• Non ci sono risultati.

I conti non tornano

Nel documento Innocenza, colpa, redenzione (pagine 56-60)

1.3 Teodicea

1.3.4 I conti non tornano

Tutto questo ha a che vedere con la teoria della retribuzione. Il Libro di Giobbe non soddisfa completamente, pur mettendola in discussione, l’esigenza di un’integrazione all’insufficienza di quella dottrina. In esso si trovano tutt’al più, degli accenni alla possibilità di un «tempo ulteriore, supplementare, in cui Dio un qualche modo arrivi a ribaltare la bilancia e renda giustizia. È l’ottica che poi si svilupperà pienamente, nella Bibbia ebraica, solo nel Libro di Daniele»79. Dalla necessità di salvaguardare la giustizia di Dio, il discorso sulla felicità viene destinato a un altrove spaziale e temporale. Così nasce l’idea della resurrezione dalla morte nell’aldilà. Ma è un’idea che non trova ancora spazio nel pensiero dell’autore di Giobbe. La modernità del libro risiede forse proprio in questo: l’insensatezza, l’assenza di risposte, inversamente proporzionali all’insistenza delle domande, sfociano nella contemplazione del mistero della creazione; in definitiva, nell’impossibilità stessa di una risposta che possa inquadrarsi in un sistema gnoseologico. Ma ciò non costituisce una battuta d’arresto: il negativo invita qui a generare una più ampia conoscenza di sé e una più compiuta realizzazione del rapporto col divino80.

Nel cristianesimo, lo spostamento di livello rimanda a Gesù e, con lui, all’accettazione che i conti non tornano; per tale ragione si rende necessario l’intervento di qualcuno che si faccia carico della sofferenza per tutti.

A questo punto, torniamo per poco al pensiero weiliano. Weil, come abbiamo accennato, è costretta a confrontarsi con la questione del male e della sua relazione con l’esistenza di Dio. Ella spiega che, nella condizione di malheur, Dio è assente, e in questa assenza non c’è nulla da amare. L’anima sventurata prova interiormente la sensazione di buio e di deserto. Se smette di amare, essa cade in una condizione equivalente all’inferno, perché l’assenza di Dio a quel punto diventa definitiva.

Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, seppure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora un giorno Dio le si mostrerà e le svelerà la bellezza del mondo, come accadde a Giobbe. Ma se l’anima cessa di amare, cade già in questo mondo in qualcosa di quasi equivalente all’inferno81.

Questo salto impossibile, questo «amare a vuoto» è il passo che Giobbe compie verso la salvezza. Ed è lo scarto fondamentale tra lui e Damiano, perché quest’ultimo si rifiuta di compierlo. La sua somiglianza al personaggio biblico, andando avanti, appare sempre più esteriore e sempre più improntata non a una funzione figurale quanto a una parodia grottesca.

Se all’altezza cronologica di Menzogna e sortilegio Morante non aveva ancora avuto alcuna occasione d’incontro con Weil, è certo che l’ebbe a partire dagli anni Sessanta. La lettura, secondo la critica più accreditata, offrì l’occasione non tanto per nuove scoperte, quanto per confermare e approfondire percorsi già intrapresi.

La passione impetuosa e recente di E.M. per la passione folle di Simone Weil per la passione si configura e manifesta come una sorta d’improvviso acceleratore capace di conferire una gran quantità di energia dinamica a un pensiero che, nel frattempo, aveva raggiunto stabilità e articolazione82.

Va, inoltre, notato che il rapporto di Morante con le proprie fonti e con le ascendenze di vario genere è del tutto eclettico, e rifiutando la pedissequa fedeltà al modello di riferimento, è più che altro incline ad estrapolare da quello quanto le torna utile. Ciò sia premessa, valida anche a posteriori, ai raffronti che vengono qui proposti, i quali non hanno la pretesa di svelare verità non ancora scoperte, ma piuttosto l’intento di suggerire alcune riflessioni, sulla base di relazioni intertestuali oramai comprovate e conclamate.

Tornando a Weil, la constatazione che solo Dio può liberare l’uomo dalla propria sventura la induce a spostare l’attenzione sul mistero della Croce, avvicinandosi in tal modo al pensiero cristiano. Anche qui Giobbe allora diviene figura Cristi, e il dolore diviene, come per l’Agamennone di Eschilo, occasione di conoscenza83.

Weil sostiene che la sventura possa accettarsi solo considerandola una distanza. E la distanza massima è stata raggiunta da Dio – «poiché nessun altro avrebbe potuto farlo» – quando si è allontanato da se stesso, nell’atto della Crocifissione84. Allora, sull’esempio di Cristo, il malheur diventa occasione per l’uomo di assumere la propria situazione, pur rinunciando alla possibilità di darle un senso. Farsi carico della propria sventura significa rendere possibile la necessaria spoliazione di sé per annullare la

82 BARDINI 1999, p. 597.

83 DI NICOLA DANESE 2002, pp. 284-291. 84WEIL 2008, p. 177.

distanza tra sé e Dio; significa avviare quel processo di purificazione che sveli la verità dell’uomo, il quale si identifica come creatura.

Esso, infatti, mentre pone l’individuo di fronte ad una sorta di inevitabile frattura nella propria esistenza, contiene in sé una spia della trascendenza. Ciò in quanto, scrive la Weil, gli uomini sono «contraddizione, essendo creature, essendo Dio e infinitamente altri da Dio»85.

La domanda che sorge inevitabilmente, a questo punto, è: in Morante, l’assunto dell’ereditarietà, come processo inevitabile al regolamento dei conti, trova conferma o smentita?

In Menzogna e sortilegio, a giudicare dai passi analizzati emergerebbe una rassegnazione a questa logica, o se non altro la sospensione del problema, che in questa fase viene accettato. Eppure, nella Storia l’autrice sembra voler sfuggire alle maglie stringenti delle colpe dei genitori che ricadono sui figli. La controprova, ancora una volta, è rappresentata dal piccolo Useppe.

Nel giudaismo, più la logica retribuzionistica sperimentata non funziona, più si sposta a un livello ulteriore, sempre più collettivo, e poi ultraterreno, fin quasi a far saltare un meccanismo, che tuttavia non esplode. La retribuzione, in fondo, è l’esigenza di far quadrare le cose a un livello precedente, perché in quello attuale non è possibile; non è che un tentativo di risposta al solito «perché?».

L’esistenza del piccolo Useppe potrebbe costituire, di contro, lo sforzo, da parte dell’autrice, di rispondere alla domanda oltrepassando lo schema dell’ereditarietà, che esiste ma al contempo è messo in crisi. Il precedente più autorevole di tale schema saltato va rintracciato senz’altro nella genealogia di Gesù di Nazaret, così come viene presentata nel Vangelo di Matteo. Nel primo capitolo l’evangelista elenca tutti gli ascendenti del messia, a partire da Abramo, passando dal re Davide, fino ad arrivare a Giuseppe, il padre di Gesù.

Si hanno, dunque, in tutto quattordici generazioni da Abramo a Davide; quattordici da Davide alla deportazione in Babilonia, e quattordici dalla deportazione in Babilonia a Cristo (Mt 1, 17).

In qualcosa di assodato, in un processo filogenetico, con la sua portata di colpe che dai padri ricadono sui figli, qualcosa salta, perché manca l’ultimo anello della catena: Gesù, infatti, non è realmente figlio di Giuseppe. Il meccanismo letterario di Matteo ci dice che Gesù è allo stesso tempo la conferma e la smentita di quella enorme storia familiare.

La nascita di Useppe, nel romanzo di Morante, in una mescolanza di toni tra antifrasi ed epica, viene così salutata in esergo al capitolo:

Trecento araldi in festa coi nastri al vento corrono la città suonando trombe e tamburi. Tutte le campane si sciolgono.

Intona il Gloria

l’organo della cattedrale.

Sono partiti i messaggeri su cavalli piumati a portare l’annuncio nelle sette direzioni. Da regni e principati si muovono le carovane recando in dono i tesori dei quaranta stemmi dentro scrigni di legno odoroso.

Tutte le porte si spalancano. Sulle soglie i pellegrini salutano a mani giunte.

Cammelli, asini e capre piegano i ginocchi. E su tutte le bocche un solo canto! dovunque balli conviti e fuochi di gioia! perché la regina oggi

ha dato al mondo un erede al trono! (LS:79).

Una siffatta presentazione non può, per tono e contenuti, non evocare la Natività per antonomasia – ma evoca pure, a ben vedere, tutto l’immaginario cristologico: per esempio, l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. E tutto questo va considerato insieme ad altri luoghi che segnalano il modello evangelico sottostante al racconto di Ida e Useppe: l’albero genealogico che la madre disegna per conoscere il grado di compromissione etnico del mascolillo; il sogno che prospetta a Ida il rifiuto di tutti gli ospedali al momento del parto e che la persuaderà a partorire nel ghetto, presso la levatrice Ezechiele; la difficoltà di registrarlo all’anagrafe per via del censimento degli ebrei. Ma soprattutto, appare con evidenza che questo bambino è il frutto di un concepimento quasi immacolato, non solo per la sostanziale estraneità di Ida alla sessualità, ma anche per il giovanissimo e assente padre, figura arcangelica che compare come una meteora all’inizio della vicenda per sparire subito dopo, la cui unica funzione è quella di consegnare a Ida una maternità, quasi calata dall’alto.

Anche qui, un padre assente e la possibilità di pervenire la sola linea materna costituiscono un punto di contatto, che si avvicina al nocciolo della questione, ma non lo raggiunge ancora. Tutte le affinità strutturali che vengono ricreate sono, a mio avviso, la porta di accesso a ciò che davvero scardina l’ingranaggio delle colpe e dei castighi: fondamentalmente, Gesù e Useppe stessi, con la loro maniera di rapportarsi alla vita – da innocenti che raccolgono sulle loro spalle i mali altrui – anzi con la loro stessa esistenza, rispondono alla domanda millenaria di cui tanto si è ragionato finora.

Nel documento Innocenza, colpa, redenzione (pagine 56-60)

Documenti correlati