dovrà far propaganda pur nelle forme opportune e senza pubblicità eccessiva anzi generalmente con molta prudenza ma con tanta maggiore efficacia, delle teorie democratico-cristiane, dovrà far leggere certi libri, leggerli egli stesso a viva voce nelle piccole riunioni private, diffondere la nostra stampa, tenere corrispondenza personale, insomma mantenere e formare il nucleo sicuro per la ripresa lontana ma immancabile8.
Queste furono le coordinate di sopravvivenza che accompagnarono l’ingresso del popolarismo nella «lunga vigilia» della sua eclissi politica. Da parte degli ex popolari rimasti in Italia, l’atteggiamento di inflessibilità legalitaria condizionò il rifiuto del fascismo in una scelta di «non compromissione» realisticamente fondata sull’anticonformismo dei comportamenti. Mai realmente considerate rimasero le ipotesi di azione cospirativa tramite una organizzazione clandestina interna, così come gli esperimenti di collegamento con il fuoruscitismo popolare di Ferrari e Donati anche per le vicende che impedirono la ricostituzione del partito all’estero nell’emigrazione antifascista. La rete di rapporti periferici consentì di prolungare automaticamente l’esistenza del popolarismo anche dopo lo scioglimento del partito e la decadenza dei mandati parlamentari: «Si può dire che da quel giorno cominciò l’attività clandestina, con il collegamento con gli esponenti degli altri partiti e con la fede assoluta che un giorno sarebbe tornata la libertà»9. Grazie alle sue missioni di collegamento in provincia, Spataro rappresentò l’indispensabile punto di riferimento di quanti non rinunciarono a coltivare in privato le idee politiche del popolarismo, garantendo i contatti sia epistolari che personali con le possibilità di spostamento della sua attività di avvocato. Il suo studio romano di Via Cola di Rienzo rimase dopo la fine dell’Aventino, in cui Spataro era stato segretario generale del Comitato Centrale dei partitici antifascisti, il centro di raccordo clandestino tra i popolari e gli altri esponenti delle opposizioni liberal-democratiche. Non
7 ASILS, Fondo Giuseppe Spataro, Corrispondenza, fasc. «Rufo Ruffo Della Scaletta».
8 Ibidem. Sull’importanza delle vicende degli ex popolari rimasti in patria durante il fascismo, cfr. F. Traniello, La formazione della dirigenza democristiana, in Id., Da Gioberti a Moro, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 227-229.
159 casualmente da allora in poi fu sempre Spataro a curare in rappresentanza degli ex popolari la filiera di contatti con il personale politico prefascista, favorendo un rapporto continuativo con personalità che si sarebbero rivelate indispensabili nella transizione a cominciare da Ivanoe Bonomi10.
La condizione di «esuli in patria» degli ex popolari si tradusse in uno stato di dissociazione permanente dai meccanismi di controllo del regime e di resistenza passiva alla mentalità dominante. Dopo il 1926 quasi tutti i maggiori dirigenti del partito cercarono rifugio nelle attività professionali – specialmente quella forense – in tono forzatamente minore a causa della rinuncia al tesseramento nel Partito Fascista, che rendeva loro impossibile assumere incarichi giudiziari che prevedessero il coinvolgimento delle pubbliche amministrazioni. Questa autoesclusione approfondì ulteriormente il loro divorzio dalla politica come orizzonte esistenziale, permettendogli però di mantenere una intransigenza identitaria che sopravvisse in disparte anche negli «anni di dura oppressione», senza «nessun tentativo comunque di cercare per altre strade un qualsiasi rientro nella vita nazionale o cittadina»11. La possibilità «di attendere silenziosi e inerti il ritorno della luce» non si affermò tra i reduci del popolarismo «neppure come ipotesi», anche quando si dissolse la speranza iniziale di attraversare una eclissi della vita democratica «destinata a durare anni, ma non tanto a lungo come avvenne in realtà»12. Nel vecchio mondo popolare la rinuncia ad una organizzazione strutturata di opposizione non si tradusse in atteggiamenti di rifugio nella passività o di abbandono del presente, ma in una sorta di ritorno alle catacombe pre-politiche della «preparazione nell’astensione» per il tramite «di studi e di contatti discreti tra persone fidate, seguendo giorno per giorno l’andamento della cosa pubblica e l’evoluzione dei sentimenti e delle idee», soprattutto per quei dirigenti cattolici che mantenevano la possibilità di «manipolare per il pubblico materiali di storia e di economia, d’arte e di cultura, per tener vive, nel profondo degli spiriti, le idee maestre della sociologia cristiana»13. Da molti di loro il periodo fascista fu quindi trascorso e vissuto come occasione di formazione intellettuale oltre che di ripensamento autocritico delle vicende del popolarismo, in quello spazio di letture e di contatti con antifascisti di altra estrazione ideologica che rimase anche l’estrema impronta di una incancellabile vocazione politica14.
Una fotografia del popolarismo in Italia durante quegli anni «senza politica» fu la lettera di Spataro da Aix les Bains a Sturzo nel maggio 1934, nella quale si censivano le situazioni personali dei dirigenti ritirati nel privato, nell’immutabilità del regime che imponeva loro «col lavoro di
10 G. Fanello Marcucci, Alle origini della Democrazia Cristiana, Morcelliana, Brescia 1982, p. 17.
11 Un uomo e un’idea. Documentazione della vita politica di Giulio Rodinò, L’Arte Tipografica, Napoli 1956
12 D. Secco Suardo, La pentarchia nella storia del PPI, in AA.VV., Luigi Sturzo nella storia d’Italia, Atti del Convegno
internazionale di studi promosso dall’Assemblea Regionale Siciliana (Palermo-Caltagirone, 26-28 novembre 1971), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973, vol. II, p. 628.
13 I. Giordani, Alcide De Gasperi, cit. p. 122.
14 Cfr. A. Canavero, I cattolici nella società italiana. Dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, La Scuola, Brescia
160 sbarcare il lunario, oggi che per noi la vita è tanto più difficile». Oltre al mantenimento di una diramazione di rapporti periferici, la lettera informava come proprio nel nucleo romano si fosse a quel punto già consolidata la «dittatura morale» di De Gasperi sul gruppo degli ex popolari:
Egli è sempre il suo degno luogotenente, per dottrina, e per bontà. E a lui andiamo per sfogarci, per protestare, per lamentarci. Ed egli deve pure… confortarci. Perché a me per esempio succede così – che faccio agli altri iniezioni di conforto, agli altri dò spiegazioni di fatti e di atteggiamenti – e poi a mia volta vado a sfogarmi con Alcide. Perché io ricevo sempre, (in verità durante l'anno santo sono state troppe) le visite degli amici della provincia ansiosi di notizie, bisognosi di conforto, desiderosi di ravvivare le speranze e io adempio a questo compito, che mi pare ancora un incarico da Lei affidatomi, di confortare, di calmare, di incitare gli amici, i quali tutti, prima di ogni altra cosa, mi domandano di Lei, con venerazione, affetto, riconoscenza che il tempo e la lontananza non ànno attutito15.
Insieme alle missioni di Spataro rimasero preziose le occasioni di ritrovo durante gli incontri in residenze private, come le frequentazioni domestiche dell’abitazione a Roma di Umberto Tupini, «dove i riscontri delle vicende del passato giocavano, per forza di cose, un ruolo preminente soprattutto nei primi anni del fascismo»16. Tale contegno riservato venne interrotto soltanto dalla frequentazione di alcuni centri associativi e di aggregazione, sempre orientati nel senso di una vocazione storico-culturale anche se dissimulati per ragioni di sicurezza nelle loro autentiche finalità. In questo quadro il caso più rilevante fu quello della Società Pro Cultura di Milano, pensata per ravvivare gli ideali del popolarismo con «dotte conferenze» come quelle storiche di Jacini17, di cui Migliori ha testimoniato l’iniziativa della fondazione per arrestare il transito di deputati popolari al fascismo attraverso i movimenti dei cattolici fiancheggiatori di Cavazzoni e Cornaggia. Nel mosaico delle storie locali la situazione milanese presentava l’indubbia specificità di radicamento della tradizione conciliatorista sia per la presenza di cattolici bonomelliani che per l’eredità magisteriale del Cardinal Ferrari, che fungeva ancora da ponte tra conservatorismo liberale e cattolicesimo democratico e consentiva di riagganciare dopo il 1925 anche un personaggio come Gallarati Scotti:
se nel corso della ventennale mortificazione i vecchi popolari poterono mantenere effettivi contatti ed esercitare azione di chiarificazione ed anche di richiamo verso i giovani, ciò si deve in grande parte alle organizzazioni di azione cattolica ed alla perseverante Pro Cultura; le quali, sotto la veste loro propria e con intelligente equilibrio, costituirono vere zone franche, dove poterono ritirarsi e parlare quanti dei nostri non avrebbero avuto aperto altro valico, accogliente altra tribuna. Né si trattava di agire di contrabbando, perché, in verità, ogni volta che si commentava un documento pontificio, si illustrava una pagina di storia della Chiesa, si teneva una settimana di studio sui problemi dell’individuo o della società, spontaneamente, direi necessariamente, ci si attestava a presupposti di libertà18.
La testimonianza dell’ultimo «pentarca» e segretario provinciale del PPI a Bergamo, Dino Secco Suardo, conferma che dopo il 1925 «in tutt’Italia la resistenza del popolarismo, che non appariva semplice fiorire di episodi sporadici, e presentava fisionomia di fenomeno profondo, e
15 L. Sturzo, Scritti inediti, cit., vol. II, p. 368, Spataro a Sturzo, maggio 1934. 16 F. Boiardi, Giorgio Tupini, in AA.VV., Il Parlamento Italiano (1861-1988),
17 Di queste conferenze si trova traccia anche sulla stampa cattolica milanese: cfr. Conferenze alla «Pro Cultura». Le «Conversazioni Goethiane» del conte Jacini, in «L'Italia» , 04/02/1932.
161 collettivo, rese ancor più cordiali i rapporti tra popolari sturziani […] e partiti laici antifascisti, che già attraverso l’esperienza dell’Aventino, si erano radicalmente trasformati»19. Questo riavvicinamento si tradusse in uno scongelamento dell’anticlericalismo nei superstiti rappresentanti dell’intendenza liberale, che iniziarono a vedere assai precocemente nei popolari «dei combattenti con i quali valeva la pena di combattere». Come testimonia proprio il caso di Bergamo ricordato da Secco Suardo, diversamente della Pro Cultura milanese si trattò quasi ovunque di una riaggregazione ispirata da «esistenziale irrazionalità istintiva» piuttosto che da una spiccata consapevolezza politico-culturale, ma questa esperienza di contatto proprio «in Provincia, ove pure gli odi resistono più tenaci e son duri da morire, rimase come una rivelazione acquisita per sempre»:
In altri termini, il popolarismo, perduta la libertà di manifestarsi, si presentò, come gli icebergs polari, con un esterno emergente in superficie, e non privo di qualche segno di decadenza, ma saldamente sostenuto da una massa invisibile di ben altra mole, e, in definitiva, incrollabile20.
Di questo giudizio rappresenta testimonianza ancora più significativa la testimonianza di libertà di un popolare intellettualmente estraneo al retaggio cattolico-liberale come Attilio Piccioni, uscito dall’esperienza della sinistra popolare come segretario cittadino del PPI nella Torino di Gobetti, con il quale condivise una profonda amicizia ( ) collaborando anche a «La Rivoluzione Liberale» con interventi di spessore politico dedicati all’opposizione antifascista del popolarismo21. Già allora Piccioni era stato tra i primi ad accentuare la sfiducia nella «normalizzazione» e a registrare l’allineamento filofascista della zona di «opinione pubblica grigia» come fattore che inibiva ogni prospettiva di opposizione legalitaria a scadenza ravvicinata:
lo stato d'animo antifascista di quella che io credo la maggioranza del corpo elettorale è, nei più, uno stato d'animo superficiale, all'acqua di rose, privo di energia combattiva; stato d'animo tutto italiano arriverebbe allo sforzo non eroico di esprimersi nella scheda contraria al fascismo, ma purché non costi seccature, noie o guai di qualsiasi genere che appena si profili qualcosa di questo genere lo stato d'animo può magari rimanere, ma la scheda cambia, così nelle campagne, così in gran parte della borghesia cittadina22.
Nel 1925 Piccioni si trasferì a Pistoia non lontano dal fratello Giovanni Vescovo di Livorno, per trascorrervi l’intermezzo fascista di esilio interno fino al 1939. Qui animò attivamente le iniziative associative della Parrocchia di S. Filippo, frequentando come socio la sezione degli Uomini Cattolici, il Gruppo di Cultura e la direzione del settimanale diocesano «La Vita», a cui collaborò clandestinamente sotto lo pseudonimo di «Apis» per eludere la sorveglianza poliziesca. Contemporaneamente a questa non esposta militanza nelle organizzazioni cattoliche, gli anni del fascismo lo videro impegnato da «polemico intellettuale» in un percorso di acculturazione che
19 D. Secco Suardo, La pentarchia nella storia del PPI, cit., p. 631. 20 Ivi, p. 634.
21 Su Piccioni popolare cfr. G. Fanello Marcucci, Attilio Piccioni e la sinistra popolare, Edizioni Cinque Lune, Roma
1977.
162 mantenne come punto di riferimento «La Critica» di Croce, di cui rimase fedele lettore grazie alla frequentazione del Gabinetto Vieusseux di Firenze. L’inserimento di Piccioni in questa oasi di resistenza religiosa e culturale fu accompagnato da atteggiamenti di non conformismo che lo resero nuovamente sospetto dopo i non dimenticati trascorsi nel «giro largo» dell’antifascismo torinese. Come documenta la testimonianza del canonico diocesano dell’epoca mons. Carlo Migliorati,