ll libro volge alla fine (se, Dio volendo sarà mai finito) e comincia l'agonia di E. M., che avrà fine il giorno in cui fra la paura della morte e la paura della vita, vincerà / quest'ultima. / Senz'altra ragione che la paura111. L’autrice di questo libro, il cui valore e senso è a lei stessa oscuro (potrebbe esser notevole o nullo) altro non chiede a Dio che di morire a tempo112.
Sono due note riportate dai quaderni manoscritti di Menzogna e sortilegio. La paura della morte o la vittoria su di essa sono concetti che ricorrono incessantemente nei suoi libri, quali urgenze legate, soprattutto, all’età adolescenziale. Il tema domina nell’Isola, diventandone una chiave interpretativa; ma è presente da tempo, non solo nella coscienza dell’autrice, che può oggettivarlo in forma di appunto personale, per poi rielaborarlo nella figura del principe Edoardo. C’è una pagina in particolare, nel romanzo, in cui dalle preoccupazioni iniziali di Concetta riguardo all’idillio tra il figlio e Anna Massia, si passa a una descrizione piuttosto distesa del carattere del ragazzo, concentrata su alcuni punti, che inquadrano in modo esaustivo le caratteristiche precipue degli abitanti edenici.
Nel brano in questione viene operata un’identificazione tra gli «esseri della specie d’Edoardo» e i «cittadini del Paradiso Terrestre». Gli aspetti che permettono l’analogia sono:
- L’assimilazione del riposo alla morte, da cui essi rifuggono, mostrando, di conseguenza, una irrequieta vitalità.
- L’equiparazione dell’esperienza di vita terrestre, ancorata alle categorie spazio-temporali, a una prigione, per loro «che incessantemente si agitano fra queste angustie illusi forse di ripercorrere i liberi campi originari» (MS 164).
- L’appartenenza a una discendenza diversa da quella di Adamo, dal momento che manca loro, «del frutto gustato da Adamo», il sapore della conoscenza, mentre ne condividono la condanna.
- L’aspirazione intima a una libertà concreta e non metafisica: legata cioè ai sensi, al godimento di piaceri, potremmo dire, creaturali, di contro ad altri, «più veri» nell’ottica della devota Elisa, che ad essi sono negati.
- Il paragone, fondamentale, con le belve ridotte in cattività, che «senza tregua van correndo da una rete di sbarre all’altra». E in conformità con la negazione della coscienza, data invece al primo uomo, ad essi è negato il riscatto da quella condanna (va notata l’insistenza sulle immagini della prigionia e della segregazione).
La paura della morte assume qui una doppia funzione: sul piano narrativo, i riferimenti continui alla possibilità che essa si presenti precocemente, mettendo fine all’esistenza di Edoardo, possono considerarsi prolettici alla sua fine; mentre sul piano diacronico tali riferimenti dicono qualcosa che molti altri personaggi condivideranno.
Infatti, l’aspetto della paura della morte viene presentato come consequenziale alle caratteristiche appena enunciate. È qualcosa che appartiene all’infanzia del ragazzo e che verrà, almeno apparentemente, dissipata in età adulta.
Al tempo che Edoardo era ancor bambino, qualcuno aveva notato il suo pallore non appena si nominavano le persone defunte. Ciò che lo impauriva, al suono di questi nomi, era soprattutto il pensiero che coloro erano inchiodati in eterno, costretti a eterna clausura. […] (MS 164).
Ma c’è un altro personaggio del romanzo che condivide questo aspetto con Edoardo e che, non a caso, ne costituisce una sorta di doppio femminino: Anna. Alla notizia della morte di Edoardo, la donna reagisce con un netto rifiuto e, all’elaborazione del lutto, preferisce «la ferma fede nella “Finzione”, una fede che spinge a “farsi adoratori e monaci della menzogna»113. Non solo, la morte non viene nemmeno presa in considerazione come possibilità reale. Ma è bene procedere con ordine. La prima reazione di Anna alla notizia della morte del cugino è la perdita del
raziocinio. La donna diventa pallida, con gli occhi vitrei, torna di corsa a casa e, gettata nel letto, è preda di urli e attacchi isterici. Fino alla sua ripresa, Elisa dovrà prendersi cura di lei. Nel corso della narrazione, la donna viene paragonata prima a una bambina pari alla figlia e poi a un animale, in particolare, a una gatta:
Quando mi riaddormentai, mi parve confusamente, in sogno, di dividere la mia camera con un animale selvatico, o una fiera. Mi riscossi, e in un dormiveglia, m’avvidi che mia madre scesa dal letto percorreva a piedi nudi la stanza, avanti e indietro, e gemeva con un tono interrogante e caparbio: tale ch’io credetti di riudire la gatta di Gesualdo, il giorno che andava in cerca dei suoi gattini (MS 539).
Il giorno dopo, un poco ritornata in sé, Anna si risolve ad andare al cimitero, luogo verso cui nutre una profonda avversione – probabilmente, anche se non è specificato in nessun modo nel testo, a causa del trauma provocato dalla scomparsa del padre. Una volta giunte lì, Elisa subito instaura un paragone tra le due diverse reazioni al «giardino del cimitero». Per la narratrice, la mescolanza tra i prati arredati da simboli cristiani, in cui l’aroma liturgico si confonde agli odori della natura, evoca sensazioni positive, come già il cadavere ben composto della nonna Cesira, nella camera ardente. Addirittura, la bambina non dubita che tutti quei morti andranno in Paradiso, immaginando che da qualche parte in quel luogo si levi «la scala di cui racconta la Bibbia nel libro di Giacobbe; e che le invisibili anime dei morti salissero e scendessero, lungo quella scala, dal giardino ai loro bei palagi» (MS 543).
Su Anna, invece, gli stessi segni provocano un senso di repulsa («ella non portava qui la pietà e la religione dovute ai luoghi consacrati», MS 543); a causa del quale non le riesce nemmeno di leggere le epigrafi sulle tombe, e alla fine, ricacciata da un luogo che sente ostile, torna a casa. Qui, paragonata nuovamente a una «creatura selvatica», invoca finalmente Edoardo, quasi fosse vivo:
Edoardo! Dove sei? Rispondimi, Edoardo mio.
- Vogliono farmi credere che tu non esisti, - riprese in tono violento, scoprendo gli occhi minacciosi e neri, - vogliono farmi credere che sei uno scheletro (MS 543).
ad Elisa, chiedendole se crede all’inferno. La risposta della figlia devota, perfettamente coerente, è quella di credere, piuttosto, nel Paradiso. Ancora, la pagina mostra un’opposizione forte, un contrasto tra madre e figlia, che si muovono su direzioni diametralmente opposte, al punto che le imprecazioni dell’una, che è disposta a vendere l’anima all’inferno, pur di ritornare alla sua breve quanto lontana parentesi di felicità, provano ad essere sistematicamente risanate dalle preghiere dell’altra. Anna, in un momento di delirio, confessa alla figlia il suo idillio adolescenziale:
e allora voglio che tu lo sappia: io conobbi l’angelo, il principe del Paradiso. È mio cugino, anzi mio fratello carnale, si chiama Edoardo. Prima ch’io conoscessi tuo padre, ci amavamo, lui ed io. Ma egli m’abbandonò e non si curò più di me. […] Oggi io so, io capisco perché mi lui mi lasciò virtuosa: fu perché la mia anima avesse maggior prezzo (MS 544, corsivo mio).
Edoardo è definito il «principe del Paradiso» e, naturalmente, come conviene a una mancata elaborazione del lutto, viene richiamato al tempo presente: non «era», ma «è». Senz’altro questa è la ragione di Anna. Tuttavia, bisogna considerare che, come abbiamo visto per Arturo ed Elisa, questa donna, ormai adulta, ha ancorato la propria esistenza al ricordo di un’estate, di un tempo circoscritto, nel quale è stato imprigionato anche l’oggetto del desiderio. In effetti, questo amore mai consumato, provoca una rinuncia alla vita e una perenne attesa che, di fatto, diviene antifona della sua stessa morte. Anna, estromessa dall’Eden, pur senza suicidarsi, non realizza però alcun passaggio verso un’altra età, restando in un limbo che, oltre a vietarle comunque la soddisfazione piena del desiderio di unirsi a Edoardo, le impedisce inoltre di sperimentare altri ruoli, come ad esempio, quello di madre, relegandola, in ultima analisi, alla condizione di eterna bambina. Tanto che Elisa sente di essere lei la madre, la bàlia dei suoi genitori. La stessa sorte immobilizza il Cugino in un tempo, come il presente, che in questo caso è sintomo di atemporalità.
«Come un insetto attorno a una lampada accecante», così l’universo morantiano gira attorno ad alcuni fuochi che, mutatis mutandis, rimangono costanti per tutto l’arco della sua produzione. Il principio appena espresso è valido per i grandi temi, come per alcuni dettagli che ritroviamo in alcuni luoghi o negli atteggiamenti di personaggi anche distanti tra loro. Messi insieme, collegati fra loro, questi dettagli formano un repertorio di varianti che, messe insieme, fanno sistema.
L’isola è il luogo delle «certezze assolute», l’insieme di leggi codificato da Arturo e trattato alla stregua di vademecum esistenziale. Dopo aver elencato il suo esalogo, l’io narrante ci tiene a chiosare, prima delle altre, la seconda legge, che recita:
«LAVERAGRANDEZZAVIRILECONSISTENELCORAGGIO
DELL’AZIONE, NEL DISPREZZO DEL PERICOLO, E NEL
VALOREMOSTRATOINCOMBATTIMENTO» (LIDA 33).
In merito a queste norme, il cruccio di Arturo è che in nessuna egli è riuscito a menzionare «la cosa più odiata»: la morte. La sua avversione si ramifica in due direzioni.
La prima, guardando al passato, dipana – ma con ripercussioni, come si vedrà, nel presente – il filone materno: l’esistenza della morte riconduce con il pensiero alla perdita della madre, in primis, e poi della cagna Immacolatella, che supplisce la prima. Arturo, al pari di Anna, non crede «in Dio e nelle religioni» e «neppure nella vita futura e nello spirito dei morti» (LIDA 52), ma, oltre al fatto che per la madre crederebbe pure all’esistenza di un paradiso, ha in odio «i cimiteri, e tutte le insegne della morte», perché, proprio per il motivo che in essi non c’è nulla di metafisico, non sono visti come un ponte, un contatto con l’aldilà, ma piuttosto come una prigione. Una delle ragioni che tiene Arturo incatenato all’isola come a un incantesimo è proprio la presenza della tomba di lei, per quanto non frequentata.
Poiché mia madre era sotterrata in quel punto, quasi mi pareva che la sua fantastica persona stesse prigioniera là, nell’aria celeste dell’isola, come una canaria in una gabbia d’oro (LIDA 53, corsivi miei).
L’appuntamento mancato con la maternità si evolve, nel corso del romanzo, passando attraverso due figure che, in qualche misura, surrogano il ruolo materno e ne subiscono, in quanto tali, lo stesso destino. Immacolatella, l’unica compagnia di Arturo, lo accompagna per circa settanta pagine, ma muore, come la madre, di parto e viene seppellita nel giardino di casa, sotto il carrubo. Essa, con la sua morte, consegna il testimone alla matrigna Nunziata, che replicherà, con la stessa evoluzione, quanto era accaduto alle prime due, ma stavolta supererà la morte per offrirsi tutta al ruolo di madre per Carmine, prima, e sfiorare l’esperienza dell’amore con Arturo. Nunziata accoglie in sé le caratteristiche di madre – fallimentari e respinte dal figliastro, ma anche quelle animali, secondo un processo di assimilazione tra femmine e animali rintracciato
da Bardini114, come mostrano alcune affermazioni del protagonista. Quando, ad esempio, ne descrive un tratto fisico: «stava là a riguardarmi, con quei suoi occhi pieni di confidenza e di antichità puerile, che mi ricordavano, nel tempo stesso, le notti stellate dell’isola e Immacolatella» (LIDA 104). Oppure quando commenta il soprannome Nunz., con cui, al limite, è disposto chiamarla, dal momento che ha difficoltà a chiamarla per nome – e vedremo che lo farà solo in un momento ben preciso, quello del bacio: «quest’ultimo suono mi piace abbastanza; mi fa pensare a un animale mezzo selvatico e mezzo domestico: per esempio una gatta, una capra» (LIDA 130). Nunziata ha modo di esprimersi in merito alla morte, assumendo i tratti combinati di ingenuità puerile e saggezza atavica con cui Morante fregia spesso i suoi personaggi femminili.
Ce personnage (tout comme Alessandra dans Mensonge et sortilège et comme Ida et Santina dans La Storia, ou encore comme Antigone dans La soirée à Colone) représente une proximité barbare et inconsciente avec la nature et ses lois, où l’ignorance et l’inconscience sont à lire comme une grâce et une bénédiction115.
La sua teoria è un frammento di un discorso più ampio, che fa parte della sua prima serata nella casa dei Guaglioni, ed è preceduto immediatamente dal racconto di Nunziata sulla disgrazia avvenuta al padre e al fratello, scomparsi in un incidente sul lavoro. Il rapporto che la ragazza instaura con l’idea della morte è del tutto pacifico, e inserito nel processo naturale delle cose. La morte non fa paura, essa rappresenta l’apertura alla festa della Vita Eterna. La teleologia cristiana le dà la possibilità di non vedere nella morte una fine, ma un passaggio a una dimensione diversa; anzi, nella sua prospettiva, ancora più allettante: ciò che aspetta dall’altra parte è una sorta di comunione di santi, in cui tutti i cari potranno finalmente incontrarsi, in una «fiera favolosa di luminarie e canzonette e balli esultanti» (LIDA 99). La prospettiva della morte è senz’altro superata da quella della «vita eterna», grazie alla quale, come Francesco d’Assisi, possiamo trattare la prima come una sorella; semmai, ciò che è da temere, in questa vita, è la solitudine.
Già, chi si prende paura della morte sbaglia proprio, perché quella è un travestimento, mica è altro: che a questo mondo, apposta, ci si fa vedere bruttissima, come fosse un lupo; ma invece là nel Paradiso ci si farà vedere
114 Cfr. BARDINI 1996, pp. 205 sgg. 115 ZANARDO 2017, p. 69.
al vero, che tiene una bellezza di Madonna, e difatti là cambia pure nome, che non si chiama più Morte, ma Vita Eterna. Che là, nel Paradiso, veramente, a dire questa parola: morte, nessuno ti capisce.
Rispetto alla seconda direzione, invece, il protagonista sente che la morte gli impedisce di raggiungere e sperimentare finalmente la pienezza della vita. La morte è, inoltre, un pensiero da scansare, perché intorbida la «felicità naturale» che avrebbe se fosse libero da quella preoccupazione, e la possibilità di potersi dire, finalmente, maturi. Infine, la morte è un limite rispetto al quale egli vuole rischiare, un confine da oltrepassare.
La morte adesso non è più un «punto» davanti al quale indietreggiare «con orrore» […]; ma è piuttosto un «ultimo, astruso confine» che deve essere oltrepassato: Le Colonne d’Ercole116.
Arturo, vinto dal senso di solitudine e di abbandono dopo la nascita di Carmine, decide di fingere il suicidio. Basti ricordare che venticinque anni dopo la pubblicazione del romanzo, Manuele, l’ultimo protagonista di Morante, parlerà dei suoi tentativi di suicidio fittizi. Non si tratta, dunque, di morte vera; ciò nonostante, anche solo la sua «ombra distesa» inorridisce il ragazzo. Egli, nell’accingersi a compiere l’atto, è colto da un senso di nostalgia, dal desiderio della compagnia di un amico o, ancora meglio, di una madre «viva»; perché «questo bel paesaggio infantile» non si addiceva «alla severità dei morti». Ecco, infatti, che si apre a questo punto uno scenario inaspettato. Davanti alla possibilità della morte, sia pure simulata, Arturo osserva l’incanto della natura e dell’isola. Dunque, egli per introdurci in un territorio funesto indugia un poco su una descrizione lirica dell’isola.
Anzitutto, la mattinata è «lucente». Ancora una volta, la luce è un elemento chiave per la caratterizzazione dello spazio. Ci viene, inoltre, specificato un dato temporale: l’equinozio di marzo è passato da «parecchi giorni», segno che l’estate è imminente. Se, richiamandoci a una simbologia tradizionale, l’estate è il tempo della maturazione che giunge a pienezza, la primavera è ancora il tempo dell’attesa. Il paesaggio incantevole che viene rappresentato in questa pagina è il fotogramma della quasi raggiunta perfezione poco prima della caduta. Infatti, mentre il protagonista riflette sul fatto che «i beati rumori della realtà sono un teatro incantato che innamora ogni cuore vivente
fino all’ultimo» (LIDA 245), egli è anche consapevole che «fra un momento, già questo colore sarà diverso, variazioni impercettibili, come una ridda di favolosi insetti, girano senza posa nella luce». Il narratore è avido nel registrare tutti i dettagli, e di questi anche il più piccolo mutamento, perché la bellezza in cui si riconosce la gioventù – e di cui quest’ultima è inconsapevole, vivendo nell’attesa di una pienezza che è l’anticamera della morte – è uno spettacolo talmente precario e sfuggente che va bevuto fino all’ultima goccia. Di ciò, secondo me, questa pagina rende testimonianza. Subito dopo l’ingestione delle pillole sonnifere, il paesaggio diventa «odioso», e ancora una volta, anche qui, Arturo cerca la madre – ma troverà, al suo risveglio, dopo averla confusa nel dormiveglia, la matrigna/amata. I riferimenti all’area materna sono troppo frequenti per non immaginare una connessione tra morte e madre. E ancora insisto nel notare che i finti suicidi di Manuele, il cui romanzo è tutto incentrato sul viaggio di ritorno alle braccia materne, non hanno altro scopo che quello di ricongiungerlo con Aracoeli (cfr. ARA 83).
Ma, come abbiamo detto, al suo risveglio Arturo trova Nunziatella ad accoglierlo, la quale, dice, per lui è disposta a disconoscere persino il Paradiso. Siamo, infatti, come il riferimento temporale ci ha indicato, in quel punto finale della primavera che preannuncia l’estate. Ed è proprio a questo punto che si trovano il romanzo e il percorso personale di Arturo. Di qui a poche pagine, gli eventi precipiteranno a causa di quel bacio fatale, che segnerà il confine, superato il quale, non è più possibile tornare indietro. Di ciò, le colonne d’ercole ci offrono un’anticipazione. Infatti, tra prima e dopo questo episodio appena analizzato, si apre una parentesi che coincide con le diciotto ore di coma di Arturo, in cui la morte viene definita come un punto in cui «non c’è niente», e come una «ristrettezza», di contro alla sterminata fantasia di Arturo.
Al momento di assumere il sonnifero quasi letale, Arturo diviene dimentico dei motivi che l’hanno condotto ad orchestrare quella messa in scena, di Nunziata e della madre. Tutto l’interesse è proiettato nel brivido del rischio, dell’oltrepassare un limite lecito. E trattare con questo limite diventa d’improvviso esaltante – non a caso, è in questo punto che appare il paragone con Ulisse, evocato in sordina, per tutta la sequenza, dal riferimento alle Colonne d’Ercole:
D’un tratto, la mia padronanza dimostrata, l’infrazione, e il divertimento della prova diventarono, per me, i motivi più importanti di questo capriccio,
scancellando quasi il mio primitivo scopo e addirittura il ricordo di N.! Simile al re Ulisse, quando doppiava la scogliera delle Sirene, mi sentivo libero e solo davanti a una scelta: o la prova o la rinuncia! E m’invase un gusto di gioco misterioso e inaudito, e di sfida temeraria (LIDA 246).
Arturo è davanti a una scelta, che instilla in lui un senso di gioco e di sfida, ma che è al limite con la morte. È il rischio di cui vengono ammoniti Adamo ed Eva dal Signore:
Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gen 2, 16-17, corsivo mio).
In più, subito prima di questo punto egli inorgoglisce sentendosi superiore al padre – che si limitava alla dose di sonnifero prescritta – esattamente come i due progenitori della specie umana peccarono di orgoglio e di superbia. Infine, egli sceglie di prendere la pastiglia, di cui ricorda il sapore «insignificante, lievemente salato, e appena amarognolo». Quando dovrà spiegare alla matrigna il motivo del suo gesto, egli non accennerà né al senso di solitudine né ad altro che possa far intravvedere le sue fragilità, ma parlerà del suo desiderio di conoscere cosa c’è dopo la morte. Egli sa che il suo discorso alla sua uditrice ingenua è, in realtà, «mistificatore», però si può dire che in lui