1.3 Teodicea
1.3.3 Dostoevskij
Bisogna, infatti, aggiungere un ultimo tassello al quadro delle frequentazioni morantiane. Anche sul rapporto tra Fëdor Dostoevskij ed Elsa Morante il materiale bibliografico si rivela piuttosto consistente. Come osserva Zanardo, a proposito della Storia, fin dalle prime recensioni il suo nome appare spessissimo, dando vita a una «querelle tra coloro che segnalavano come palpabile la presenza dostoevskiana […] e coloro che al contrario ritenevano frettoloso, superficiale, o addirittura improprio il parallelo»65. Tra le voci più autorevoli che se ne sono occupate, vanno segnalati in particolare i contributi di Natalia Ginzburg e Ferdinando Camon66. In ogni caso, la grande ammirazione di Morante per il romanziere russo trova conferma nei carteggi della stessa e nelle testimonianze degli amici, come quella di Luca Coppola: «Di Dostoevskij, come ti ho detto, rileggeva ogni anno I fratelli Karamazov, poi l’ordine era questo: L’Idiota, I Demoni, Delitto e Castigo»67.
Anche qui, il proposito non è quello di illuminare ulteriormente il rapporto tra i due scrittori, bensì quello di raccogliere quegli elementi che ruotano attorno a uno stesso nucleo di concetti.
Infatti, il nostro discorso ha Giobbe per protagonista. La sua esperienza innesca nel pensiero dello scrittore considerazioni di ordine metafisico e diviene simbolo universale dell’umanità sofferente. Nei suoi romanzi, poi, il sofferente è spesso incarnato dai bambini.68 Ed è soprattutto rispetto all’assurdità e all’ingiustificabilità della loro sofferenza che la temperatura del discorso sale parecchio: si ricorderà, a tal proposito, la posizione ateistica di Ivan Karamazov, che egli sostiene proprio in forza di questa argomentazione, e da cui «deduce l’assurdità di tutta la realtà storica»69. In tal modo, puntualizza Dostoevskij, egli non nega tanto Dio quanto, piuttosto, il senso della sua creazione.
65ZANARDO 2012, pp. 227-228.
66 Cfr. Natalia GINZBURG, I personaggi di Elsa, «Corriere della sera», 21 lug. 1974 e Ferdinando CAMON, Il grande male, in SCHIFANO – NOTARBARTOLO 1993.
Mi sembra che la base ideologica per la costruzione del personaggio Useppe prenda le mosse proprio da brani come questo, confluiti insieme alle riflessioni weiliane. L’impressione è confermata del resto, da Zanardo, che rileva le affinità di un passo del sesto libro dei Karamazov sulla lietezza come adempimento al comandamento di Dio sulla terra e propria dei giusti e dei martiri con il protagonista della Storia; e collega, inoltre, il particolare degli occhi miti dei vitelli mandati al macello con quello della prima visita alla stazione Tiburtina70:
[…] anche Giuseppe lo andava osservando. E forse fra gli occhi del bambino e quelli della bestia si svolse un qualche scambio inopinato, sotterraneo e impercettibile. […] Una specie di tristezza o di sospetto lo attraversò, come se una piccola tenda buia gli calasse davanti (LS: 125).
Qualche anno avanti, nello stesso luogo e in una situazione analoga ma replicata in un climax crescente, perché i vagoni del treno, questa volta, sono carichi di ebrei in partenza per i lager, Ida noterà nel piccolo «uno sguardo indescrivibile di orrore»; al richiamo della madre egli si volta e, pur senza interrogarla, conserva in quello sguardo uno «stupore attonito […] che non domandava nessuna spiegazione» (LS: 247). Infine, davanti a un cartoccio di giornale, raffigurante uno degli esperimenti condotti su un deportato finito tra le mani del figlio, Ida riconoscerà «nelle pupille lo stesso orrore che gli aveva visto in quel mezzogiorno alla stazione tiburtina, circa venti mesi innanzi» (LS: 373).
Va ricordato, peraltro, che anche in Menzogna e sortilegio la stazione ferroviaria, insieme alla campagna circostante, è associata a sensazioni negative provate dalla piccola Elisa: in quel caso – che si tratti o meno di prescienza, come nella Storia, comune ai «piccoli» e agli animali – la pianura sarà il luogo deputato alla morte del padre.
La reazione di stupore viene riproposta ogni qual volta il piccolo si trova di fronte alla constatazione di un evento funesto, creando così un effetto iterativo esasperante, soprattutto perché ogni episodio – la morte del gattino di Rossella, le foto esposte in edicola, la storia della lepre, la morte del vecchio71 – presenta uno stesso schema, che dalla mancata richiesta di spiegazioni conduce alla chiusura in un silenzio che ne disperde le tracce. Esse troveranno sfogo nella malattia di Useppe, che raccoglie tutti
70 ZANARDO 2012, p. 234.
quei mali singoli nella manifestazione della patologia in cui egli si fa, suo malgrado, carico di un unico, grande male.
Si fa largo molto presto nel romanzo, già all’altezza delle crisi di Ida bambina, l’idea che la sventura toccata in sorte all’epilettico sia, come vuole la cultura popolare, una prova immane e senza colpa, ricaduta su un’anima isolata che esorcizzi la tragedia collettiva; che funga, in questo senso, da capro espiatorio.
L’antica cultura popolare […] segnava di uno stigma religioso certi mali indecifrabili, attribuendone le crisi ricorrenti all’invasione di spiriti sacri, oppure inferiori, che in questo caso si potevano esorcizzare solo con recitazioni rituali nelle chiese. Lo spirito invasore, che sceglieva più spesso le donne, poteva trasmettere anche poteri insoliti, come il dono di curare i mali o quello profetico (LS: 29).
L’unico segno di ribellione che il piccolo Useppe mostra è narrato nel tentativo di effrazione del criceto in gabbia presso lo studio del professor Marchionni e il rifiuto di sottoporsi all’elettroencefalogramma (LS: pp. 502-503).
Ma torniamo, per un momento a Giobbe, il trait d’union di tutti gli elementi del nostro discorso. Dostoevskij era ossessionato dalla sua figura, e in più di una lettera dà testimonianza di questa sua passione; in una di queste, egli racconta di aver letto il libro passeggiando per tutto il pomeriggio senza essersene mai staccato72. Nel Libro di Giobbe egli trova, evidentemente, l’occasione per interrogarsi radicalmente sul male, cioè senza mezze misure, senza la pretesa di riassorbirlo in un Aufhebung che ne ricomponga il senso né, d’altro canto, per una catabasi fine a se stessa.
La «sofferenza inutile» è, come dice Dostoevskij, la sofferenza invendicata, quella cioè che non può essere assorbita da un ordine che la trascende, la sofferenza del bambino che soffre senza capire, che muore o vede morire il padre deriso. La sofferenza insomma che non si lascia riassorbire all’interno di un progetto pedagogico, ed è la sofferenza che Giobbe mostra a Dio73.
Si capisce, allora, che Giobbe, in forza della sua autenticità, della sua perseveranza nella ricerca della verità sorda a qualunque compromesso, non può che attrarre uno scrittore che – così come vedremo per Weil – intende far saltare la meccanica giustificazionista sviluppatasi intorno alla questione del male. Ci riesce acquistandole profondità proprio dove la risposta sembra, secondo le dottrine ortodosse, più
immediata, vale a dire al cospetto di Dio. Ma il Dio di Dostoevskij, come quello di Giobbe, non dà giustificazione o risposta del male. Dirà Berdjaev, il più importante interprete di Dostoevskij, che «il male è la prova dell’esistenza di Dio. Dio, per D., è piuttosto colui che prende il male su di sé»74.
La lettura che egli segue, infatti, si pone sulla linea cristologica e resurrezionista tracciata da tanti padri della Chiesa75. Giobbe prima e il servo sofferente di Isaia poi sono, nell’ermeneutica neotestamentaria, figure anticipatrici del Cristo, del Dio che, incarnandosi e facendosi carico del peccato, lo sconfigge. All’enorme distanza dell’immaginario giudaico si contrappone la vicinanza di Dio, la profonda compassione per l’uomo che ha per culmine l’identificazione, il farsi come lui.
D’altra parte, la rigida circoscrizione delle aree religiose perde efficacia quando ci si rapporta al Novecento, perché in questo secolo la teodicea fa più fatica a trovare appigli in grado di preservare l’immagine divina canonica, per cui anche uno scrittore ebreo come Wiesel, sopravvissuto alla deportazione nazista, vede, nel bambino appeso alla forca del lager, il volto stesso di Dio76.
Giobbe cristianizzato offre a Dostoevskij la chiave per la risposta alla provocazione di Ivan Karamazov; contenuta, come spiega lo stesso romanziere nell’Epistolario, nel sesto libro del romanzo, Il monaco russo77. L’autore, dubitando che la risposta sia sufficiente, aggiunge che essa non è presentata punto per punto, ma in un’«immagine artistica», cui corrispondono la figura dello starec Zosima e la parafrasi del Libro di Giobbe nel capitolo intitolato della Sacra Scrittura nella vita di padre Zosima.
M’è avvenuto poi di sentire le parole dei derisori e dei bestemmiatori, parole piene d’orgoglio: «Come ha potuto il Signore abbandonare il prediletto tra i Suoi santi in balia del diavolo, togliergli i figli, colpir lui stesso di malattia e di piaghe, al segno che con un coccio doveva nettarsi del marciume delle sue ulcere: e tutto perché? non per altro che per menar vanto di fronte a Satana, come a dire: ecco che cosa può sopportare un Mio santo, per amor di Me!» Ma in questo sta il sublime, che qui siamo in presenza d’un mistero: qui l’effimero individuo terreno e la verità eterna son venuti a interferire insieme78. 74 Ibidem. 75 GHINI 1992, p. 97. 76 WIESEL 1991, pp. 66-67. 77 GHINI 1992, p. 98. 78 FK2013, p. 388.