L’uscita dall’Eden rappresenta la fine delle certezze assolute. La caduta ha inizio quando Adamo ed Eva cominciano a mettere in dubbio le disposizioni di Dio, i suoi ordini; e questo può aver luogo perché il serpente mette in crisi la sicurezza di Eva su questioni che fino a un certo punto non sono state nemmeno oggetto di riflessione:
dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete (Gen 3, 2-3, corsivo mio).
Il rettile, infatti, induce la donna a mangiare il frutto, allontanando da lei l’idea della morte, anzi prospettandole il raggiungimento di una condizione divina, estranea, quindi, alla mortalità. Una volta fuori dall’Eden, quelle stesse certezze, venute meno, saranno sostituite dal lavoro, dalla fatica e dal dolore: «moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze», «con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gen 3; 16a, 19a).
Allo stesso modo, a Procida si possono ancora sciorinare le Certezze assolute, si possono lanciare invettive contro il lavoro, come fa Romeo l’amalfitano quando consegna a Wilhelm la sua «reggia delle favole, il paradiso terrestre»: il lavoro mortifica la fantasia, pertanto è meglio vivere senza alcun mestiere, «magari accontentarsi di pane solo, purché non sia guadagnato» (LIDA 65).
Ma anche fuori dall’isola non ci saranno più sicurezze, così come i genitori dell’umanità sono stati condannati alla fatica, al dolore e all’esilio; l’uscita dall’Eden segna l’inizio di un percorso di ricerca dell’uomo che non sa più nulla, che non vive più con Dio. Eppure, nella Bibbia, proprio a partire da questa mancanza può nascere la fede, come racconta l’esperienza del secondo padre Abramo (Gen 12-25). Così,
lasciando l’isola per scomparire nel nulla, Arturo, ormai pura voce […], sente che tutte le certezze sono venute meno; pure la certezza, in fondo, che non ci sono certezze. La vita, fondamentalmente, è un mistero, e l’io è il primo e il più grande di tutti i misteri; il dubbio cartesiano, che già trionfava con la messa in evidenza della coscienza, finalmente frana per cedere il posto al «sospetto»133.
Bardini, non a caso, evidenzia l’affinità tra Arturo e Adamo, individuando pure, nel romanzo, altri elementi del racconto biblico, come l’affacciarsi del «triste genio smorto» che, come un «serpente-uscere», gli fa prendere coscienza del proprio peccato134; fino al ruolo diabolico di Tonino Stella, che contamina lo spazio incantato di Arturo rendendolo inabitabile: «il serpente che fa aprire gli occhi e costringe a dover riconoscere il bene e il male»135. Ma prima dello scontro finale col suo «doppio negativo»136, Arturo conosce il sapore dell’infrazione, per mezzo del «bacio fatale» dato alla sua matrigna. Se fino ad allora – riflette il narratore – l’isola era stata per lui «un paese d’avventure, un giardino beato», a partire dall’infrazione del bacio, essa appare una «magione stregata e voluttuosa», nella quale egli non trova mai di che saziarsi, «come lo sciagurato re Mida» (LIDA 267).
Gli episodi preliminari alla cacciata sono costituiti da un insieme di prime volte per il protagonista: il primo bacio, la prima volta che dice ti amo, la prima volta che chiama Nunziatella per nome. Tutti questi episodi hanno a che fare con la scoperta dell’amore, pur nella forma embrionale dell’innamoramento. E, come recita Alibi, lirica pressoché contemporanea all’Isola, «solo chi ama conosce» (AL ?): l’amore è la forma più autentica di conoscenza, ma la conoscenza è idiosincraticamente incompatibile con l’Eden.
Scacciato, allora, l’ultimo residuo di illusione nella resa dei conti con Stella, la partenza si rende ormai necessaria, per le ragioni appena elencate. Perché Arturo deve portare a compimento il suo destino (si pensi alle parole di Cristo sulla croce: «tutto è compiuto» Gv 19, 30) e toccare la pienezza della vita da lui tanto anelata:
Il sogno fatato dell’isola è una deiezione, un non attenersi a se stessi, al proprio destino, per decadere attratti dalla straordinaria bellezza del mondo e degli enti intramondani (una bellezza che, peraltro, resta
133 BARDINI 1999, p. 397.
indimenticabile). E Arturo, perdonando in maniera affatto sincera coloro che con le loro vite, e con le loro visioni del mondo, hanno determinato e aperto la sua vita […] lascia per sempre l’isola per farne il suo «piccolo punto della terra».
L’isola di Arturo riprende dal di dentro l’esperienza del giardino: nella sua luce, spiega Morante, «anche le cose torbide prendono un colore fantastico, da paradiso terrestre, prima dell’inferno» (Cronologia, LXVI). Nei romanzi successivi, accade spesso che l’autrice si occupi piuttosto di rappresentare la vita dall’altra parte, da quell’«inferno» ineludibile che è il mondo stesso, e di verificare quali sono gli effetti dell’espulsione dalla condizione beata.
Manuele è colui che più di tutti fa le spese dell’uscita dal giardino – Aracoeli, infatti, è tutto incentrato sul bilancio di una vita che è definita significativamente come «esperienza della separazione» (ARA 20). La condanna è la stessa, per tutti. Nella vita di ognuno si verifica sempre un trauma che sancisce l’ingresso nel mondo degli adulti, o detto in altri termini, la fine dell’infanzia. Per Francesco De Salvi, ad esempio, la katastrophe è rappresentata icasticamente dal vaiolo, che lo segnerà nel corpo, determinando la fine (nella sua percezione) delle attenzioni di Nicola Monaco e della perfezione di cui si sentiva partecipe.
Eppure, ci sono delle eccezioni. Macroscopica, senz’altro, è quella di Wilhelm, il padre di Arturo, un personaggio inquieto e incapace di adattarsi alle norme e ai valori degli adulti, che sceglie di vagabondare senza posa, mantenendo Procida come base per i suoi piccoli spostamenti. Il suo carattere, pur segregato nel corpo di un uomo, conserva moltissimi tratti infantili. Egli raccoglie l’eredità spirituale di Amalfi; anche lui, infatti, disprezza le donne, in particolare le madri e il loro amore asfissiante – ma mentre per Amalfi l’incompatibilità esistenziale è di ordine estetico, per Wilhelm è di ordine etico. Le «femmine», per Wilhelm, sono responsabili dell’infelicità dell’uomo, perché devolvono la loro vita al sacrificio, e quindi alla morte137. A conferma delle proprie posizioni, il padre di Arturo chiama in causa la Bibbia: «È questo, che ha voluto dire la leggenda degli Ebrei, raccontando la cacciata dal Paradiso terrestre per volontà di una femmina» (LIDA 146).
Se non fosse per le donne, gli uomini vivrebbero come animali, seguendo i ritmi naturali di nascita e morte, la vita sarebbe una «giovinezza eterna, un giardino» (LIDA 146-7). Ma perché le donne sono delle dispensatrici di morte, come sembrano sostenere anche le Scritture?
A ben guardare, la prima condanna che riceve Eva per aver mangiato il frutto del peccato è il parto doloroso. Quindi, oltre ad essere responsabile della cacciata dal giardino, la prima donna ne tramanda la pena, dando avvio a una discendenza segnata dal dolore, e riversandole, come se non bastasse, un amore «che lavora per continuare la morte e la vergogna», cioè un impasto di «espedienti, ricatti, pretesti interessati» e «sentimenti servili» (LIDA 147). Infatti, per Wilhelm, se dalle altre «femmine» ci si può salvare, dalla madre non è possibile: «essa ha il vizio della santità … non si sazia mai di espiare la colpa d’averti fatto, e, finché è viva, non ti lascia vivere, col suo amore» (LIDA 143, corsivo originale).
Ecco, dunque, una prima interpretazione – che corrisponde, grossomodo, a quella letterale – della cacciata dal giardino, modellata sulle ragioni maschili di Wilhelm; quel che rimane, al di là di queste, è che il padre di Arturo lamenta la perdita di una condizione cui, tuttavia, continua ad anelare con irrequietudine; facendo, secondo la descrizione efficace di Nunziata, «come i cardellini» (LIDA 190, corsivo originale). Siamo di fronte a un caso abbastanza speciale e complesso nel panorama morantiano: Wilhelm è il «centro pulsante dell’intero romanzo, che incarna la contraddizione, l’ambivalenza, il “sospetto” e non la “certezza”»138, e condensa, come spiega la stessa autrice, contemporaneamente i tre «modelli» ai quali si riferisce ogni personaggio: «Achille, che è la vita naturale; Don Chisciotte, che è il sogno; Amleto, che è la disperazione, il rifiuto»139.
Gli aspetti importanti da sottolineare qui sono, ancora una volta, la sua incapacità di adattarsi alle condizioni dell’esilio, la «smania dello scandalo» che ne deriva («io sono uno scandalo», LIDA 140), nonché la ricerca instancabile di una condizione gli ricordi la bellezza perduta. Questi aspetti si rivelano fondamentali per cominciare a riflettere
su un testo di grande complessità, che in un certo senso si può considerare definitivo sul tema in analisi, perché ne è propriamente il manifesto: Il mondo salvato dai ragazzini.
2.2.3 Evasione e libertà
Chi è Arturo? Un prigioniero fra tanti.
Nei momenti di silenzio, soprattutto la notte, mi sembra qualche volta di udire di qua il rumore del mare; ma non può essere, il mare è assai lontano, per raggiungerlo, credo, bisognerebbe attraversare più di cento chilometri di deserto. […] Ho un sentimento d'essere destinato a morire in prigionia. Molti presagi, prima del sogno, me l'hanno detto. E se ritorno con la memoria al tempo passato, quando ero libero e abitavo a Procida, mi pare che già da allora molti segni mi annunciassero che dovevo morire prima di conoscere la vita, prigioniero in un deserto. Questa baracca è l'ultima casa che io abito e questa sabbia è l'ultima terra che vedo140.
Se Arturo è un prigioniero, se il territorio dell’infanzia, nei romanzi di Morante, è di norma uno spazio recintato nella solitudine e nell’abbandono, intorno al ’68 va registrato un cambiamento di prospettiva che, mantenendo le vecchie costanti, esprime in qualche misura un atteggiamento positivo, quando non fiducioso, rispetto all’apertura, sulla Terra, di qualche spiraglio paradisiaco.
I «ragazzini celesti» esistono, i «Felici Pochi» anche: abbiamo nomi e cognomi. Non sono numerosi, e di questi pochi ancora meno giungono a maturità. Ma essi rendono quella testimonianza per cui l’esistenza stessa acquista pienezza di senso e, conseguentemente, la poesia ne trae alimento e sostegno.
Il mondo salvato dai ragazzini introduce una forma di letteratura non più memoriale né interamente utopica – pur comprendendole entrambe –, bensì politica. L’opera si colloca in un punto di intersezione della produzione morantiana, rappresentando una «sintesi sorprendente»141 tra i romanzi già scritti e quelli ancora da scrivere. Si può osservare, sopra tutti, lo slancio che proviene da Procida, la cui presenza si rileva su piani diversi: anzitutto per i contenuti condivisi, ma anche una ricca di rete di rimandi e citazioni al romanzo del ’57.
I ragazzi celesti, i dedicatari di questa particolare narrazione, scorrazzano liberamente dal primo all’ultimo componimento. Prima di parlare degli F.P., che
140 ZAGRA 2006, p. 229. 141 FOFI 2012, p. V.
rappresentano il culmine e l’inno supremo, sarà opportuno dedicare uno spazio a quella sezione della raccolta, intitolata La smania dello Scandalo, che, tra le altre cose, fa ampio uso del mito della Genesi, liberamente interpretato dall’autrice. Le sue undici poesie sono propedeutiche alla terza parte, quella che comprende le Canzoni popolari142. Esse descrivono il ciclo della vita, che dallo stato prenatale giunge alla nascita e poi alla morte fino a un’altra nascita, attraverso un percorso costellato di conflitti e ripensamenti, perché venire al mondo significa gettarsi in pasto a una società che serve la morte, nascere significa diventare nutrimento per la morte stessa. questo percorso viene significativamente raccontato con immagini e figure che fanno parte dell’Eden morantiano. I riferimenti alla Genesi sono frequenti e, forse, non tutti visibili a un primo sguardo. Il tentativo, nelle prossime pagine, sarà quello di proporne un piccolo campionario.
Nella quarta lirica, l’io si rivolge a un voi – verosimilmente, i futuri ragazzini – dicendo: «voi siete rimasti nel giardino del primo giorno» e rassicura contro «l’ignominia di forme» che lo usurpa: essa «non è che un teatro irrisorio». Infatti, si spiega, non c’è nulla da temere perché, per loro, «è ancora il primo giorno», il loro feudo è intatto ed essi non devono avere paura della notte (MSR 115). A tal proposito, è importante osservare come quest’idea abbia gettato luce anche su scritti anteriori. Nel 1975, con l’occasione di una riedizione dell’Isola di Arturo per la collana einaudiana Gli Struzzi, viene scelto proprio il sottotitolo «Il primo giorno della creazione» a significare proprio il valore che Procida riveste, seppur a distanza di molti anni, nella codificazione del topos morantiano143.
Tornando al poema, davanti allo spettacolo della morte – dice la sesta lirica – «non c’è risposta. Almeno fino a un’altra genesi», laddove «genesi», in minuscolo, indica etimologicamente la nascita ma è anche un richiamo al primo libro della Bibbia. Quando nasciamo, «nessuno riconosce i nostri occhi illesi dalla morte» e «le ali del primo giorno battono implumi e sperdute» (MSR 118), prima di trovarsi immolati al «banchetto», prima della strage degli innocenti (MSR 119). Oltre al Genesi, si riconosce qui l’influenza dell’Isola di Arturo, presente – come si è osservato – in quanto luogo per eccellenza del «primo giorno della creazione». Ma l’isola è anche richiamata nel nono
componimento, in cui, dopo aver generato una vita, l’io femminile ritrova la giovinezza - «e così ritorno ragazza» - e la floridità, com’è avvenuto a Nunziatella dopo la nascita di Carmine. La ragazza riconosce gli occhi ancora bagnati di «fango celeste» del neonato. Più avanti, «l’isola in forma di Aquilone si staccherà dal carro di Boote» (la costellazione di Arturo, cfr. LIDA 11), mentre «l’isola nascente è ancora una palude di lava. Fra poco è il primo giorno». Infine, nella decima lirica, sempre la ragazza «con le sue braccia sferzanti / è una delle maie, che stendono / le loro variopinte sciarpe nuziali / sul pudore della prima luce»: qui il mito di Maia, caro a Shopenhauer, si fonde con «la tenda orientale» di Arturo, simbolo di maternità presente-assente, cioè percepibile unicamente come trascendenza. La sezione si chiude con una festa per la nascita, che è avvenuta ancora una volta, a dispetto di tutti gli avvertimenti.
Sempre nella decima lirica è possibile rintracciare l’intelaiatura biblica in cui la ragazza corre in «un paradiso degli eucalipti» abitato da «BESTIE D’UN ELEGANZA FAVOLOSA», sull’orizzonte dell’«arca semita dei diluvi / sotto un arcobaleno doppio incrociato / varca la striscia acquatica del cielo» (MSR 124; Gen 9, 13-15). Gli eucalipti sono «croci germoglianti tutte uguali per labirinti senza fine», forse in riferimento alla fine cui sono destinati i ragazzi celesti, o forse in riferimento ai non nati; da una di queste croci, comunque, «si stacca fresco assolato ridente il ragazzo Adamo», andando incontro alla ragazza, che ride (MSR 125). Se Il mondo salvato ha legami con L’isola, esso anticipa, per certi aspetti, anche La Storia e Aracoeli (i bracci della croce saranno un’immagine ricorrente nell’ultimo romanzo); proiettandosi in tal modo verso il passato e verso il futuro, il libro ne diventa il punto di raccordo, «l’intersezione delle croci, il punto amaro». Come sostiene Fusillo, qui sono presenti molti temi morantiani144. Sopra tutti, però, rimane forte la presenza di una matrice biblica, rielaborata e stravolta da Morante che, da lettrice attenta delle Sacre Scritture, mescola episodi evangelici come quello, ad esempio, dell’Annunciazione con la favola di Adamo ed Eva:
La lirica si conclude con la rappresentazione della nascita più celebre, quella degli esseri umani nella Genesi: la protagonista incontra il primo
144 Cfr. ARDENI 2014,p. 131: «In entrambe le liriche ci sono, infatti, la quasi totalità dei temi individuati da Massimo Fusillo come “i nuclei centrali della poetica morantiana: infanzia – sogno – eros – animalità – corpo – idiozia – finzione – metamorfosi – ambiguità – musica – mito,” ovvero “una costellazione di temi che è in continua tensione con la visione conscia e ‘razionale’ del mondo”».
uomo, Adamo, descritto tramite il triplice asindeto “fresco assolato ridente.” Dell’Aia è del parere che tutta la poesia sia la rappresentazione dell’infanzia del mondo poiché non solo l’unico verso in maiuscolo — “LE BESTIE D’UNA ELEGANZA FAVOLOSA” — è la traduzione di un verso della poesia di Rimbaud Enfance (infanzia); ma il racconto della nascita di un fanciullo divino alluderebbe anche alla nascita dell’universo tutto, che è effettivamente rappresentato nella lirica145.
Come spiega Rizzarelli, il ragazzo Adamo è il capostipite dei Felici Pochi, inaugurando così la terza parte della raccolta.
E se «l’urlo del ragazzo che precipita» si sente ancora risuonare nei versi della Sera domenicale, se ancora nell’allucinata riscrittura dell’Edipo della Serata a Colono la maschera morantiana grida il dolore per la propria sopravvivenza («meglio per me sarebbe non essere nato, piuttosto che vivere»), cessando alla fine «di chiamare amanti morti, madri morte», nella Smania dello scandalo la scrittrice dà il benvenuto alla nascita del nuovo «ragazzo Adamo». Dalla scoperta di questa novella primogenitura discende tutta la stirpe degli F.P., i «Felici Pochi» a cui è intonato l’inno della terza parte del Mondo146.
Chi sono i Felici Pochi? Secondo alcuni147, essi riflettono i protagonisti dei movimenti studenteschi di quegli anni: sono i giovani che protestano a favore della costruzione di una nuova società, più equa e più libera. Tuttavia, non si può tralasciare che molto di quanto viene scritto nel Mondo affonda le radici molto tempo addietro, prima degli anni Sessanta. Per parlare ai suoi contemporanei, Morante si serve di un serbatoio tematico già pieno ai tempi dell’Isola di Arturo, rielaborato ad hoc, e variamente attinto fino agli anni Ottanta148. Ai fini di questa analisi, non è un fattore di primaria importanza che i destinatari contingenti dell’opera siano gli studenti: vale la pena, piuttosto, considerare il respiro universale che risiede certamente nell’intento dell’autrice: «ciò che dicono il Mondo e il Manifesto vale e verrà sempre per ogni generazione a venire, nel momento in cui i nuovi arrivati, i “ragazzini”, si vedranno costretti a far fronte all’ignominia della Storia»149.
145 Ivi, p.131.
146 RIZZARELLI 2009, p. 142.
L’elemento di discrimine tra i Felici Pochi e gli Infelici Molti, oltre alla felicità, come dice il nome stesso, che però non è visibile ai più, perché hanno gli occhi offuscati dai fumi dell’irrealtà, è il rapporto di non subordinazione che essi, per una grazia speciale, riescono ad instaurare con il potere. In sostanza, la loro libertà consiste nella rinuncia all’ambizione e nell’esercizio della bellezza disinteressata, estranea al desiderio di guadagno e al successo. Persino «il desiderio del paradiso è servile», come dice la Canzone, e saperlo è la loro «benedizione». Esiste una gratuità nell’essere felici che rende il gioco divino; esiste inoltre una dimensione di scommessa, di accettazione del mistero, di capacità di mettere in conto la possibilità della morte e giocare con essa, che è l’unico preludio alla vita. Questo è il passaggio che noi tutti, abitanti del paradiso terrestre in esilio, siamo chiamati a compiere per evadere dalla prigione dell’irrealtà, che è il rischio più alto del diventare adulti. La paura della morte è intrinseca all’uomo, fa parte della sua condizione originaria, anteriore all’uscita dall’Eden; è, se si vuole, lo stigma originario con cui veniamo al mondo. Adamo ed Eva mangiano il frutto perché sono indotti a credere che così non moriranno. Ma sono stati ingannati perché, una volta usciti dal giardino, la morte continua a nascondersi dietro ogni angolo. Allora, i Felici Pochi compiono un passaggio ulteriore: per poter scommettere sulla vita, accettano la posta in gioco fino in fondo, prendendo su di sé il rischio della morte.
Infine, ciò che salva dalla schiavitù è una qualità che si era già potuta osservare, dieci anni prima, in Nunziatella: l’incoscienza della propria bellezza, propria di una «rosa ignorante che non capisce i propri misteri»150. Tale condizione rende indipendenti, anzitutto, dall’approvazione altrui, dalla possibilità di successo e di giudizio sui propri comportamenti.
La vostra libertà è conoscere / che ogni meta di vittoria, ogni aspettazione d’applauso / è servile. La vostra bellezza non si vergogna né degli abbasso né