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La buona compagnia

Nel documento Innocenza, colpa, redenzione (pagine 85-97)

Tra apparizioni, paragoni, similitudini e personaggi veri e propri, Elsa Morante ha costruito un bestiario di notevoli dimensioni. Esso, proprio in forza della sua corposità, rivela una tassonomia molto complessa, per cui i riferimenti al mondo animale non possono essere ricondotti ad un’unica origine. Concetta d’Angeli, tra gli altri, si è occupata a più riprese della loro funzione all’interno dell’opera, mostrando come i paragoni con la specie possano prestarsi ai fini più svariati, dall’immagine dell’innocenza nella Storia119 all’espressionismo presente in Aracoeli120.

Credo che, però, sia rintracciabile almeno un aspetto comune: le volte in cui vengono esaltati degli aspetti ferini/animaleschi di un personaggio, siano essi positivi

118 Cfr. Ivi, p. 515 e p. 419 n. 129. 119 Cfr. D’ANGELI 1994.

o negativi, si vuole ricondurre quest’ultimo a una dimensione più autentica. Nel capitolo precedente è stato già osservato, infatti, come per Morante la vera innocenza risieda in quei moti che l’attenzione poetica coglie nella loro dimensione reale, «dove si riconoscono naturali» (POC 1547). L’interesse del poeta va, secondo Morante, proiettato verso quelle situazioni non tanto epurate, quanto proprio intatte dalle leggi sociali, in cui lo stato ancora grezzo dell’individuo permette di riscontrarne l’appartenenza all’ Eden.

Gli animali assumono, in questo senso, un posto di grande rilevanza. Tanto da diventare argomento di conversazione nei romanzi e, in alcuni casi, di dibattito. Per esempio, durante un dialogo tra Francesco ed Edoardo, in Menzogna e sortilegio, si scontrano due Weltanschauungen di lunga tradizione, qui rappresentate dai ragazzi. Il sedicente barone si trova a pronunciare una delle sue consuete orazioni, corroborate dal vino, in un’osteria di terz’ordine, ad un pubblico piuttosto svogliato e sotto lo sguardo benevolo dell’amico. I suoi discorsi riprendono in modo confuso le teorie marxiste, e fondano una situazione narrativa, destinata ad essere frequentata ancora dall’autrice. Francesco De Salvi è caposcuola di Giuseppe Ramundo e di Davide Segre: i tre personaggi sono accomunati da idee socialiste o anarchiche, che tendono a sbandierare previa l’assunzione di alcol o l’uso di droghe. Essi – mi riferisco in special modo a Francesco e Davide – appartengono al tipo dell’intellettuale, e tale caratteristica li esclude ab initio dal paradiso terrestre, proprio perché sanno troppo, ragionano troppo e hanno, in qualche modo, tagliato i ponti con la parte primitiva di loro stessi. Uno o più personaggi edenici fanno loro da contraltare, durante i loro comizi (si pensi a Useppe e Bella uditori di Davide). Nel romanzo in questione, proprio Edoardo ha il compito di opporre un’altra visione a quella, per così dire, politica enunciata dallo studente. Nel passo in analisi, Francesco si effonde in una lunga profezia in cui immagina per l’uomo un destino egualitario, fraterno, solidale, in cui il lavoro è diviso equamente e viene abolito il concetto di parità. Poi, soggiunge, questo destino sarà caratterizzato dalla perdita della condizione animalesca in cui versa l’umanità per dedicarsi, infine, al percorso spirituale cui l’uomo è destinato. Infatti, la maledizione di Adamo – che, tradotta in termini politici, diviene la condizione di subalternità dei poveri ai ricchi – verrà finalmente riscattata, riconducendo l’uomo alla sua primitiva identità a Dio. Sempre in quest’ottica di riscatto, verrà risanato anche il ruolo della

destinata a dividere con lui l’alto compito di eternare la specie umana» (MS 232). Nella visione del ragazzo, quella che si attua è una ricomposizione della natura vera dell’uomo, compromessa dalla sua bestialità. L’uomo, infatti, ha una natura divina che ha perduto, cui è destinato a ricongiungersi per mezzo di un processo di elevazione spirituale. Di tutt’altra risma sono, com’è facile immaginare, le posizioni di Edoardo. Anzitutto, egli trova inutile sia occuparsi delle cose future, sia di quelle passate. L’unica dimensione temporale che riesce a concepire è il presente. Se Francesco ha una visione lineare della storia e progressista, Edoardo ha una percezione del tempo più statica. Dalle culture precristiane, Nietzsche aveva prelevato un’idea di tempo, appunto, non teleologica, ma circolare121. Edoardo, come abitante dell’Eden, vive immerso in un eterno presente, occupandosi di null’altro se non del qui ed ora. Anche questo aspetto è collegato, come mostra, d’altra parte, il testo stesso, alla paura della morte: il pensiero del futuro annoia Edoardo ed è scansato come lo scansa Arturo (MS 233)122.

Ma soprattutto, egli considera le disparità economiche un fatto naturale e non sociale: come in natura vince la legge del più forte, così avviene nelle comunità civilizzate. Non solo: nel provocare l’amico, il principe riflette sul fatto che, per la maggior parte, gli uomini nascono intrinsecamente schiavi e servi – diremmo, per una naturale inclinazione – e quand’anche diventassero liberi, non sarebbero né meno schiavi né più felici di prima. Alcuni rifiuterebbero il riscatto e preferirebbero lo status quo servile a una libertà «di cui non sanno fare uso». Alle rimostranze di Francesco, allora, sul dovere di educare le masse alla libertà, egli ribatte che questa non sarebbe garanzia di felicità, e quando l’amico tenta l’ultima argomentazione, secondo la quale il fine dell’educazione rivoluzionaria non sarebbe la felicità, ma l’umanità, Edoardo affonda il colpo di grazia, che mette l’altro a tacere:

– Uomini! Uomini! E perché non angeli addirittura? – Lo scherniva Edoardo, - è una curiosa presunzione umana, questa, di credere che l’uomo sia termine e legge del creato! In tal caso, perché allora non educhereste ad essere uomini anche i cavalli o i cani? Molti, nati da donna, non voglion saperne d’esser uomini nel senso che tu dici e, se costretti,

121 Cfr. NIETZSCHE 1977, in particolare la teoria dell’Eterno ritorno, p. 341.

finirebbero col camminare a quattro zampe e con l’abbaiare per rivendicare la propria anima di cane (MS 234).

Quella che viene contestata è una visione umanista e antropocentrica, che non tiene conto della parte animale presente in ogni uomo, e che la cosiddetta civilizzazione pretende di estirpare e di negare.

In uno dei primi scambi tra Arturo e Nunziata, la matrigna confessa di avere paura di stare da sola, sostenendo che lo scopo per tutti gli uomini è quello di «riunirsi», di fare comunità, per scacciare la solitudine. E non solo, anche gli animali, all’ora serale, si ritrovano tutti insieme. Ma Arturo, pur riconoscendo la superiorità dell’uomo sul resto del creato, ribatte con una riflessione a favore del regno animale, a lui molto affine:

– Non è vero! – io le ribattei, deciso, - certi animali sanno stare nella solitudine, e sono magnifici e superbi, come degli eroi! Il gufo va e si posa quasi sempre solo, e il bue marino va girando solo le notti; e l’elefante si incammina da solo per andarsene lontano quando deve morire!

«Ma l’uomo poi ha molto più cuore di tutti quanti gli animali! lui è uguale a un re, è uguale a una stella!

«Basta.

«Io, - (conclusi orgogliosamente), - sono stato sempre solo, in tutta la mia vita» (LIDA 96-97).

In effetti, la solitudine, si è già detto, è uno degli elementi caratterizzanti delle creature edeniche. Questi individui solitari si trovano molto bene in compagnia degli animali, come testimoniano moltissimi luoghi.

In Menzogna e sortilegio, del piccolo Francesco sappiamo che «trovava un po’ di pace nei luoghi aridi e bui, nella compagnia degli animali i cui teneri occhi non sanno distinguere il bello dal deforme» (MS 357). L’assenza di giudizio presente nello sguardo animale determina la preferenza, da parte del bambino, della loro compagnia a quella degli umani, che siano coetanei oppure no. Di Elisa abbiamo già detto: condizione primaria della sua scrittura è proprio l’isolamento-prigionia che l’ormai venticinquenne narratrice ha sperimentato per ben tre lustri nella sua camera, con la sola compagnia «non umana» di Alvaro, il quale, si scoprirà alla fine del romanzo, è il suo gatto. Alla

Rosaria il desiderio di avere un gatto, e da allora tale compagnia le diventava inseparabile. Uno dopo l’altro, i felini sono stati la sua unica compagnia e conforto, sopra tutti Alvaro, il terzo e il più amato:

Com’io m’accingo a tracciare qui sotto la parola fine, egli che m’è stato sempre vicino mentre io scrivevo questa lunga storia, mi guarda coi suoi occhi graziosi e fedeli. E sembra dire a Elisa che, nonostante tutto, l’innocenza e l’amicizia dureranno finché duri il mondo.

Alvaro è speciale al punto da meritare un elogio finale in poesia, che è anche il congedo del romanzo. Nel Canto per il gatto Alvaro emergono i caratteri di questo abitante del paradiso terrestre, cui una volta l’io lirico era uguale. Ma mentre Elisa è esiliata dal giardino che hanno abitato insieme, lui continua ad avervi dimora, pur concedendo alla donna la sua compagnia. Di ciò Elisa si domanda il motivo: perché Alvaro le accorda il suo «favore»? Lui «perenne», «libero» e «ingenuo», invece di godere della sua natura, come fanno i suoi concittadini, sceglie di fare compagnia a una donna che in sorte ha «prigione peccato e morte». Forse, si domanda Elisa, per amore? Ma come Dio non dà risposte, abbiamo visto nel primo capitolo, a nessuno tra quelli che si rivolgono a Lui, così anche Alvaro non soddisfa la curiosità di colei che gli pone delle domande. Rimane la probabilità che sia, effettivamente, per amicizia e per amore. Quest’ultimo, secondo Bardini, va inteso in senso cristiano, quale «attributo fondamentale della divinità»123. E infatti il gesto compiuto dal gatto sarebbe assimilabile alla kenosis, «la spoliazione divina compita da Gesù (o, comunque, dall’essere trascendente) incarnandosi»124. L’accettazione di un tale scandalo, del divino che si fa umile, che crea turbamento, è possibile soltanto attraverso un atto di fede. Questo aspetto è centrale in MS:

il senno dell’uomo sa e può giungere soltanto fino a quel limite dove è costretto a riconoscere l’impotenza a proseguire e a capire. Se l’esperienza religiosa non fosse scandalo, turbamento, follia, Dio non sarebbe che un idolo, e la fede sarebbe accortezza, follia, scaltrezza da bottegai125.

Tutte queste cose trovano il loro riscontro teorico in uno dei sette articoli pubblicati tra il 1950 e il ’51 sulla rivista «Il Mondo», che si intitola Il Paradiso terrestre. Si tratta di

123 Cfr. BARDINI 1999, p. 295 n. 101. 124 BARDINI 1999, p. 295.

un contributo breve, ma molto importante nella poetica morantiana, perché i suoi contenuti, declinati all’occorrenza, sono destinati a riproporsi fino all’ultimo romanzo.

In breve, esso è un panegirico sul regno animale, che si fregia del merito di tenere compagnia all’uomo pur non essendo stato cacciato dai territori dell’Eden. Il passo è molto interessante perché mostra la libertà con cui l’autrice si rapporta alle sacre scritture; Morante cita, sì, l’incipit biblico, ma in riferimento a qualcosa che non è scritto, ma che viene dedotto logicamente. L’inizio è molto enfatico: chiamando in causa l’autore della Genesi, Morante sottolinea un particolare di cui, a suo dire, non si tiene conto a sufficienza, cioè che la compagnia degli animali che, a differenza dell’uomo, non hanno mangiato il frutto proibito, è l’«estrema prova di misericordia» del Padre Eterno. Infatti, proprio nell’incapacità di giudizio di questi risiede la grazia della loro compagnia, «nella quale noi ritroviamo un poco dei piaceri, e del lusso impareggiabile, che ornavano le feste dell’Eden perduto» (POC 1475). Anche i bambini appena nati offrono questo tipo di compagnia, ma essa è di breve durata, perché l’ombra del frutto della conoscenza si staglia presto anche su di essi. E qui ritorna l’aspetto più amabile delle creature animali: se le conversazioni tra gli uomini sono viziate dalla paura del giudizio che soffoca la sincerità, nella compagnia di questi esseri ci viene offerta l’amicizia più pura e non giudicante.

Potrete presentarvi a lui nei più sordidi aspetti della miseria, e per lui sarete sempre l’antico signore dell’Eden. Non dovrete temere l’apparizione delle rughe sulla vostra faccia: la bruttezza, la malattia e la vecchiaia non sono vizi ripugnanti per lui. Lui non avrà a noia la vostra tristezza, non diffiderà delle vostre intenzioni; né dovrete temere che possa, col suo affetto, forzare le porte sbarrate della vostra accidia (POC 1476).

Questo è il tipo di amicizia di cui godono, tra gli altri, Romeo l’amalfitano, circondato da una muta di cani, e Arturo, confortato nella sua solitudine dall’unica compagnia della fedelissima Immacolatella. Essi sono, tra l’altro, i due veri abitanti della Casa dei Guaglioni – Wilhelm ne è l’erede ufficiale, ma la tratta piuttosto come una base operativa per le sue peregrinazioni – che si può considerare, a tutti gli effetti, un Paradiso terrestre, come la chiama, al momento della consegna al suo diletto, lo stesso Amalfi: «questo palazzo che ti lascio, per me è stato la reggia delle favole, il paradiso terrestre» (LIDA 65). Vediamo come l’autrice interpreta e descrive un luogo

tanto per cominciare, che tale luogo non è affatto l’Arcadia che ci si potrebbe aspettare. Il narratore spiega infatti, che l’assenza di donne in quella casa ha generato lo stato di abbandono in cui versa – ma nemmeno l’arrivo di Nunziata provocherà qualche alterazione sensibile all’ambiente: «nessuno si dava pensiero del disordine e del sudiciume delle nostre stanze, che a noi pareva naturale come la vegetazione del giardino incolto fra le mura della casa» (LIDA 20).

La peculiarità paradisiaca non risponde alle categorie dell’ordine, del pulito, ma piuttosto a un’idea di selvaggio e primordiale. La bella villa regredisce – ma forse dovremmo dire progredisce – allo stadio della natura lasciata incolta, in cui gli elementi artificiali si mescolano in perfetta simbiosi con quelli naturali. Al punto che gli animali frequentano la magione dei Geraci come fosse «una torre disabitata dell’epoca dei Barbarossa, o addirittura un faraglione del mare»: per più di una pagina il protagonista intrattiene il lettore, elencando le varie specie di animali, reali o leggendari, che avevano visitato la casa, che si prestava, per quella sua speciale condizione, ora al pennone di una nave, ora a semplice scoglio, ora a foresta. Quanto, invece, alle «visite degli umani», conclude Arturo, «Procidani o forestieri, da anni la Casa dei guaglioni non ne riceveva mai nessuna» (LIDA 24). Infatti, prima di morire di parto a otto anni, Immacolatella è stata la sua unica e inseparabile compagna. A lei è dedicato un piccolo paragrafo, in cui viene messa in evidenza la generosità incondizionata dell’animale, che si preoccupa di risollevare l’umore di Arturo a ogni partenza del padre. Il rapporto tra i due viene descritto come quello tra un uomo e una donna, inizialmente coi toni misogini propri del protagonista, presto trascurati, però, per esaltare le indiscutibili qualità di questa compagna che, pur maltrattata, riesce nel suo intento di far giocare Arturo senza pretendere nulla in cambio, scansando ogni deriva superba: «avrebbe avuto tutto il diritto di vantarsi; ma era un cuore allegro, senza vanità» (LIDA 46). E poi, previene il narratore, se si dedica tanto spazio a una cagna è perché, in fondo, questa è stata la sua unica, e per di più straordinaria, amicizia sull’isola. Essa si inventa addirittura un linguaggio per conversare col padrone: «con la coda, con gli occhi, con le sue pose, e molte note diverse della sua voce, sapeva dirmi ogni suo pensiero, e io la capivo».

Ma Arturo, come si sa, è solo un esponente, per quanto autorevole, di una lunga serie di Franceschi d’Assisi capaci di comunicare col regno animale molto meglio che con gli umani. Anche il padre Wilhelm vive in una speciale sintonia con la specie: egli

conosce Amalfi, per esempio, perché è attirato dai suoi cani (LIDA 63), e prova un grande dispiacere alla morte della compagna di Arturo, «perché amava le bestie ed era molto affezionato a Immacolatella» (LIDA 70).

Un paradiso simile a quello procidano, sebbene ambientato in tutt’altro contesto – quello, cioè, del ghetto romano negli anni della guerra – è quello che Vilma vive con la sua congrega di gatti, coi quali si intrattiene in «conversazioni celesti». Questa profetessa simile a Cassandra, ebrea ma battezzata due volte (S 480), lo si intende subito, appartiene a una specie umana piuttosto particolare: vive al limite con la follia in un mondo tutto suo, scandito dall’appello dei gatti presso le rovine imperiali, che chiama per nome, e coi quali parla un «linguaggio rotto e inarticolato», che pure essi comprendono e al quale rispondono. Fra loro Vilma sta «oziosa e beata» (S 481).

Come non pensare, poi, a Nino, alle battaglie condotte per poter portare un cane in casa Ramundo, al quale si deve peraltro il merito di aver fornito a Useppe le amicizie più autentiche, se non le uniche, di Blitz e Bella. Useppe, infatti, è il più francescano di tutti: egli fin da piccolo impara il linguaggio degli animali:

forse fu in quei suoi duetti primitivi con Blitz, che imparò il linguaggio dei cani. Il quale, insieme con altri idiomi di animali, doveva restargli un acquisto valido finché fu vivo.

Egli parlerà, infatti, anche con due lucherini: per mezzo della natura si schiudono, per lui, le porte del divino, che egli non conosce, ma di cui fa proprio esperienza. Il suo rapporto con la specie animale è talmente forte e solidale che egli a un certo punto rifiuta, spontaneamente, di mangiare la carne (S 206). Le caratteristiche di Useppe, in particolare la sua capacità di comunicare con gli uccelli, non possono che ricondurre, ancora una volta, a Francesco d’Assisi126; non a caso, una testimonianza biografica rende noto che negli anni tra Il Mondo salvato e La Storia Morante veniva chiamata dagli amici «San Francesco»127. In particolare, è stato notato un rapporto di vicinanza con il francescanesimo pasoliniano, in relazione alla nota predica agli uccelli, dove la figura

del passero si rivela centrale nella poesia Quasi alla maniera dell’Achmatova128, dove il

poeta viene paragonato a un «passero / che ripete tutta la vita le stesse note»: il passero […] è la voce più pura e più alta della storia. È il poeta il vero testimone degli “eventi”, e il suo canto, mite ma non consolatorio, è l’unico che può spiegare il prima e il dopo degli eventi129.

La sua ultima amica, nonché la più importante, nel ruolo di madre, amica, sorella e bàlia, è Bella, la quale si incarica di un discorso che è la dimostrazione, in forma dialogica, della teoria morantiana sugli animali. Il pastore maremmano, mosso (come più sopra Immacolatella) da compassione per la tristezza di Useppe, nel tentativo di consolarlo per il mancato incontro con Scimò, comincia a raccontargli delle cucciolate avute un tempo. E da qui inizia una disquisizione sulla bellezza «infinita» di tutti gli individui circolanti attorno ai due personaggi. Tutti: Antonio, Nino, Ida, Davide, Scimò, trattati da Bella alla stregua dei primi cuccioli, sono indiscutibilmente «il più bello» e «la più bella» (S 556-557). Questa è la ricetta dell’amicizia con gli animali, questa la carta vincente che rende la compagnia di questi esseri una vera e propria «grazia» (POC 1475).

Ma a un personaggio, nello specifico, il piacere di questa deliziosa compagnia è precluso. In Aracoeli, Manuele, proprio all’inizio della sua visita a El Almendral, si imbatte in un cane che galoppa terrorizzato, credendosi inseguito da un mucchio di ferraglia che gli hanno legato alla coda. E Manuele, a cui «i cani fanno maggiore pietà che gli uomini», vuole liberarlo. Ma non riesce a raggiungerlo; cosicché prova a chiamarlo «a gran voce».

In assenza di un suo nome proprio, non mi resta che chiamarlo Cane: o meglio, nel suo caso, Perro, siccome lui, naturalmente, intenderà piuttosto lo spagnolo. Perro è stata una delle prime parole da me apprese nella vita.

«Perro! Perro! Perro!!»

Ma lui non si fida, e si dilegua nella sua fuga insana. Mi è riuscito soltanto di raddoppiargli la paura (ARA 309).

128 Cfr. DI FAZIO 2012, p. 201.

Questo breve episodio, apparentemente insignificante, se messo in relazione ai precedenti, rivela alcuni aspetti en abyme. Tanto per cominciare, siamo in assenza di un

Nel documento Innocenza, colpa, redenzione (pagine 85-97)

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