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Innocenza, colpa, redenzione

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

Colpa, innocenza, redenzione

Immaginario escatologico nell’opera di Elsa Morante

CANDIDATA

RELATORE

Luisa Briguglio

Prof. Raffaele Donnarumma

(2)

Indice

Elsa e io

p. 4

Introduzione

8

Capitolo I

L’eredità di Giobbe

1.1 Giobbe e Damiano 11 1.1.1 Il silenzio 13 1.1.2 La contestazione 14 1.1.3 La maledizione 16 1.1.4 La ribellione 18

1.1.5 Atto di accusa e professione di innocenza 22

1.1.6 Le domande a Dio 23

1.1.7 Epilogo 25

1.2 Ereditarietà della colpa 27

1.2.1 La teoria della retribuzione 28

1.3 Teodicea 43

1.3.1 La sofferenza in rapporto al XX secolo 44

1.3.2 Perché? 51

1.3.3 Dostoevskij 52

1.3.4 I conti non tornano 56

1.3.5 TUS 60

Capitolo II

Il paradiso terrestre

2.1 Loading… 67

2.1.1 L’esperienza della separazione 69

2.1.2 Paura della morte 77

2.1.3 La buona compagnia 87

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2.2.2 Evasione e libertà 103 2.2.3 Useppe 108 2.3 Il ritorno 112 2.3.1 Nostos 112 2.3.2 Il «paradiso serrano» 116 2.3.3 Il mistero contaminato 120

Capitolo III

Quale redenzione?

3.1 L’amore si spreca 123 3.2 Narciso 134 3.3 Angeli 140 3.3.1 Ordalia felice 149 3.3.2 Immanenza divina 151

Conclusioni

156

Bibliografia

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Elsa e io

Pisa, 14 marzo 2017

La prima volta che sentii parlare di Elsa Morante fu circa dieci anni fa. Avevo saputo per mezzo della scuola che alla sala Laudamo – un grazioso spazio teatrale nella mia città natale – si sarebbe tenuto quel sabato un incontro su Alberto Moravia, di cui non ricordo bene il tema (forse il cinema, o l’anniversario di qualcosa?). Si dà il caso che avessi letto più per accidente che per determinazione una sua raccolta di racconti ambientati nella preistoria e Gli indifferenti; a tutt’oggi tale è l’ammontare delle mie letture di questo autore. Cionondimeno la conferenza mi incuriosiva, ma ancor più mi esaltava, perché mi trovavo ancora in quel periodo piuttosto lungo della mia vita in cui ero convinta che il mio destino fosse quello di diventare una scrittrice. Non saprei dire bene da dove e quando di preciso nacque quella convinzione: sì, a otto anni avevo composto una bella poesiola sul mare, meritevole ancora oggi di qualche considerazione, e come certo non me ne sono più riuscite; e poi, sì, scribacchiavo qui e là per sfogare le mie infelicità precoci e la mia frusta sensibilità poetica. Scrivevo, e qualcuno a un certo punto disse distrattamente che promettevo. Ma i miei sogni erano ben altri. Volevo diventare una ballerina e mi ritenevo brava, ma non lo dissi mai a nessuno, tanto il mio desiderio era privato e ingenuo. Poi venne la cena di classe alla fine delle elementari. Le due quinte della scuola, A e B, si ritrovarono con le maestre in una pizzeria all’aperto, in cui già si poteva godere dell’aria fresca ed estiva, delle vacanze che dovevamo goderci più delle altre perché poi cominciavano le medie e avremmo studiato sul serio (quanto candore!). La ricordo una bella serata, mangiammo e giocammo parecchio e alla fine le maestre – non ne ho mai avute di migliori – ci lessero una piccola versificazione scritta di loro pugno in cui esaltavano le capacità e i tratti salienti di ciascun bambino o bambina. Venne il mio turno ed ecco schioccare in rima baciata il vaticinio: Luisa ci scriverà una bella poesia! Mentre doveva toccare alla più dotata Maria Stella l’epiteto prediletto di ballerina. Lei sì che faceva spaccate e pirouettes! Io, piccolo marmocchio occhialuto, dovevo accontentarmi del ruolo di cantore mentre qualcun altro calcava le scene.

Ma come siamo arrivati a parlare di questo? Ad ogni modo, che ci si inoltri o meno nel mare vischioso e sconfinato della mia infanzia, sia sufficiente sapere che all’altezza

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fare altro che seguirlo con fiducia. Era per quello che m’ero iscritta al liceo classico e che probabilmente avrei studiato Lettere. Non sapevo ancora quanti fiumi di lacrime sarebbero scorsi su quell’illusione. Non sapevo quanto quella prospettiva fosse priva di fondamento, quanto non sarei stata la grande lettrice e la grande scrittrice che vagheggiavo. Allora non potevo saperlo, e ritenevo che col tempo la lettura dei classici incallita e necessaria per una buona formazione artistica sarebbe discesa dal cielo accompagnata da un coro di angeli, in qualità di infusione di Dio che benediva da lassù il già noto progetto. Così anche le prime serie produzioni, le pubblicazioni: tutto avrebbe seguito il suo corso naturalmente, come un torrente non può che seguire l’attrazione del mare e di certo non si sogna neppure di risalire alla montagna.

Questo lo spirito che aleggiava su di me come una carezza, come un’aureola santa e inviolabile. La sera del dibattito, verso la fine, quando ormai il flusso di discorsi andava estinguendosi, salì sul palco una professoressa del mio liceo. Era un tipo piuttosto stravagante e circolavano parecchie voci, spesso discordanti – com’è naturale che capiti in casi del genere – sul suo conto. Si sapeva che era separata dal marito e per questo acida, tuttavia preparatissima, che era molto severa ed esigente e non aveva nessun imbarazzo nel dire a chiccheffosse, studentello bidello collega, il fatto suo. E poi c’era anche quella storia di mia sorella, ma se la racconto rischiamo di andare davvero fuori del seminato. Tutte le informazioni che avevo su di lei bastavano a rivestirla ai miei occhi di autorità e, in un certo senso, di simpatia. Aveva chiesto di intervenire e già qualche piccola smorfia camuffata da sorriso increspava le facce lisce dei relatori mentr’ella saliva le scalette con passo claudicante. E così arrivò, prese il microfono e cominciò a strillare sull’ingiusta sorte capitata a quella donna che di Moravia era stata moglie, di gran lunga superiore a lui – artisticamente parlando – e condannata da una critica miope a restare nell’ombra, ad occupare un posto marginale nel canone della letteratura italiana. Tale fatto era poco meno che ridicolo: la Morante era stata una grande scrittrice, ma in quanto donna nessuno le riconosceva i suoi meriti, e le palme toccavano tutte al malcapitato di quella serata, Moravia, che se ne sentì dire di tutti i colori.

Incontrai la professoressa la settimana successiva, in segreteria didattica, la fermai e senza un motivo autentico le dissi che ero molto d’accordo col suo discorso dell’altra sera, che mi era piaciuto quanto aveva detto. Sarebbe inutile sottolineare che quella mia sortita non aveva alcuna ragione di esistere, dal momento che della Morante io

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non sapevo nulla. A una tale distanza di tempo mi par quasi di parlare di una persona che non coincideva con me: posso dunque ammettere che volevo solo farmi notare, attirare l’attenzione, foss’anche per poco, di una persona nella quale avevo riconosciuto la traccia di qualcosa cui mi sarebbe piaciuto assomigliare o a cui mi sarebbe piaciuto piacere. Però c’era anche quell’altro aspetto, in sordina: quella scrittrice così brava era una donna, e io mi accingevo nelle mie fantasie a diventare una donna scrittrice. Sufficiebat. Quella Morante aveva tutte le ragioni di essere difesa. La professoressa mi guardò e mi sorrise; poi cominciò a sciorinare nuovamente le ragioni del sabato prima in un discorso del quale non ricordo nulla, se non il tentativo goffo, da parte mia, di fingere che tutto quello che stava dicendo era perfettamente chiaro. Chissà se ci sono riuscita. Comunque, dopo quella conversazione non ne avemmo altre, io tornai in classe e scordai ogni cosa.

Qualche anno dopo trovai in casa, credo, una copia dell’Isola di Arturo della bruttissima edizione mondadoriana “Evergreen- Grande biblioteca per ragazzi”, con la copertina sui toni del giallo e dell’azzurro chiazzati a imitazione di certi piastrellati anni ’70. Mi ricordai di aver già sentito il nome dell’autrice Elsa Morante. Lo lessi e mi piacque molto. Invidiavo quel protagonista così solo, eppure così coraggioso e avventuroso. E poi era scritto tutto benissimo; insomma, era proprio un bel libro. Presi quella copia orribile e la regalai al mio ragazzo di allora, un personaggio alquanto marino, come Arturo. Ma non era ancora il momento di approfondire.

Soltanto un anno fa capitò casualmente la Morante nella rosa degli autori candidati per la mia tesi di magistrale, e il destino – se esiste – volle che il relatore approvasse proprio lei.

Adesso, se mi volto indietro, tutti quei sogni, quelle fole infantili sono molto lontane, quasi appartenessero a una donna che non sono io. Altre illusioni forse non meno risibili li hanno rimpiazzati. Chi nasce sognatore muore tardi. Nel frattempo però ho letto quasi tutta Elsa. Ora conosco bene la polemica di cui parlava quella professoressa anni fa. So quanto sia discusso questo autore, quanto la critica sia divisa sul suo conto e quanto esso sia amato dai cosiddetti morantiani, suoi strenui difensori e fans. Non so dire come mi collochi io in tutto questo discorso, ma so per certo che ci sono moltissime affinità tra di noi, so che le piacerei come lettrice perché la lascio entrare e permetto che i contenuti aderiscano su di me, come fanno: quelle paure, quei

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di stupore: ti capisco! Anch’io ho provato la tale cosa! E se ciò che rende uno scrittore degno di essere letto è la sua fecondità, ossia la quantità di vita che egli riesce ad instillare nel lettore; posso dire che costei mi ha praticamente dato una nuova nascita, nuove forze su cui muovere i miei passi incerti nel mondo.

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Introduzione

Il riferimento a tematiche religiose richiede una premessa: nell’orizzonte di senso morantiano, e nella lettura del mondo proposta dai suoi romanzi, il riferimento a Dio e al divino non va inteso nell’ottica delle religioni rivelate, né in chiave unilateralmente filosofica o mistica. Si tratta di un insieme di suggestioni filosofiche e teologiche che l’Autrice ricombina in un personale sincretismo, che si sovrappone al fervente cattolicesimo giovanile, e che testimoniano una costante ricerca del sacro che percorre la sua intera produzione letteraria.1

La Storia in particolare, con l’esplicito riferimento al periodo bellico, si inserisce nell’ambito di un rinnovato interesse per temi religiosi posto in modo drammatico dalle vicende della Seconda Guerra Mondiale, configurando svariate risposte nell’ambito della teodicea di fronte all’abominio dello sterminio degli ebrei. Nella Storia il rapporto con il divino si realizza in particolare nel personaggio di Useppe e nelle parole di Davide, non senza apparenti contraddizioni. Ma i concetti di “Dio”, “religione” e “sacro” rimandano alla raffigurazione e ricerca di un quid numinoso non riconducibile né a forme istituzionalizzate di sacralità, né tantomeno a un ateismo intellettualistico e razionale, quanto piuttosto a una religiosità laica spesso identificata nell’arte. […]La questione religiosa in Elsa Morante, il suo rapporto con il sacro, costituisce un argomento complesso e spinoso, e non riconducibile a una posizione lineare. Proprio il personaggio di Davide Segre che, come è stato osservato, costituisce per molti versi una proiezione autobiografica dell’autrice, può costituire un punto di accesso al complicato rapporto di Elsa Morante con il sacro, e il punto di congiunzione tra idee anarchiche e terminologia cristiana. Il legame si costituisce nella Storia attraverso l’aria di famiglia che accomuna il romanzo di Elsa Morante a I Fratelli Karamazov e a L’Idiota di Dostoevskij14. Nel romanzo morantiano pare rivivere, complicandosi di motivi filosofici e politici ulteriori, il cristianesimo del romanziere russo, in bilico tra l’idiotismo di Useppe e l’antinomia Ivan/Aljosja rispecchiata dalla coppia Useppe/Davide e Useppe/Nino, e dalla scissione interiore allo stesso Davide.2

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49-Il sentimento della presenza divina nella natura è alla base di una trasfigurazione della percezione che gli svela la Realtà (attribuendo al termine la sfumatura di significato prettamente morantiana)16, in cui miti e leggende rivivono negli umili incontri di ragazzini, cani randagi, osti e prostitute.3

è l’insopprimibile vocazione della Morante ad abolire la distanza che normalmente separa la dimensione del sublime (e del sacro) dalla sfera infima, terrena, patria comune degli animali e degli uomini […] che la spinge a conferire all’animale e al bruto tratti spiccatamente angelici, o a cogliere nella persona umana – come in certe similitudini visionarie del Cantico dei Cantici – i segni di una sconcertante affinità con l’animale.4

La poesia di Davide prosegue precisando il ruolo del Poeta, che si risolve in un concetto conoscitivo e mistico della poesia, la quale diviene uno strumento di indagine del reale e segna un percorso di avvicinamento al divino: «Se la religione non è più conforto, come il titolo del libro mai finito sembra annunciare, Senza i conforti della religione, può la poesia consolare senza peraltro divenire una nuova religione?» (Setti 2003: 185).5

Tale tema, già biblico e centrale nel francescanesimo, costituisce uno degli aspetti centrali per la lettura del personaggio di Useppe. L’interesse di Elsa Morante per l’individuazione della numinosità, della traccia divina, anche nelle realtà più umili trova rispecchiamento nella filosofia di Spinoza, il riferimento al quale è esplicito nel passaggio sopracitato. […] Il tesoro nascosto è così la luce – o memoria – divina celata anche negli esseri più umili. Il concetto è centrale nella riflessione di Simone Weil.6

Non è casuale che le poesie di Davide siano attribuite alla sua adolescenza: in linea con un concetto già presente nell’Isola di Arturo e drammaticamente centrale in Aracoeli la fine dell’infanziaadolescenza costituisce per Elsa Morante una cacciata dall’Eden22: la coscienza, acquisita mangiando il frutto della conoscenza, implica la condanna del voler capire, spiegare, per via razionale. Arturo abbandona Procida, per accettare una realtà che concepisca l’idea della morte, da lui sempre negata (Ceracchini 2012: 846); Manuele vivrà la propria esistenza nella ricerca del suo Eden perduto, del Totetaco mitizzato della sua infanzia.7

3 Ivi, p. 55. 4 Bisagno 2003: 51. 5 Zanardo 2013: 56. 6 Ivi, p. 57. 7 Ivi, p. 59.

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La decisione di non inserire l’appendice con le poesie dell’adolescente Davide si pone in linea con l’intenzione di privare il personaggio di un qualunque possibile riscatto: anche il suo proposito di scrivere un libro viene frustrato nel romanzo.8

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CAPITOLO I

L’eredità di Giobbe

1. 1 Giobbe e Damiano

Tutti e quattro i romanzi di Elsa Morante narrano vicende familiari. Menzogna e sortilegio, in particolare, è strutturato come un romanzo di famiglia, che però al tempo stesso è «il ribaltamento corrosivo di quel “romanzo familiare” che ogni fanciullo si autonarra durante l’adolescenza per costruire la propria identità nel confronto con le figure parentali»9. Elisa, l’unica sopravvissuta, per poter fare questo confronto racconta le vite dei parenti perduti, affidando ad ognuno di loro uno spazio più o meno ampio della narrazione.

Tra i capostipiti della sua genealogia, l’eponimo dei De Salvi, Damiano, occupa un posto abbastanza marginale, almeno se paragonato alle descrizioni riservate, di contro, a personaggi come Cesira o Concetta. Egli, infatti, il padre ufficiale di Francesco, il capostipite – usurpato, per la verità – del ramo paterno di Elisa, è un uomo semplice e di poche parole. Così ci viene presentato e così lui stesso si descrive. Sarebbe un personaggio del tutto anonimo e poco memorabile, se Elisa non gli riservasse, nella quarta parte, un monologo interiore che lascia emergere la sua natura niente affatto quieta e, anzi, ricca di moti interiori.

Nella sua presentazione, due capitoli prima, la narratrice lo descrive come un uomo anziano e solitario, trascurato nella persona e dedito quasi esclusivamente agli affari, propri di un piccolo proprietario terriero. Tuttavia, nel quadro che viene tracciato, apparentemente così ben composto, si inserisce un elemento dissonante, che lo complica: egli, rimasto vedovo e successivamente risposato con Alessandra, la madre di Francesco, non ha voluto celebrare le seconde nozze in chiesa perché, a seguito della perdita della prima famiglia in un terremoto che ha devastato l’intero paese, ha preso la decisione di esiliarsi dalle cose di Dio.

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Se si considera il contesto rurale, gretto e arretrato, in cui l’adesione religiosa è, di fatto, garanzia di coesione sociale ancor prima che scelta spirituale, la sua presa di posizione salta agli occhi come un’insubordinazione piuttosto grave. Che questo sia lo stile pensato dall’autrice per l’ambiente di tutto il romanzo è esemplificato, del resto, non solo da quei luoghi in cui si descrivono le usanze religiose dei paesani, dove i concetti di morte, di vita nell’aldilà risentono parecchio del sostrato pagano e magico preesistente al cristianesimo e ancora fervido, e dove, proprio per questo, la figura sacerdotale è percepita come una presenza sciamanica, tenebrosa e detentrice di segreti inaccessibili a quelle anime semplici (MS: 258). Non solo in paese, dunque, emerge la funzione aggregativa ricoperta dalla religione, ma anche in città. Si veda, a tal proposito, il sospetto nutrito dalla moglie del vetturino nei confronti di chi, come Anna, trascura l’impegno religioso; acuito massimamente quando viene a sapere che il matrimonio tra la sospettata eretica e Francesco non è stato neanche celebrato in chiesa: un tale matrimonio non è, ai suoi occhi, nemmeno da considerarsi tale (MS: 411, 424).

Tornando a Damiano, egli si rifiuta di spiegare apertamente le ragioni del suo comportamento; queste vengono espresse soltanto all’interno di un flusso di coscienza che Damiano pronuncia prima tra sé e sé, poi rispondendo al prete intervenuto a consolarlo delle sue perdite. È in questa seconda parte del discorso, in particolare, che egli chiama in causa un personaggio biblico noto per le sofferenze che ha ingiustamente sofferto: Giobbe. E malgrado tale evocazione serva a Damiano per sancire subito una differenza di classe (egli è un semplice contadino, mentre Giobbe «era un gran signore»), essa permette di tracciare un parallelo tra i due. Se, infatti, possiamo credere all’inconsapevolezza con cui un uomo anziano e male istruito cita una figura celebre, perché l’ha sentita nominare dal parroco durante un’omelia, risulta ben più difficile accordare la stessa ingenuità all’autrice. A maggior ragione se, come qui appare, la vicenda del vecchio contadino sembra costruita sulla falsariga di quella del personaggio biblico; vale a dire che, a partire da una struttura comune, la narratrice sembra alternare analogie e differenze tra i due, allo scopo di costruire un personaggio che evoca quel modello, senza tuttavia costituirne una copia identica. Ma occorrerà, a questo punto, vedere un po’ più da vicino quali sono gli elementi comuni e quali, invece, quelli divergenti.

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possiede le ricchezze di Giobbe, egli è comunque riuscito a conquistare, col frutto della fatica, delle porzioni rispettabili di terra da coltivare. È rispettato in paese come uomo sobrio e giusto. Il suo profilo è conforme a quello tracciato nel primo capitolo del libro di Giobbe.

V’era un uomo nella terra di Hus, di nome Giobbe. Era quest’uomo semplice e retto, timorato di Dio e alieno dal male. Aveva egli sette figli e tre figlie; i suoi possedimenti erano di settemila pecore e trentamila camelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù assai grande: ed era quest’uomo assai potente fra tutti gli Orientali (Gb 1, 1-3).

L’antefatto ad entrambe le narrazioni ritrae un quadro stabile, intaccato presto, però, da qualcosa che, nella sua tragicità, determina una serie di reazioni affini da parte dei protagonisti. Già la dinamica dei fatti è la stessa: in una situazione pacifica viene inserito un elemento che disturba e sconvolge. Questi due uomini, per cause esterne e catastrofiche (i saccheggi, le piaghe inflitte da Satana per l’uno, una calamità naturale per l’altro), perdono improvvisamente tutto ciò che possiedono, in modo particolare gli affetti.

Come rispondono, dunque, alle argomentazioni e come reagiscono ai fatti che accadono loro?

1.1.1 Il silenzio

Di fronte agli eventi drammatici, anche il contegno assunto dai due uomini è simile. Di Damiano si dice che «già taciturno per sua natura, lo era diventato ancor di più dopo la sua disgrazia, tanto da far dire, di lui, che ricordava in tutto soltanto quattro parole di quelle insegnategli dalla madre» (MS: 325).

Giobbe si limita, all’inizio delle sue sventure, a pronunciare quelle parole che l’hanno reso celebre e che ne hanno fatto un emblema di pazienza: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore» (Gb 1, 21). Queste sono le stesse parole, però, che destano i sospetti di Kierkegaard. Il filosofo danese, molto legato alla figura di Giobbe, cui dedica una parte consistente delle sue riflessioni10, si chiede perché egli, dopo aver pronunciato queste parole «bellissime», abbia taciuto per sette giorni e sette notti prima di cominciare il suo lamento. Esso sembrerebbe, infatti,

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sgorgare da una lunga pausa generata dalle cause più svariate, tra cui vi è senza dubbio l’incapacità, non solo di darsi una spiegazione, ma anche solo di domandarla.

Non sai dire di più? Non osi dire più di quel che i consolatori di professione misurando e contando le parole servono al singolo, quel che i consolatori di professione come rigidi cerimonieri prescrivono dicendo che nell’ora della sofferenza bisogna dire […], né più né meno, come si dice “salute” a uno che starnuta? Non è possibile11.

Anche E. Wiesel ragiona sulla prima reazione di Giobbe di fronte alla sofferenza, cioè il «rifugiarsi nel mutismo».12 Effettivamente, spiega Wiesel, tace per molto tempo e comincia il suo discorso non spinto dalla sofferenza, ma per ribattere agli interrogativi che essa provoca. Solo a quel punto egli comincia il suo dialogo. «Un dialogo fuori dal comune, in effetti, perché è Giobbe che soffre, ma sono gli altri che ne commentano la sofferenza! Allora arriva il momento in cui Giobbe non ne può più»13.

Giobbe comincia a lamentarsi quando arrivano gli amici; Damiano formula le sue riflessioni quando il prete tenta di consolarlo. Come il suo antecedente fa con i consolatori, egli contesta al prete una visione religiosa gretta e semplicistica. Ma lui, a differenza del primo, non ha strumenti né cultura sufficienti per animare un dibattito ben argomentato; preferisce dunque lasciare le obiezioni allo stadio mentale, senza verbalizzarle. Per questo, pur senza intervenire, in quanto privo dell’eloquenza necessaria, si infiamma ai discorsi sofisticati di Monaco, perché essi saziano, in qualche misura, il suo desiderio di contestazione.

Poiché, da accenni di Damiano e dei vicini, aveva scoperto l’avversione del vecchio per la Chiesa, egli, che condivideva tale avversione, aveva iniziato un vivace discorso sull’argomento. Damiano non pronunciava alcun giudizio che suonasse violento contro il suo nemico Iddio; ma con segni del capo e un insolito brillare degli occhi celesti approvava i ragionamenti di Nicola, pur non riuscendo a seguirli (MS: 330-331).

1.1.2 La contestazione

Giobbe e Damiano prendono la parola contro i tentativi consolatori da parte degli amici nel primo caso, e del parroco di paese nel secondo. Perché quegli interventi veicolano contenuti teologici tradizionali e sono espressione di una visione religiosa

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gretta e fatalista, che entrambi i personaggi protagonisti non posso accettare e a cui, pertanto, si oppongono strenuamente. La molla che, sicuramente in Giobbe, fa scattare il meccanismo della parola è per l’appunto il tentativo di spiegare il dolore in modo insoddisfacente, stereotipo e superficiale.

Ecco, tutte queste cose ha viste l’occhio mio, / ha udite il mio orecchio e tutte io le compresi; / quanto sapete voialtri lo so anch’io, né a voialtri io sono inferiore. / Io invece all’Onnipotente parlo, / e di discutere con Dio bramo: / mostrando che siete fabbricatori di menzogna, / e che asserite false dottrine. / Oh, se piuttosto serbaste silenzio, / sì da farvi stimare sapienti! / Ascoltate dunque la mia riprensione, / e alla sentenza delle mie labbra fate attenzione. / Ha forse bisogno Dio della vostra menzogna, / perché dobbiate asserire cose false in favor suo? / Vi mostrerete forse parziali con lui / e vi sforzerete di far gli avvocati di Dio? (Gb 13, 1-8).

Per inciso, va considerato che la condizione creata da una malattia non riesce, per forza di cose, a patire contraffazioni e finisce per riportare le cose spontaneamente alla loro essenza, smascherando, in tal modo, i discorsi falsi imposti dalle circostanze, privi di un reale coinvolgimento e insieme di un’analisi approfondita delle cause. Il malato sa di essere solo col suo male, allo stesso modo in cui Giobbe, che comprende di non avere nemmeno il conforto dei parenti più stretti: «l’alito mio fa nausea a mia moglie, e mi raccomando ai figli del mio seno» (19, 17)14.

Su questo sfondo di desertificazione affettiva, si scontrano due visioni religiose, entrambe presenti nella Bibbia. La prima, giustificazionista, risolve tutta la complessità del reale in una legittimazione aprioristica di tutto quanto viene da Dio. Tale atteggiamento è riscontrabile, più frequentemente, nelle istituzioni, che si sono fissate così nel corso dei secoli. L’altra forma religiosa, diversamente, si nutre del conflitto scaturito dalla constatazione di un mondo ingiusto, dominato da orrore, oppressione e sofferenza contro il postulato di un Dio creatore, onnipotente e misericordioso. «Questa forma di religiosità» spiega Sergio Quinzio «è quella dei profeti. Il Libro di Giobbe, per quanto appartenga ai libri sapienziali, che esprimono l’orizzonte della sapienza tradizionale, in effetti rompe completamente le linee di questo orizzonte»15.

Se gli amici e il parroco, allora, si accontentano di una risposta da manuale, Giobbe e Damiano esprimono a gran voce l’insufficienza di quella logica e la drammaticità di vivere in un orizzonte in cui tutto ciò che accade, anche il loro dolore, viene

14 RAVASI 2010. 15CIAMPA 2005, p. 40.

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acriticamente conformato alla volontà di Dio, mentre essi vogliono contendere con Dio. «Il suo [di Giobbe] interrogare Dio – conclude Quinzio – per l’ordine sacro tradizionale è bestemmia»16.

1.1.3 La maledizione

Le prime parole che Giobbe pronuncia, dopo un silenzio lungo quanto i giorni della creazione, sono un atto profondo di sfida al creatore, perché maledicono il giorno della nascita.

Perisca il giorno in cui nacqui / e la notte in cui si esclamò: è concepito un uomo! (Gb 3,1).

Anzitutto, va notato che il motivo della maledizione del giorno della nascita è comune a molti personaggi morantiani17.

Rimanendo, ad esempio, su Menzogna e sortilegio, tali parole risuonano in bocca a Cesira nel pieno di un attacco isterico e sotto la minaccia dello spirito di Teodoro e di altre visioni inquietanti (si può anche dire, demoniache). E malgrado la figlia Anna legga, in quelle manifestazioni, le tracce di una conclamata perdita della ragione, in realtà la narratrice Elisa si affretta a precisare che «eran questi, invece, gli ultimi fittizi tumulti di un animo ancora in lotta contro speranze e desiderî, e che non voleva ancora rassegnarsi» (LS: 116, corsivo mio).

Nella Storia, invece, è Nino a farsi carico di comunicare a Ida la colpa di averlo generato in un mondo che lo ha rifiutato troppo presto: «Vattene via da me. La colpa è tua. Perché m’hai fatto nascere?». Egli parla alla madre da un'altra dimensione, sospeso in un limbo tra la vita e la morte. Di lui è detto che non ha altro scopo che quello di rammentarle continuamente l’errore di averlo partorito e che, vivendo nell’immaginazione della donna, sta «sempre a torcersi inchiodato al proprio desiderio

16 Ibidem.

17 Ma l’imprecazione di Giobbe, oltre a non costituire un caso isolato nella Bibbia stessa, è comune a tutta l’antichità, a partire dal pessimismo greco. Nella Nascita della tragedia Nietzsche ne riporta l’essenza con il dialogo leggendario tra il re Mida e Sileno, in cui il precettore di Dioniso rivela che la cosa migliore per l’uomo sarebbe non nascere affatto, mentre la seconda è quella di morire presto. In Edipo a Colono, modello per la composizione di Serata a Colono, ai vv. 1224-1227 ritroviamo la stessa affermazione: «Non veder mai la

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di vivere, peggio che su una croce, e invidiando perfino il minimo insetto, o l’esistenza di un filo che riesce a entrare in una cruna».

Va rilevato, in entrambi casi, che il desiderio di un ritorno a uno stato pre-natale è, in realtà, più profondamente connesso, o per lo meno non slegato, con il suo opposto, e dunque con una certa vitalità. Cesira e Nino percepiscono, per ragioni diverse, la propria distanza infinita dal mondo. Tuttavia, essi non propongono, ad esempio, il suicidio come una possibile soluzione al problema.

Philippe Nemo, che intende, nella sua interpretazione del passo di Giobbe preso in esame, la morte come «figura dell’angoscia», sostiene che la scelta di mettere fine alla propria esistenza presupporrebbe delle condizioni, quali il «distacco, una pienezza della percezione del mondo e una simmetrica indifferenza all’io», che rappresentano ciò che più fa difetto in una situazione d’angoscia. Se il ragionamento di Nemo vale anche per noi, si potrebbe affermare che la morte appare come ciò che non allontana l’angoscia, ma «la raddoppia, la moltiplica all’infinito, l’estremizza e l’eternizza». Tale condizione riproduce, di fatto, uno schema infernale, il luogo in cui il male si alimenta e si produce da se stesso. Conclude, infatti, il filosofo:

Il male forza Giobbe ad incollarsi alla sua pelle, gli impedisce di dimenticarsi, di lasciarsi cadere nella morte, di lasciare la presa. Mentre senza dubbio con la morte tutto finirebbe in un riposo, in un rilassamento perfetto, il suo stesso dolore risveglia Giobbe senza posa e lo forza a tenersi vivo suo malgrado18.

Ma la recriminazione forse più pesante proviene dall’ultimo romanzo, Aracoeli, che si può intendere per l’appunto come una lunga apostrofe di un figlio alla madre, in cui egli l’accusa, tra le altre cose, di averlo consegnato, con il parto, «nudo» ai sicari. Sarebbe stato meglio abortirlo, o soffocarlo alla nascita, piuttosto che nutrirlo e crescerlo con un amore «infido» (perché seguito dall’abbandono), «come una bestia allevata per il macello» (ARA: 117). Se l’esperienza della vita non è che una corsa al mattatoio, Manuel si chiede, con qualche accento leopardiano (i Canti, non a caso, sono parte del suo scarno bagaglio del viaggio da Torino verso Roma), che senso abbia venire al mondo, e se non sia piuttosto preferibile non nascere affatto.

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Perché dunque dall’utero mi hai fatto uscire? / Oh! Fossi io morto, senza che occhio mi scorgesse! / Io sarei, come se non fossi mai stato: / dall’utero al sepolcro sarei stato portato! (Gb 10, 18-19).

1.1.4 La ribellione

L’insostenibilità di un torto subito ma immeritato, l’insufficienza delle risposte ottenute dagli amici e l’assurdità del proprio dolore sono i moventi che spingono Giobbe a iniziare una disputa tutt’altro che pacifica, che si apre proprio con la dichiarazione dell’inaccettabilità del decreto divino.

Perciò anch’io non tratterrò la mia bocca: parlerò nell'angustia del mio spirito,

ragionerò con l’amarezza dell’anima mia! (Gb 7,11)

Giobbe è sconcertato quando osserva la sfasatura, il disequilibrio tra il male subito e quello che potrebbe, tutt’al più, meritare. La sua coscienza non riscontra su di sé i torti di cui potrebbe essere accusato. Insieme alle perdite effettive, ciò che più lo smarrisce è il crollo di un sistema retto da un Dio che ha sempre creduto giusto, al punto da renderlo, in forza della sua devozione, il migliore tra gli uomini19. Un tale disarmo non può che provocare una reazione disperata, che parte dal lamento per la propria condizione.

Tuttavia, malgrado egli rasenti più volte la bestemmia, si dibatta e punti i piedi, resta sempre all’interno di una relazione con il suo interlocutore, ancorché assente. La sua protesta si scaglia su di lui per mezzo della parola.

Damiano reagisce esattamente all’opposto. Taglia tutti i ponti possibili e si chiude, come si è visto, ancor più in se stesso; la sua ribellione consiste, sostanzialmente, in un esilio che vuol dimostrare la propria autosufficienza. Se l’aver seguito le regole di Dio ha portato lo sfacelo dell’ordine precedente, l’ordine nuovo deve essere costruito senza il suo aiuto: la buona riuscita rappresenterà la vittoria del vecchio, il suo riscatto nei confronti di un governatore incapace, indifferente e ingiusto.

La protesta, nel suo caso, si realizza concretamente attraverso un’operazione di rimozione costante delle cose di Dio dalla vita della nuova famiglia: egli non partecipa

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più alle funzioni liturgiche e decide di far istruire il promettente figlio non dai preti, verso i quali mantiene «l’antica avversione», ma da un maestro di scuola comunale.

Ché la felicità non aveva scancellato la nota idea fissa dal testardo cervello del vecchio; anzi ve l’aveva radicata, sembrandogli, tale felicità, una conferma dei suoi principî, che val meglio appartarsi dalla Chiesa; e insieme una sua personale riscossa nei confronti di Dio (MS: 339).

La vicenda del personaggio, sotto questo aspetto, non rappresenta un caso isolato. L’opera di Elsa Morante è, invero, costellata di personaggi che sfidano il divino, visto ora come un autocrate, ora come tiranno, ora come un creditore inadempiente. Se ne propongono alcuni esempi, che a vario titolo si rivelano affini a quello preso in esame. Edoardo Cerentano è tra i primi disertori della causa religiosa. In lui, l’indomabile e fanciullesca insofferenza verso ogni simbolo d’autorità si unisce al rifiuto di «tutto quanto è fermo, ineluttabile ed eterno: un odio prossimo allo spavento» (MS: 164). Tali aspetti sono tipici dell’egotismo proprio della giovinezza: tutto ciò che ostacola la contemplazione di sé, la fame di scoperte, di imprevisti e, di contro, pone le basi dell’impegno e della stabilità, deve essere espunto, pena la rinuncia alla libertà, alla spensieratezza. Dio, in quanto responsabile sommo di tutte queste limitazioni, è un «carceriere» la cui esistenza va negata o, almeno, ignorata.

Per Aracoeli, invece, l’apostasia è il risultato di una promessa mancata. La protagonista del romanzo omonimo è animata da un cattolicesimo elementare ma parecchio fervido, legato a una visione di un Dio dalle funzioni più diversificate:

Ancora, a quei tempi, per Aracoeli e per me, Dio (preferibilmente sotto la specie di Nostra Signora) si adattava a tutte le incombenze: prestandosi, all’occasione, a dare da bambinaia, da postino, e anche da sonnifero (ARA: 159).

In particolare, era stata addirittura sant’Anna, «la nonna di Dio», apparsale in sogno, a prometterle una figlia. Ma, avverte Manuele, la nonna di Dio «barava» (ARA: 122). Infatti, la piccola Encarnacion avrà vita brevissima, e tale avvenimento si porrà a principio del grande cambiamento della donna, che il figlio condensa in alcuni episodi, tra i quali assume particolare rilevanza, per il presente ragionamento, quello intitolato «la chiesa».

Anzitutto, dopo la morte di Carina, Manuele prova un «orrore» che gli blocca i sensi: «non per l’addio della hermanita, ma per il sospetto spaventoso che mia madre […] le

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volasse dietro» (ARA: 238). E in qualche modo, quanto era avvenuto per Ida alla morte di Useppe, accade nuovamente qui, a una madre che impazzisce per il dolore di aver perso la propria creatura, tanto più forte quanto più la maternità è sentita come qualcosa di dovuto; per tale ragione, dunque, ingiustamente sottratto. La perdita produce un corto circuito tra la condotta di Aracoeli, sempre fedele e costante nell’adempimento dei propri, talvolta originali, esercizi religiosi, e il nuovo volto di una divinità che le toglie ciò che aveva desiderato di più. Si ritrovano qui le gravi prove bibliche di Abramo, di Giobbe. Ma i personaggi morantiani, più in linea con la generazione del deserto dei figli di Israele, più simili al «popolo dalla dura cervice» che non ai grandi esempi di costanza e fedeltà appena nominati, non sembrano quasi mai reggere la loro prova.

E la donna, inizialmente, continua a mantenere le proprie abitudini, talvolta esagerandole – «essa riprese a frequentare la chiesa. Alla fine della messa si prostrava a terra come i musulmani» – per poi abbandonarle e ritornare ai luoghi frequentati, solo alla fine, per la resa dei conti:

Sembrava corresse a un voto – a un adempimento; ma appena in vista della chiesa, si piegò a sedere sullo scalino di un portone lungo il marciapiede opposto, con un piccolo ansito lamentoso (ARA: 311).

Nell’avanzare lungo le navate, la donna prende «un’aria teatrale, da congiurata», non si piega nella «solita genuflessione», rimane a «capo scoperto, come un’eretica»; assume, in definitiva, una serie di comportamenti che fanno intendere al figlio la «trasgressione definitiva» messa in atto. A tal punto il bambino è condizionato da tali segni, che la chiesa gli appare come «un deposito provvisorio della morte», «dove ogni parola del mondo è storpiata», e così pure il linguaggio liturgico: agnus si trasforma in ragno, e così via (ARA: 314).

Prima ancora di trarre le conclusioni, mi sembra si possa già osservare come la ribellione di questi personaggi prenda sempre la piega di una rottura definitiva; vale a dire che il sacrilegio rappresenta un atto di rifiuto verso un Dio che li ha creati per poi renderli infelici.

Un altro personaggio in conflitto col trascendente è, senz’altro, Nicola Monaco. Il medesimo minimo denominatore comune al giovane Edoardo – attaccamento alla vita, ansia di libertà e di conquista, ambizione e megalomania – è rafforzato, nel suo caso,

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considerazione che ha di sé lo spinge ad entrare in competizione con Dio, al punto di farsi egli stesso divinità.

Da lui preferiti eran quei pezzi le cui parole suonavano eresia, ribellione o invettiva. Per esempio, egli amava intonare il Credo di Jago […].

Un sorriso beffardo gli increspava le labbra quasi che egli intendesse veramente lanciare una sfida a Dio, e nello stesso tempo fare intendere agli ascoltatori quali amare profondità contemplasse in quella sua canora bestemmia (MS: 77).

I brani evangelici da lui citati vengono storpiati in tono dissacrante20; egli invoca la testimonianza di Dio per giurare il falso21; si professa ateo22, tenendosi così anche a debita distanza dalle superstizioni popolari23; infine, non stenta a proporsi, davanti a un pubblico di bifolchi, come un «redentore, un difensore degli umili», senza stancarsi di sciorinare i concetti dell’uguaglianza, della disparità sociale, destando l’incanto degli ascoltatori con parole in realtà vuote, «belle a udirsi soltanto per la sapienza e la ricchezza del predicatore, ma inaccessibili agli umili» (MS: 322).

Di fattura simile, ma non identica, saranno i discorsi di Francesco e di Davide Segre all’osteria. Essi condividono l’incapacità (o la mancanza di volontà) di veicolare messaggi importanti rendendoli, al tempo stesso, fruibili dalle masse; è un problema che Morante ha molto a cuore almeno nella Storia, romanzo nato con intenti divulgativi, nel cui esergo si legge il passo del vangelo di Luca che nega il privilegio della verità ai dotti e ai sapienti, e lo riserva agli umili (Lc 10, 22).

Nel caso di Davide, però, il giovane è animato da convinzioni, senz’altro, più nobili che non la mera esigenza di stare sotto i riflettori. Il suo pensiero, alimentato da letture politiche di area anarchica, confligge con l’idea di Dio, ma la sua disposizione intellettuale giustifica lo scetticismo religioso con motivazioni più articolate. Inoltre, in lui, l’eredità ebraica si scontra con l’inclinazione verso una concezione spinoziana e immanente della divinità.

20 MS, p. 102: […] o citava: Beati i poveri di spirito ché per essi è il regno dei cieli, non già, però, secondo il significato evangelico, bensì con ironica intenzione: sottolineata dall’aggiunta ch’egli faceva, in tono sarcastico, e della terra.

21 MS, p.102: «egli chiamava Dio a testimone della prossima inconcussa onestà». 22 MS, p. 352: «lo sai ch’io non credo nemmeno alla Santissima Trinità».

23 MS, p. 332: «Nicola rise, e dichiarò di conoscere un sortilegio che fugava qualsiasi apparizione; ma soggiunse, tali apparizioni esistevano solo nella fantasia degli ignoranti, giacché gli spiriti dei morti erano sotterrati con essi, e da tempo ridotti in polvere».

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1.1.5 Atto di accusa e professione di innocenza

Anche Davide, come Damiano, durante la sua ordalia impugna una causa contro Dio. Le immagini che egli ha davanti, nel bugigattolo che era appartenuto a Santina, sono l’oleografia del sacro cuore e il ritratto di un signore in abiti vescovili.

E quello era Dio: un giovanotto melenso, roseo, con una barbetta bionda, e un pezzo di corata fra le mani; e un vecchio balordo, con tutte le bardature del potere istituito e dell’autorità (LS: 608).

Egli ne ricusa la santità, perché, se fosse autentica, essa non si fregerebbe dei segni della signoria e del potere. Dopo di che si addormenta, e sogna un incontro con «il re» di un «albero maledetto» (leggasi: quello biblico della conoscenza). In una mescolanza di spunti politici, filosofici, a metà tra gnostici e religiosi, Davide avvia con lui una diatriba sul valore della conoscenza e, tra le altre domande, gli chiede: «perché avete scelto la bruttezza?». L’altro risponde che la bellezza era solo un «trucco» per far credere al paradiso, «quando si sa che tutti noi siamo condannati fino dalla nascita» (LS: 608). Qual è la condanna di cui si parla? Forse non siamo così distanti dal tema della maledizione, di cui si è detto sopra: la vita non è che orrore e sofferenza; e colui che ne è l’architetto non può che meritare l’invettiva di chi ha svelato il trucco. Di lì a poco, del resto, il giovane ebreo morirà di overdose.

Anche Manuele in Aracoeli, il quale – anche lui – invoca la morte, ma la invoca «per finta». Ancora una volta, siamo di fronte alla constatazione del male, ma anche di fronte all’orrore della morte, che ci impedisce di porre fine al male con la morte stessa. Chiuso in tale carcere in mezzo a due mostri, «la sopravvivenza e la morte, l’una e l’altra impossibili», Manuel non può che lasciar risuonare invano la sua indignazione:

Allora, presentati a quell’Uno che sta là seduto, e cantagliela, al Nostro Signore: che nella sua grande settimana lavorativa, lui, giorno dopo giorno, ha fabbricato un Lager. E il suo capolavoro del sesto giorno, è stato quest’ultimo scherzo di natura: un grumo di mali più pesante del caos, e senz’altri organi motori che due alucce di tignola. Cresci e moltiplicati nel tuo caro Lager, gli ha detto, in guisa di addio. E da allora, s’è ritirato a riposare, senza più occuparsi della fabbrica (ARA: 197).

L’urlo di Giobbe non è poi così diverso: la constatazione di un Dio che lo getta nelle mani dei malvagi, lo afferra per il collo, lo stritola e ne fa il suo bersaglio (Gb 16, 11-12), di un Dio che non presta attenzione al gemito dei moribondi e alle preghiere

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dei feriti (Gb 24, 12) è talmente incredibile per lui che vuole discuterne faccia a faccia. Ma la sua istanza è frustrata dal silenzio che persiste dall’altra parte (Gb 23, 8-9).

Eppure, egli continua a rivendicare imperterrito la propria innocenza («eppur egli conosce la mia condotta, mi ha saggiato come oro che passa al fuoco» 23, 10) e la sua moralità, ancorché queste non lo proteggano dalle decisioni imperscrutabili dell’Onnipotente, e a nulla vale provare a dissuaderlo, perché «e l’anima sua fa tutto ciò che vuole» (Gb 23, 13)

Damiano, dal canto suo, dovrà giungere alla conclusione che Dio non s’occupa, in tutta probabilità, della sorte degli uomini; di più, quel che è certo, non si dà pena per lui: «Il tuo Dio, questa è la verità, non s’è occupato di sapere come sarei rimasto, dopo quella strage che m’è toccata, quasi ch’io fossi un cane per lui» (MS: 327).

Nonostante tutto, entrambi, negletti e delusi, scelgono di proseguire la propria vita in rettitudine.

[…] fino a quando rimarrà alito in me, / e il soffio di Dio nelle mie narici – / le mie labbra non pronunceranno iniquità, / né la mia lingua asserirà menzogna. / Lungi da me che io giudichi aver voi ragione; / fino a che morrò, non cesserò [d’affermare] la mia innocenza. / Non abbandonerò la mia giustizia, a cui già m’attenni, / né di tutta la mia vita il mio cuore mi rimprovera nulla. (Gb 27, 3-6).

Purtuttavia, non pronunciò mai bestemmie, né mancò di rispetto ai preti con atto o parola. Non si macchiò di azioni disoneste, e seguitò a tenere il suo precedente costume di riservatezza e di parsimonia […] (MS: 327).

1.1.6 Le domande a Dio

Non resta che vedere, ora, come disputano i due uomini con il loro Signore. Giobbe resta animato fino in fondo, anche nei momenti di maggiore crisi, dal desiderio di ottenere una risposta dal suo imputato.

Oh! S’io avessi chi m’ascoltasse, / sì che l’Onnipotente esaudisse il mio desiderio! / Oh! Se Egli che giudica scrivesse il libello [d’accusa] / sulla mia spalla [come trofeo] lo porterei, / e me ne cingerei come fosse una corona! / A Lui di tutti i miei passi io darei conto, e [fiero] qual principe gli andrei incontro(Gb 31, 35-37).

Egli non può avere pace finché non gli viene accordato un segno concreto del suo peccato, tangibile e numerabile. Quel che pretende di sapere è quanti e quali sono le sue colpe e i suoi peccati (Gb 13, 23-24): se deve essere punito, almeno possa egli sapere di cosa viene denunciato.

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Anche Damiano ha in serbo parecchie domande, che ridondano sulla pagina a significare l’impossibilità di elaborare il lutto. I due uomini ripetono con insistenza questioni che li ossessionano, per poter dare un senso e un nome a quanto è toccato loro in sorte. Così Damiano si chiede perché, se il terremoto va inteso come castigo, tale castigo sia toccato a lui, che non ha mai commesso alcun male, mai bestemmiato e si è guadagnato di che vivere onestamente. Perché – si chiede – è toccato alle figlie, «che portavano giorno e notte le beate immagini sul petto, e s’alzavano di notte per andare alla Messa»; e infine alla moglie, anche lei pia e rispettosa del marito (MS: 326)? Come accennato, la risposta che gli offre il parroco (che le figlie e la moglie, essendo sante, erano state assunte in cielo come spose) non lo convince affatto. Ma, a differenza di Giobbe, essendo lui «timido» di fronte al prete, prosegue il dibattito nella sua mente. E obietta che se Dio le voleva in cielo non avrebbe nemmeno dovuto farle nascere, o almeno avrebbe dovuto evitare di farle diventare donne per poi strappargliele, negandogli in questo modo una valida compagnia e un sostegno per la vecchiaia. Infine, perché ha lasciato lui solo in vita e non s’è preso anche lui?

Il ragionamento di Damiano è più che mai razionale: una disgrazia che si abbatte con tale violenza è più di quanto possa sostenere un uomo, e lo stesso libro di Giobbe, del resto, è in parte la dimostrazione di come la sapienza antica non sappia far fronte al problema24.

Tuttavia, qui si apre il vero, grande divario tra i due personaggi. Anzitutto, come è stato già osservato, i due discorsi, pur condividendo alcuni contenuti, non condividono la forma, né la destinazione.

Giobbe porta le sue istanze all’esterno, in pubblica piazza, si rivolge a più interlocutori. Dall’interno le sue parole si irradiano e cercano di arrivare il più lontano possibile. Il suo è un discorso attivo e in movimento, quindi drammatizzato; alla fine egli, per questa sua insistenza, otterrà delle risposte. Pur protestando contro Dio, è sempre a Dio che egli fa appello; essendo, il creatore, «causa, legittimazione e responsabilità»25.

Il moto di Damiano è invece antitetico. Egli assorbe le parole degli altri senza riuscire a controbattere, si chiude al dialogo con il prossimo e, non a caso, in fin di vita (vedremo con quali conseguenze) si ritroverà completamente muto. Egli non agisce

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sulla realtà se non opponendo una strenua resistenza alle ingerenze ecclesiastiche e barricandosi nelle attività agricole. Questa è la battaglia che egli sceglie di condurre. Per questa ragione, le domande di Damiano non sono rivolte a nessuno – egli non spera nemmeno, del resto, in una replica – ed è lui che si risponde da solo. In definitiva, egli non comunica. Il suo è un monologo interiore. Non compie azioni sacrileghe e non aizza, non provoca l’Onnipotente; laddove invece Giobbe sceglie di continuare a cercarlo.

Ma dice sì a Dio; sì, subito, senza esitare, senza riflettere, senza tergiversare, senza opporre la minima contraddizione. Così, noi comprendiamo che, malgrado le apparenze, o a causa di esse, Giobbe continua a interrogare il cielo26.

Dove sono diverse le spinte, non possono che essere diversi anche gli epiloghi. 1.1.7 Epilogo

Questi, in realtà, a un primo sguardo sembrerebbero più che simili. Giobbe viene ristabilito nello stato di prima, addirittura si vede raddoppiare i propri beni. Gli nascono tre figlie, quindi ricostituisce una nuova famiglia, e vive ancora a lungo, assistendo alla venuta di quattro generazioni. Infine muore, «vecchio e sazio di giorni» (Gb 42, 10-17).

Il finale di Damiano segue il modello per intero. Egli mette su una nuova famiglia, con un figlio prodigioso e una moglie giovane. Tuttavia, il lettore sa che Francesco non è realmente suo figlio, bensì il figlio di Nicola Monaco, concepito da un rapporto extra-coniugale. Egli, invece, non conoscerà mai la verità. Quanto alla sua morte, essa prenderà, nella narrazione una piega grottesca, e il sapore amarissimo della farsa. Colui che, infatti, si era opposto, negli ultimi decenni della sua vita, così caparbiamente alla partecipazione dei sacramenti, giunto alla resa dei conti col suo nemico, passivo e impotente, perché ridotto ormai alla completa afasia, e quindi impossibilitato a pronunciare quell’atto di sfida che ha tenuto per sé, si vedrà costretto a ricevere l’estrema unzione. Al fine di mettere in evidenza l’ironia spietata con cui l’autrice tratta l’episodio, vale la pena riportare una parte consistente del brano.

Alla richiesta se intendesse in quest’ora riconciliarsi con Dio; perfino al nome dell’amato Francesco, rimaneva insensibile […] non aveva più altro negli occhi se non

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lo spavento della morte, come l’agnello fra le braccia del macellatore. Ma una donna presente nella casa, una monaca di casa che aveva fama di veggente […] la domanda s’egli volesse riconciliarsi con la Chiesa […] per cui, fra la consolazione e il giubilo delle donne, fu chiamato il parroco. […] Ma, poiché Damiano era stato per tutta la sua vita un giusto, e del suo solo, grave peccato di ribellione alla Chiesa, pareva essersi alla fine ravveduto, gli fu concesso dal Sacerdote il viatico del cristiano. Così il vecchio De Salvi, morendo in grazia di Dio, rientrava da cittadino in quella celeste Gerusalemme donde si era esiliato in vita con tanta ostinazione.

La donna aveva raccontato questi fatti in uno stile enfatico, accompagnato da grandi segni di croce e levar d’occhi al cielo. […] sapere Damiano morto in pace con Dio … Ah, quant’è bella la vita eterna, figlio! Comare Alessandra, quant’è bella la vita eterna! (MS: 373).

La parabola di Damiano si conclude, infine, con un ribaltamento parodico della storia di Giobbe. Lo schema biblico è qui accolto soltanto nelle strutture e in parte dei contenuti, come s’è visto. Il resto, invece, segue, per tono e stile, la postura sostanzialmente cupa e asfittica del racconto di Elisa.

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1.2 Ereditarietà della colpa

Come Damiano si paragona a Giobbe, ma a un Giobbe di second’ordine, anche suo figlio illegittimo, Francesco, riconoscerà nella sua sorte meschina, al di là delle proprie chimere, la condanna ad occupare i gradini più bassi della scala sociale27. L’occasione per questa presa di coscienza è offerta dall’osservazione del delirio dell’angelo caduto Gabriele, che ogni sabato sera investe le strade del paese con le sue querele, mentre per tutto il resto della settimana è un cristiano devotissimo.

La scena, assunta simbolicamente, si rivela a Francesco quale crudo exemplum dell’esistenza alla quale sono condannati tutti gli umili, ingannati e repressi da una religione che mistifica la morte con la vita e costringe in una società alienante, e si manifesta, nel concludere circolarmente la parabola del povero cristo che connota puntualmente tutte le diverse fasi della sua vita paesana, quale specchio fedele della sua propria esistenza: Francesco è un paria e il suo destino è inalterabile28.

Emanuella Scarano ha messo in evidenza come, in Menzogna e sortilegio, al «conflitto tra il piano ideologico e quello economico» – inteso qui come motore stesso delle vicende narrate – «venga fatta risalire la malattia psichica dei personaggi: malattia rovinosa ed ereditaria che si trasmette di generazione in generazione»29. Se la studiosa, tuttavia, lega giustamente il tema dell’ereditarietà a influenze di matrice ottocentesca30, facendole coesistere con influenze freudiane, si tenterà anche qui di aggiungere l’ulteriore filone biblico.

Anche il giovane De Salvi si dichiara, a più riprese nel romanzo, nemico di Dio, tanto che Elisa deve nascondersi per poter furtivamente fare un segno di croce passando insieme a lui davanti a una chiesa (MS: 462). Egli fa convergere su di sé un’inimicizia che accomuna, per ragioni diverse, i suoi due padri.

I discorsi uditi nella prima infanzia, da Damiano e ancor più da Nicola Monaco, e le sue proprie riflessioni, gli avevano dipinto questa volontà [divina] quale una nemica. Inutile pregare, inutile tentar di comunicare; unico mezzo per vincere, era di opporre ad essa la propria volontà umana (MS: 371).

27 Cfr. BARDINI 1990, p. 254-255. 28 Ivi, p. 255.

29 SCARANO 1990, p. 151. 30 Cfr. Ivi, p. 98.

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Ma egli, dopo aver assistito alla ben nota manifestazione di delirio di Gabriele, comincia un’invettiva contro la madre Alessandra, attribuisce la colpa delle sue disgrazie a colei che si è macchiata di «delittuosa concezione» (MS: 393). Il motivo della colpa delle madri di generare figli condannati all’infelicità – lo si è già visto – oltre ad essere frequentato largamente da Morante nel ventaglio della sua produzione, ha una vasta genealogia, dalla classicità al Tristano di Leopardi; nel caso specifico, però, esso trova un referente biblico inequivocabile.

Infatti Francesco, come Damiano prima di lui, per la sua arringa sceglie una testimonianza religiosa, «ch’egli avrebbe dovuto tenere per falsa»; inoltre, come il vecchio porta sul banco degl’imputati Dio, così il giovane impugna l’accusa contro l’adultera Alessandra, avvalorandola con un passo della Bibbia:

Ma i figli degli adulteri non giungeranno a maturità, e la stirpe d’un talamo iniquo sarà distrutta.

E quando abbiano lunga vita, non saranno stimati, e disonorata sarà la loro vecchiezza.

… perché acerbissima fine avrà la stirpe dei malvagi … (MS: 393).

Il frammento, tratto dal terzo capitolo del libro della Sapienza (vv. 16-19), fa parte di un brano in cui si stabilisce un paragone tra la sorte dei giusti e quella degli empi. Nella premessa a questi versi si sostiene che è preferibile la sterilità di una donna a una progenie ottenuta con l’adulterio, dunque nel segno del peccato. Anzi, la donna sterile e l’eunuco saranno premiati se non hanno fatto il male, perché a Dio sono gradite le opere dell’uomo purché compiute con saggezza, mentre non c’è consolazione per coloro il cui operato è in disaccordo con le sue leggi. Tutta la citazione è, naturalmente, inserita nel racconto in riferimento al caso specifico di Francesco; di un figlio, cioè, nato fuori dal matrimonio e, per tale motivo, destinato a una vita difficile, senza radici e senza l’opportunità di collocarsi da qualche parte nel mondo. Tuttavia, in un romanzo come quello in questione, ricco di allusioni ma piuttosto parco di citazioni, pare opportuno indugiare su quelle poche, ancor più se – come la presente – piuttosto esplicite, nel caso in cui esse si rivelassero spie per un’interpretazione che dal luogo in esame comprenda fasce più ampie di testo.

1.2.1 La teoria della retribuzione

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corrisponde un castigo divino, che può ricadere direttamente sulla persona o sugli affetti o sui discendenti. L’idea che la colpa si trasmetta di generazione in generazione ha origini remote ed è comune, nel mondo antico, anche se non in dialogo, a quello classico.31 I greci rispondono all’interrogazione sul male con concetti come quello di destino, fato e necessità (moira, ananke).

L’Antico testamento, dal canto suo, si sforza di penetrare il mistero del male nella storia su diversi piani: dalla funzione pedagogica del dolore nel Deuteronomio alle suppliche dei Salmi, fino al dolore come espiazione del peccato altrui in Isaia, si tenta di dare una risposta, quando non razionale, quanto meno teologica, capace di vedere la sofferenza, anche quella più incomprensibile, come mezzo che conduca a uno scopo, sia esso catartico o salvifico, o apra la breccia a un più profondo rapporto col divino, a un cammino di crescita dell’uomo32.

In questo panorama piuttosto variegato, una dottrina che ha avuto molta fortuna nella teologia di Israele è, per l’appunto, la proposta sapienziale della retribuzione.

Secondo questa teoria ogni sofferenza è sanzione di peccati personali. La sua applicazione può rivestire forme differenti: retribuzione terrena e personale (Pr 11, 21-31; 19,17; Gb 22, 2), retribuzione collettiva (Sir 11,20-28; Qo 9, 5), retribuzione immediata retribuzione differita (Sal 37, 10; 49, 17; 73, 18-19; Gb 8, 8 sgg.; Sir 11, 26-28), retribuzione escatologica (Sap 3).33

La teoria della retribuzione è la risposta morale che le Sacre Scritture offrono al problema della sofferenza; è una risposta logica e in certa misura consolatoria: «Ecco, il giusto riceve la sua retribuzione sulla terra, quanto più l’empio e il peccatore!» (Pr 11, 31). Secondo un criterio meritocratico, sofferenza o felicità sono dirette conseguenze del comportamento dell’uomo. Non molto dissimile sarà il criterio che condurrà, secoli dopo, la Chiesa a concepire la tripartizione giuridica dell’aldilà secondo un sistema di pene e ricompense organizzato in inferno, purgatorio e paradiso – vedremo, più avanti, come questo ha a che vedere con la necessità di spostare il tempo della giustizia, di una rendicontazione più equa, a un livello ulteriore.

31 Cfr. d’angeli 136: il recupero dei miti greci e della cultura tragica… influenza della Weil. 32 Cfr.RAVASI 1989,p. 27.

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Un atteggiamento religioso di questo tipo non può che scatenare la contrarietà di chi vi riconosce la mercificazione di cose spirituali, ridotte tutte a una compravendita per un buon posto nell’aldilà. Così Edoardo si esprime rispetto alle donne di casa sua: Guardate la loro religione: esse vanno ogni mattina, presto presto, tutte affaccendate, a depositare in chiesa avemarie, voti, genuflessioni, fioretti, come si depositano i risparmi in banca. E in tal modo, contano di mettere insieme un capitale di beatitudine sufficiente per vivere di rendita in Paradiso durante tutta l’eternità (MS: 224).

La teologia veterotestamentaria spinge il concetto all’estremo delle sue potenzialità: non solo il peccatore viene punito per la sua colpa, bensì essa può trasmettersi ai suoi discendenti. Si guardi, ad esempio, il brano del vangelo di Giovanni (9, 1-2): «passando, Gesù vide un uomo, cieco fin dalla nascita. I discepoli gli domandarono: “Maestro, perché costui nascesse cieco, chi ha peccato, lui o i suoi genitori?». In queste righe è condensata l’idea che persino una menomazione fisica congenita, cioè un male che non si può presumere la conseguenza di un peccato individuale, si possa spiegare facendola risalire a un piano anteriore, i parenti più prossimi.

Non sembra casuale, allora, che proprio in Menzogna e sortilegio, romanzo imperniato su concetti come quello di ereditarietà, di malattia familiare che produce coazioni a ripetere anche in diacronia, per cui i figli, quasi vittime di un incantesimo che li imprigiona, ripetono identici gli stessi errori fatali compiuti dai genitori – non sarà allora casuale che attorno a questo nucleo tematico, da ricondurre in primis, senza dubbio, ad ascendenze psicanalitiche e in particolar modo freudiane,34 venga inserito un brano biblico che condivide moltissimo con tutto questo. E ciò vale sia per la narratrice che per i suoi protagonisti.

La storia di Elisa indaga e spesso domanda (al lettore, a se stessa) la ragione della sua reclusione, del suo isolamento. Per ottenere una risposta, ella sente di dover ripercorrere tutti gli avvenimenti fin dal principio.

Forse, costoro son tornati a me per liberarmi dalle mie streghe, le favole; attribuendo a se medesimi, e a nessun altro, la colpa di aver fatto ammalare di menzogna la savia Elisa, voglion guarirla. (MS 30)

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«Elisa ha individuato nei suoi morti i colpevoli della propria malattia. Perciò li punisce e, narrando la loro insania, li fa oggetto di una sorta di rito sacrificale a se stessa»35: secondo Scarano tale procedimento sarebbe un trucco grazie al quale la narratrice si sottrae alla necessità di indagare al proprio interno. Elisa è una maga, dunque, che, come Atlante, ha architettato questo grande palazzo di finzione (le prime quattro parti del romanzo) in cui muove i suoi burattini facendogli inseguire un oggetto del desiderio che svanisce non appena si illudono di averlo afferrato, e tutto questo non allo scopo – come vuole farci credere – di gettare luce sulla verità, bensì a quello di sviare, di proiettare i suoi problemi su qualcos’altro di più esteriore e calato dall’alto, quale sarebbe, appunto, un’eredità di cui non si può avere colpa. Tanto che fallisce persino l’intento di «dare un nome alle cose» per esorcizzarle e liberarsene36 – quel che sarà lo scacco finale della narratrice.

L’iterazione come meccanismo narrativo è ben visibile nell’organizzazione dell’intreccio. Per fare solo qualche esempio, se si osserva la coppia Anna-Cesira, queste due donne nemiche riflettono nella loro storia un destino comune, esemplificato dai due titoli identici: Mia nonna fa un matrimonio di interesse (MS: 46), Mia madre fa un matrimonio di interesse (MS: 404). Madre e figlia, pur odiandosi, sono costrette a vivere insieme tormentandosi a vicenda. Apparentemente così lontane caratterialmente, esse paiono non aver scampo né scelta rispetto al proprio destino, come guidate da una forza superiore che può condurle solo in una direzione, a infrangersi sempre sullo stesso scoglio. Lo «sdoppiamento/sovrapposizione»37 nella costruzione dei personaggi di Anna ed Elisa trova l’archetipo in Cesira, da cui si promana per filogenesi una «scia» di colpa che vincola le discendenti a una sorte molto precisa. E quando Anna Massia sarà costretta, per inedia, a scendere a compromessi con la realtà offrendosi sposa a Francesco, e in un lungo monologo da eroina tragica illustrerà la sua condizione, spiegherà anche che la causa della scelta di sposarsi non è da imputarsi alla sua volontà, ma serve a placare l’ossessiva ecolalia della vecchia, che l’accusa di averle gettate nella miseria:

35 SCARANO 1990, p. 152. 36 Ivi, p. 168.

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Di tutto ciò, dentro di sé, lei dà a me la colpa; e s’io non le facessi paura, non si stancherebbe mai di gridarmi chi sa quali accuse! Come se la colpa, in simili casi, fosse dei figli! (MS: 408, corsivo mio].

Anna rivendica in qualche modo la sua innocenza, la sua assenza di responsabilità rispetto alle condizioni in cui versano le due donne.

Come fa notare Scarano, in Menzogna e sortilegio l’assetto ripetitivo della narrazione è annunciato da Elisa sin dal principio in modo programmatico: Elisa spiega che la scaturigine del suo racconto è il suo graduale procedere verso l’isolamento, paragonabile a una «malattia per consunzione», e tutto questo a causa di un’eredità «impalpabile, ma molteplice» e «inesauribile» consegnatale dai suoi genitori (MS: 18).

Le duplicazioni e le specularità che si riscontrano entro l’ambito tematico delle relazioni familiari, sono così numerose e talvolta puntuali, pur nelle sensibili differenze che contraddistinguono ogni replica, da evidenziare una trama in cui l’insieme delle azioni e dei comportamenti che si susseguono lungo la diacronia della storia, tende a proporsi anche, in termini paradigmatici, come serie di variazioni su un numero assai basso di elementi tematici38.

Che sia una macchinazione della narratrice oppure no, rimane pacifico che l’aspetto del morbo ereditario sia, come dichiarato da Elisa stessa a più riprese, centrale nel romanzo. E quella che, a mio avviso, si connota anche come ereditarietà della colpa non viene affatto risolta – tutt’al più essa è problematizzata – ma infine accettata da Elisa come legge immutabile. Anna Massia, «la più bella», non è che la suprema rappresentante di un processo di estinzione che piegherà alfine entrambi rami della famiglia con tutti i suoi membri (con l’eccezione di Alessandra, l’adultera colpevole di una progenie iniqua), afflitti dal medesimo male e macchiati delle medesime colpe. Anna, colei che porta fino alle sue estreme conseguenze la perseveranza nella menzogna, fino al martirio, giungerà perfino, in punto di morte, a confondersi con Concetta, condensando su di sé il desiderio incestuoso, di cui è colpevole, in tutte le direzioni: dalla figlia verso il padre, verso il cugino, da madre verso il figlio. Le sue colpe, tuttavia, tali da provocare la morte, originano, a loro volta, da un unico albero maligno.

In verità, il suo veleno mortale nasceva da quei medesimi, fantastici vapori […] dei quali […] van cinti i principali personaggi della nostra dinastia. Donde nascevano,

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infatti, le smanie della lunatica Cesira? E la magniloquenza decadente di Teodoro? E i furfanteschi ideali di Nicola Monaco? E le millanterie di Francesco? E il nostro fatuo viaggiatore, in compagnia del suo gemello, il visitatore Anonimo? E non furono quei vapori medesimi che, addensatisi, calarono un fitto riparo nero attorno alla dolorante Concetta? E non sono, quei fumi, i soli, incorporei compagni della solitaria Elisa? […] quei vapori lunari ed erratici sono i soli numi della mia epopea familiare (MS: 689).

Mi sembra che tutto questo assuma maggiore valenza se da Menzogna e sortilegio si allarga lo sguardo sulla produzione successiva.

Nell’Isola di Arturo, ad esempio, continua a vigere l’idea superstiziosa, presente già nel primo romanzo, di una divinità che scruta dall’alto, giudicante e punitrice, idea che unisce aspetti religiosi prettamente popolari con l’immagine di un Dio più vicina all’Antico che non al Nuovo Testamento. Questo tipo d’immaginario, però, stavolta non appartiene alle credenze del protagonista, ma è piuttosto affidato alle voci degli isolani, a un brusio confuso di dicerie che tuttavia il nostro narratore decide di trascrivere, conferendogli, in tal modo, un’esistenza, foss’anche al solo scopo di caratterizzare l’ambiente.

Così, se l’Amalfitano diventa cieco in vecchiaia e la sua casa è considerata interdetta e fatale alle donne (notizia trattata come diceria, eppure due femmine vi sono morte di parto e una ci è andata molto vicino), questo è il frutto di un intervento divino: «e dicevano che questo fosse un castigo di Santa Lucia, perché lui odiava le femmine» (LIDA: 17). Oppure la povera Assunta, il cui nome – insieme con quelli degli altri personaggi femminili di rilievo, Immacolatella e Nunziata – è un attributo della Vergine, nel subire la furia gelosa di Nunz. è fregiata dell’espressione «segnata da Dio», non irrelata, peraltro, nei romanzi di Morante;39 «un motto» – come spiega subito dopo il narratore – «d’indegna volgarità, usato nei nostri paesi da individui senza cuore per insultare gli storpi, gli sciancati e simili infelici» (LIDA: 291). Come per il cieco dalla nascita del Vangelo di Giovanni, qui si fa riferimento a una credenza per cui il peccato ha dirette conseguenze nel corpo, con la manifestazione nell’individuo di disabilità o handicap. Naturalmente, Nunziata avrà subito di che pentirsi; infatti, qualche pagina avanti la troviamo tremante ad infierire su di sé, dandosi della «dannata».

39 in altri due luoghi Morante mette in bocca ai suoi personaggi tale epiteto: lo dicono Anna a Francesco in MS, pp. 444-445, e Nora a Giuseppe in LS, p. 23

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