1.3 Teodicea
1.3.1 La sofferenza in rapporto al XX secolo
L’olocausto mette un punto fermissimo alla dialettica della teodicea, che già da tempo, almeno dalla critica di Voltaire a Leibniz, aveva messo in crisi la possibilità di conciliare l’esistenza di un Dio onnipotente, che interviene nella storia, e la presenza del male, radicata nella natura stessa. Ma se la prova addotta dal philosophe fu, in assonanza con quella di Damiano, una catastrofe di ordine naturale generata dal terremoto di Lisbona del 1755, «la catastrofe ancora comprensibile della prima natura fu minima confrontata con la seconda, sociale, che si sottrae all’immaginazione umana, preparando l’inferno reale sulla base della malvagità umana».46
Tutte le riflessioni culturali a proposito hanno dovuto confrontarsi, per confutarla o confermarla, con la celebre asserzione di Adorno del 1949. Secondo il filosofo, dopo Auschwitz scrivere poesie non è più possibile, è anzi da considerare una barbarie.
Il romanziere Arthur Cohen attribuisce a tale evento il valore di cesura radicale – tra ciò che si poteva credere prima e ciò che si è pensato dopo – nella storia ebraica47, restrizione che si potrebbe, d’altra parte, allargare a tutta la storia contemporanea.
Poeti e scrittori in genere, che hanno scelto di oltrepassare il dettato adorniano, hanno dovuto in ogni caso misurarsi con la difficoltà, oltre che con la necessità, di parlare di un evento così tragico e, per certi aspetti, ineffabile, come l’esperienza della guerra, nello specimen dei campi di sterminio. Scrittori come Celan – e con lui, in Italia, Primo Levi – o Wiesel si chiedono in che modo sia possibile esprimersi dopo la strage dell’olocausto. Interrogarsi sul linguaggio in quanto fondamento stesso della poesia, da cui tutto scaturisce, consente loro di trovare un aggancio, per mezzo del quale diventa sostenibile ricominciare a pensare la realtà; avendo il linguaggio, in qualche misura, resistito all’orrore e alla miseria di quegli anni, esso è guardato come ora come un nucleo d’origine dal quale ripartire. In tale direzione, è molto significativa l’opinione di una voce autorevole come quella di Celan, che rintraccia nella lingua l’unica cosa
«acquisita», «raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite», che, pur passando attraverso le tenebre, l’afasia, la mancanza di risposte, è uscita «arricchita», in una grande prova di resistenza. «Con questa lingua – spiega Celan – in quegli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per accertarmi dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà».4849
Il significato e il ruolo dell’arte, estrapolato da quella che pare, almeno nei primi punti una rielaborazione novecentesca della Poetica aristotelica, sono oggetto di una conferenza tenuta da Elsa Morante e poi pubblicata, nel 1965, da una raccolta che ne porta il titolo: Pro o contro la bomba atomica. Il valore ricostituente, unificante dell’arte nella sua accezione generale ma qui considerata anzitutto nella figura dello scrittore («come riferimento particolare che vale per ogni artista in generale»), si riscontra nella ben nota definizione così apparsa nel saggio, che vale la pena di riportare per esteso:
Eccola: l’arte è il contrario della disintegrazione. E perché? Ma semplicemente perché la ragione propria dell’arte, la sua giustificazione, il suo solo motivo di presenza e sopravvivenza, o, se si preferisce, la sua funzione, è appunto questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola, la realtà (POC: 1542).
Non esistono, secondo Morante, ragioni per l’arte all’infuori dell’integrità, cui lo scrittore tende come all’unica condizione «liberatoria», e quindi sempre rivoluzionaria. Nell’ambito di una conciliazione della grande arte con le categorie del pessimismo e di una sostanziale tragicità, perché connessa profondamente con il conflitto, che è «motore reale della vita», tornano i concetti antitetici di colpa e innocenza. E la purezza dell’arte viene qui intesa come la sua capacità di mescolarsi con le esperienze della vita che la legge sociale bolla con l’etichettatura di perversione o immondizia, e di riaccoglierle nella loro dimensione reale, «dove si riconoscono naturali, e quindi innocenti» (POC: 1547). Sgombrando, in tal modo, il campo da qualsiasi fraintendimento moralista, Morante prosegue il suo discorso. Nel momento in cui sceglie di occuparsi della presenza del male nell’esistenza umana e della sua
48 CELAN 1993,p. 35.
49 Si tenga conto che qui si fa riferimento a un discorso tenuto nel 1958, in occasione del ricevimento del premio Città di Brema. A distanza di dieci anni, la posizione di Celan, come avviene, d’altra parte, anche a Morante, virerà verso un cupo pessimismo, anche nei confronti della parola. cfr. Levi su Celan, in LEVI 1990, vol. III, pp. 636-37.
proliferazione in epoca moderna – poiché «bomba atomica», «disintegrazione», «drago» non sono altro che sinonimi di una stessa parola – Morante non può fare a meno di misurarsi, anche lei, con l’argomento preso qui in esame: espressione, come s’è detto, del livello di brutalità cui è approdata l’umanità a lei contemporanea. Pertanto, la scrittrice menziona la storia del giovane poeta ungherese Miklós Radnóti, morto nel 1944 in un lager nazista, assurgendola a «testimonianza postuma di realtà» che è contro il sistema di disintegrazione operato dalla burocrazia organizzata dei lager. «La scoperta che questo ragazzo ha potuto esistere sulla terra», commenta, «per me è stata una notizia piena di allegria».
Morante insiste sull’esemplarità di questo ragazzo che, nel cuore pulsante del male e delle sue logiche assurde, come Giobbe ha saputo produrre un discorso, vien da dire, di senso compiuto. La scrittrice chiama l’avventura di Radnóti uno «scandalo», parola che le è cara e che adopera in senso polivalente. Essa si ritrova in moltissimi dei suoi testi con altrettanto numerose accezioni, di segno sia positivo che negativo. Così «scandalo» si definisce Wilhelm Gerace, in allusione all’ambiguità attraverso cui il narratore Arturo ce lo descrive, mentre lo stesso termine può indicare i segreti di casa Ramundo, e in modo particolare il più grave di tutti: l’epilessia che colpisce la piccola Ida. à scandalo nell’accezione che De Martino media dal kierkegaard di es. del cristianesimo: DI FAZIO in LA Storia p. 198.
à CAMON: scandalo è ciò che non rispetta la pietà. P. 84-85. La povertà, finché non diventa povertà morale e quindi scandalo, è idllio. La vita degli umili oscilla tra idillio e scandalo.
Approdando a conclusioni in parte simili a quelle di Celan, lo scrittore E. Wiesel parla di un linguaggio corrotto che deve essere «di nuovo inventato e purificato». Ed è cosciente che non tutto può essere raccontato, pena non essere creduti, e che se l’artista prima aveva un ruolo profetico, adesso deve rivolgersi al passato, pur sapendo che ciò che deve dire non sarà mai trasmesso. Gli artisti, secondo Wiesel, «solo possono sperare di poter comunicare l’incomunicabilità della comunicazione»50.
Non siamo molto distanti dal quadro che Morante descrive nella Storia: il ritorno a Roma dei pochi ebrei reduci dai campi di concentramento viene assorbito da una società che non vuole ascoltare il racconto delle atrocità vissute dalle vittime, che
accoglie con sordità la loro disperazione, la loro solitudine e l’incapacità di reintegrarsi, perché essa è a sua volta incapace di ascoltare storie che non hanno nulla a che vedere con le avventure di guerra, che non raccontano eroi, ma solo tetraggine, angoscia e disperazione.
Presto essi impararono che nessuno voleva ascoltare i loro racconti […]. Difatti i dei giudii non somigliavano a quelli dei capitani di nave, o di Ulisse l’eroe di ritorno alla sua reggia. Erano figure spettrali come i numeri negativi, al di sotto di ogni veduta naturale, e impossibili perfino alla comune simpatia. La gente voleva rimuoverli dalle proprie giornate come dalle famiglie si rimuove la presenza dei pazzi, o dei morti (LS: 377).
Sul piano teologico, è stato molto acceso, com’è facile immaginare, il dibattito sul fronte ebraico. In questo caso, ad essere messa in crisi è stata proprio la visione di un Dio onnipotente, che salva e punisce, intervenendo attivamente nella storia, ma che tace di fronte al massacro organizzato di milioni di innocenti. L’inconciliabilità che la ragione sancisce tra le due alternative è il nodo, prima teologico e poi filosofico, attorno cui ruota la disputa ebraica nel dopoguerra e nei decenni successivi. Sempre Cohen rileva infatti come la Shoah abbia sovvertito le certezze della teologia tradizionale:
Fu quando si arrivò al tremendum che l’edificio del monarchismo teologico poté essere visto per quello che era diventato in realtà: una struttura arcaica di interpretazione, che lasciava il dio della storia in posizione sospetta o irrilevante. Il Dio del riscatto e della redenzione non riscatta e non redime.51
Inoltre, come osserva Neher, cambiano anche i modelli biblici di riferimento: se prima gli ebrei riconoscevano nelle persecuzioni da parte di cristiani e musulmani l’immagine del servo sofferente (Is 53) o la ‘aqedah, il sacrificio di Isacco (Gen 22), dopo la figura centrale è divenuta Giobbe52. Infatti, mentre il braccio di Abramo viene fermato dall’angelo di Dio e suo figlio riscattato, alla morte di milioni di bambini ebrei nelle camere a gas fa eco più opportunamente il dolore del cittadino di Uz, cui la perdita dei figli non può essere risarcita dalla nascita di altri. Le sue perdite sono irrecuperabili. Egli rappresenta, inoltre, meglio di Isaia il senso di abbandono e desolazione che Israele ha provato nei confronti del suo Dio. Israele può riconoscere più facilmente la propria
51 COHEN 1984, p. 36. 52 Cfr. NEHER 1988, p. 104.
storia in quella di Giobbe, e tale è l’operazione compiuta, ad esempio, nello studio di Susman, dove tutta la storia del popolo d’Israele viene proiettata su quell’esempio, insieme alle domande sull’esistenza del male e sul rapporto con Dio che ne scaturisce53. Il panorama ermeneutico su Auschwitz è parecchio vasto e le interpretazioni teologiche che ne conseguono sono molteplici, tra le quali non manca chi ha ravvisato nei lager, in omaggio all’ortodossia rabbinica e al fine di salvaguardare l’immagine di un Dio che interviene nella storia del suo popolo, un castigo divino, e nel progetto di Hitler un’opera di purificazione dell’umanità, comparabile a quella della grande arca54. La Shoah sarebbe dunque un qorban, un sacrificio che Israele, innocente o colpevole, compie in offerta al suo Dio, in espiazione di tutta l’umanità.
Opponendosi all’insostenibilità di questa tesi, alcuni teologi hanno ritenuto che dopo Auschwitz andasse ripensato il rapporto col Dio dell’alleanza, a partire dallo stesso volto che quest’ultima assume nell’immaginario dei suoi fedeli. In questa direzione, si colloca la proposta di Richard L. Rubenstein, il quale, peraltro, è considerato il fondatore della «teologia dell’olocausto».
Mi vedo costretto a un aut-aut. Ad Auschwitz si può affermare o l’innocenza di Israele o la giustizia di Dio. Io non ho ancora trovato una terza via accettabile. Se però si afferma l’innocenza di Israele ad Auschwitz, Dio è ciò che si vorrà ma comunque non è più, in forma distinta e unica, la Divinità sovrana dell’alleanza e dell’elezione. Piuttosto che conservare il minimo sospetto sul fatto che Israele fosse oggetto di un giusto castigo divino ad Auschwitz, io respingo la concezione di un Dio al quale si avrebbe motivo di attribuire una simile idea.
Hans Jonas ha prospettato la possibilità di un dio incapace di agire nella storia poiché ha compiuto, con l’atto dello Tzimtzùm, una «contrazione» di sé a favore dell’uomo, un passo indietro che ne ha consentito la creazione. In questi termini, il male è ricondotto non più alla volontà divina ma a un principio di responsabilità umana, conseguenza diretta della libertà donata55.
Anche nel mondo cristiano, infine, Auschwitz provoca un’assunzione, al di là di considerazioni ideali, del peso della sofferenza del mondo, con la conseguente insufficienza di talune risposte, che non attecchiscono sulla realtà della storia. La teologia cristiana deve farsi carico dello scandalo di questa storia, in cui l’innocente
viene stritolato; per cui Giobbe non è un mito, ma è un exemplum che trova conferma tanto in Nabucodonosor quanto in Hitler. La teologia della croce diventa, dunque, «teologia crocifissa»56, vale a dire concretamente esperita dai viventi nella storia di tutti i secoli, e del secolo scorso in particolare.
I concetti di colpa e innocenza appartengono al lessico morantiano fin dalle origini. All’altezza del ’52 risale una riflessione, nei quaderni privati, molto citata dagli studiosi – che è, poi, il nucleo ideologico della poesia Alibi – in cui l’amore viene posto in un rapporto di necessità con la conoscenza dell’altro. Successivamente, si pone l’accento sulla non colpevolezza, sull’innocenza di ogni essere vivente. Cristo, continua Morante, è stato il solo ad amare tutti e a conoscere la «non incriminabilità» di ciascuno. Pertanto, non possono essere presi sul serio i suoi discorsi sull’inferno. Dal canto suo, Morante si interroga sul valore che hanno parole come disprezzare, condannare, perdonare, per concluderne, a conferma della sua amoralità, che tali parole non significano nulla, sono «assurde» per lei.
Evidentemente, nessuno ricercherà la convivenza, per esempio, con un coccodrillo, o con una tigre turbolenta. Ma non per questo si condanna o si disprezza il coccodrillo o la tigre [Cronologia: LXIV].
Piuttosto, cresce in lei il sospetto della sua colpa, che consisterebbe nell’incapacità di comunicare, nel non saper amare e di non essere amati a propria volta; di essere, in fin dei conti, infelice.
Questa pagina è una tra le più ricche di spunti, a mio avviso, per l’ermeneutica dell’autrice. In essa si condensano, allo stato embrionale, delle istanze che avranno largo seguito negli anni a venire.
Ma intanto non si può tralasciare, considerato l’insieme degli argomenti trattati, qualche rapido al pensiero di Simone Weil. Il rapporto di influenza che intercorre tra la filosofa francese e Morante è stato oggetto di numerosi studi, e può considerarsi, al momento, indagato esaurientemente57. In questa sede, pertanto, mi limiterò a considerare soltanto alcuni aspetti relativi al tema in analisi.
56 Colloquio con Bruno Forte, in CIAMPA 2005, p. 54.
57 Il rapporto tra le due scrittrici è stato studiato soprattutto per impulso di Concetta D’ANGELI, La
serata a Colono, La presenza di Simone Weil ne “La Storia” e Il paradiso nella storia; ma va ache
ricordato il più recente contributo di Claude CAZALÉ BÉRARD, Morante e Weil. La scelta
Il pensiero esistenziale e religioso di Simone Weil è segnato da diverse fasi di sviluppo: all’esperienza giovanile di lavoro in fabbrica sono legate le idee di sfruttamento e oppressione, motivate soprattutto da un interesse politico58, mentre il concetto di malheur – tradotto in «sventura» in italiano – è successivo ed è il frutto di una riflessione di ordine più generale e assume da subito grande rilevanza nel lessico weiliano.
La sventura è una delle due forme, insieme al peccato, con cui il male si manifesta59, ma essa non produce comprensione né compassione da chi non è afflitto, bensì genera disprezzo, allo stesso modo in cui lo generano i crimini, per la stessa legge di natura meccanica per cui «le galline si avventano a colpi di becco contro una gallina ferita». Questa distanza tra il soggetto colpito dalla sventura e il senso di solitudine, rispetto alla comunità, che ne deriva, come abbiamo visto, si riscontra spesso nelle narrazioni di Morante. Allo stesso modo, mi sembra che si registri anche un altro comportamento dello sventurato descritto da Weil: la «complicità con la sventura» che gli impedisce di trovare una strada qualsiasi per migliorare la propria condizione, e di conseguenza lo paralizza col «veleno dell’inerzia»60, tanto da convincere anche gli altri che egli è soddisfatto della propria condizione.
Lo sventurato allora, trovandosi solo, non compreso e privato di qualsiasi forma di compassione, si stupisce di tutto questo:
Così, quando siamo trattati male, l’emozione principale è lo stupore. Perché ci fanno questo? Questo stupore dura a lungo, e quando per la fatica l’accettazione finisce col sostituirvisi, si tratta ancora dell’accettazione di una cosa incomprensibile61.