Nel suo lavoro, Kalay insiste molto sulla predilezione da parte di Morante per il mondo dell’infanzia e per le classi umili:
The only world that the author considers as yet unpolluted by distorted and corrupted bourgeois influences is the humble realm of the common people of the lower classes who, by virtue of being segregated and excluded from the “establishment”, do not share in its sickness97.
Quest’insistenza sull’esclusione è fondamentale per comprendere che, sia per quanto riguarda gli umili, sia per i bambini, quel che li preserva è l’assenza di contatto, di relazione con il mondo reale, inevitabilmente corrotto. E il giardino rappresenta proprio uno spazio libero per certi versi, ma segregato per altri, perché manca l’osmosi con il mondo. Da un romanzo all’altro, rimane costante la rappresentazione di situazioni di isolamento e di solitudine.
La cameretta di Elisa è lo spazio di una «sepolta viva», in cui non esiste la compagnia umana, ma solo quella degli spiriti familiari e del gatto Alvaro.
In questa cameretta io ho consumato, quasi sepolta, la maggior parte del tempo che ho vissuto in questa casa. In compagnia dei miei libri e di
me stessa, come un monaco meditativo […]. Solo mio compagno, dentro la stanza, è Alvaro, il quale è una creatura vivente, sì, ma non umana (MS 17).
L’isola di Arturo è la rappresentazione geografica dell’infanzia, circondata dal «mare materno»; anzi, come si legge nella quarta di copertina dell’edizione Gli struzzi del 1975 (probabilmente di pugno dell’autrice o, in ogni caso, realizzata sotto la sua sorveglianza98), essa rappresenta quel punto di passaggio dalla «preistoria infantile verso la storia e la coscienza»:
È una scelta rischiosa, perché non si dà uscita dall’isola senza la traversata del mare materno: come dire il passaggio dalla preistoria infantile verso la storia e la coscienza. In seguito all’apparizione inquieta e problematica di «Menzogna e sortilegio» (1948), questo secondo romanzo di Elsa Morante, apparso quasi dieci anni dopo (1957), fu definito da qualcuno un «ritorno all’Eden». E la definizione può rispondere al vero se con simile «ritorno» non si vuole intendere una evasione; ma, all’opposto, una esplorazione attenta della prima realtà, verso le sorgenti non inquinate della vita99.
È un luogo dal quale Arturo, fino alla decisione di partire per sempre, non riesce ad allontanarsi. Questo isolamento ha la doppia valenza di proteggere dagli inquinamenti esteriori una dimensione ancora selvaggia e incorrotta; ma anche di confinare senza possibilità di uscita, se non una: quella dell’abbandono definitivo.
In questo senso, la cameretta di Elisa e l’isola si assomigliano molto. Come sostiene Bardini, «il Paradiso/ altissimo e confuso» (in riferimento alla seconda epigrafe del libro, in cui è citato il verso di Sandro Penna) è «l’ennesimo travestimento» della camera di Elisa100, riflettendo inoltre tra il rapporto simbiotico che si instaura tra la Casa dei guaglioni, l’«ambiente-mondo» in cui Arturo vive isolato, e la natura dell’«isola- mondo»101.
Nel racconto Il gioco segreto, pubblicato nel 1937, appare la descrizione di due giardini. Il primo è un cortile interno abbandonato all’incuria, «una specie di prigione dall’alta
98 Cfr. BARDINI 1999, p. 671.
99 MORANTE 1975, quarta di copertina. 100 BARDINI 1999, p. 45.
muraglia in cui intristivano poche piante di lauro e di arancio. Per l’assenza del giardiniere, ortiche selvagge avevano invaso quel breve spazio, e sui muri nascevano erbe dai fiori azzurrastri e patiti» (GS 1464, corsivo mio). Il secondo è piuttosto assimilabile una scenografia: esso è parte delle raffigurazioni dipinte sulle pareti delle stanze che ospiteranno il teatro clandestino dei tre fratelli: «alcune sale erano affrescate di avventure e di storie, e vi abitavano popoli regali, che montavano cammelli o giocavano in folti giardini, fra scimmie e falchi» (GS 1463-4, corsivo mio). Una decina d’anni dopo, un’ambientazione simile sarà affrescata sulle pareti di palazzo Cerentano, ammaliando Elisa al suo passaggio, la quale tuttavia non ha mai conosciuto, per timore reverenziale102, l’intero svolgersi della scena nella «selva popolata d’aquile e di pavoni, d’ippogrifi, di scoiattoli e di volpi» (MS 558).
Entrambi i giardini descritti nel Gioco segreto, tuttavia, appaiono come cosa morta fin quando non viene innescato il processo che li porta a una sorta di rinascita. Così, il giardino-carcere, in primavera, acquista «una vita fittizia»: i colori e tutti i sensi, in generale, si riaccendono, fauna e flora riprendono, dopo un lungo letargo, i loro cicli naturali, la terra ritorna umida, quindi feconda, per il ritorno dei fenomeni atmosferici, quali il vento e la rugiada. Tutto questo avviene grazie a un gioco attivato dai ragazzi. Anche qui, l’attività ludica assume un valore metaforico che evoca immagini di vita e di rinascita. Ma anche i giardini affrescati si mutano magicamente, per la stessa ragione, nello sfondo di una rivoluzione: la notte in cui vengono scoperti, nella sala della caccia «dagli ampi scenari affrescati sulle pareti e sul soffitto», in cui «drappi gialli e rossi» sbattono «su un cielo ormai torbido», in cui tutto è «ingoiato dall’oscurità», il passaggio dei tre ragazzini con le loro candele stravolge quel paesaggio inanimato. Quel paesaggio diventa addirittura loro complice; così il vento si ferma affinché le piante del bosco non stormiscano, facendo rumore, e nell’albero presso cui si trova Antonietta «d’improvviso» comincia a scorrere la linfa. Tale processo, giocato tutto sul contrasto tra la luce e le ombre, simula il primo atto della creazione così come viene narrato nel libro della Genesi:
In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno (Gen 1, 1-5; corsivo mio).
A partire da una materia inerte avvolta nell’oscurità, separando, con le candele e la parola, la luce dal buio, i fratelli divengono anch’essi creatori, realizzando quell’identità originaria tra umano e divino prima della caduta. Questa somiglianza tra uomo e Dio è rivendicata, ad esempio, da Francesco De Salvi in Menzogna e sortilegio. In un passo che sarà approfondito ulteriormente più avanti, egli, durante un’orazione politica, parla del riscatto dell’uomo dalla maledizione di Adamo, che lo renderà «di nuovo uguale a un dio» (MS 232).
Anche in Aracoeli sono presenti due giardini, che rappresentano a loro volta due memorie infantili. El Almendral è il paese andaluso che ha dato i natali alla madre, mentre il quartiere romano di Monte Sacro – Tote-Taco nella consacrazione del linguaggio infantile del protagonista – ha visto nascere Manuele nella clandestinità e ha costituito il suo unico orizzonte fino all’età di quattro anni. à Zanardo 64, il est evident
Il ricordo di questo luogo si profila per il protagonista, ormai uomo, sotto forma di un’allucinazione visiva. Giunto in Almeria, poco prima dell’alba egli scorge dei filamenti di luce che rievocano, nella sua percezione, «il primo capitolo della Genesi biblica, in quel punto – fra il terzo e il quarto giorno – che precede la creazione dei grandi astri» (ARA 129). Anche qui, l’elemento della luce serve per condurre in un luogo splendente ma tutto avvolto, all’intorno, dall’oscurità, quella fisica del Gioco segreto o quella della memoria, come qui. Tali luci, allora, vengono riconosciute da Manuele come creature vegetali. Indagando ancora, scandagliando gli abissi più dolorosi dei suoi ricordi, egli riesce finalmente a ricondurre quelle immagini ad un luogo biografico:
Nella mia fanciullezza si contano due giardini scandalosi – in diverso modo – e proibiti. E questo, fu il primo. Era il giardinetto (poche decine di metri quadri) della mia prima casa. La villetta del quartiere Monte Sacro a Roma, dove – per la prima volta sulla terra – i miei occhi avevano veduto Aracoeli (ARA 130).
Anche questo luogo è, di fatto, relegato, oltre che geograficamente, cronologicamente a un periodo preciso della vita. Tanto che Manuele non ci tornerà
più, dopo il suo ingresso ai Quartieri Alti, e non solo: a causa dello scandalo che quella parentesi può recare al decoro della famiglia – la sua nascita è avvenuta al di fuori del matrimonio – in seguito all’ingresso nella nuova casa, l’argomento Tote-Taco viene interdetto, al punto da fargli dubitare, a distanza di anni, persino della sua esistenza come luogo reale e non di fantasia. Va ricordato, a questo punto, che nel romanzo si insiste moltissimo sul fatto che l’Almeria, la regione in cui si trova il secondo giardino di El Almendral, sia la zona «mas luminosa» d’Europa.
Il giardino di Totetaco ha delle caratteristiche interessanti. Esso è, anzitutto, contrassegnato, ancora una volta, dalla luce: «bisogna dire che esisteva una parentela stretta tra tutte le cose: tutte apparentate dalla luce. Era un segno universale grandissimo, ma delicato» (ARA 135-136). Qui, tutti gli elementi, reali e fantastici propri di un giardino, sono caratterizzati dal passaggio di luce e colori, anche di notte.
In questo luogo vigono delle leggi che ha stabilito Aracoeli, infatti, spiega Manuele, «io non dubitavo che l’intero territorio fosse nostro». Qui non esistono né dubbi né incertezze. Così, Manuele non esita a credere nel dogma materno della trinità (composta, significativamente, da «Jesus, il padre e la madre») e, per di più, non ha nozione precisa né della distinzione tra l’io e l’altro, né della diversità tra i sessi: «per tutto il tempo di Totetaco, io non ebbi nozione di essere maschio, ossia uno che mai poteva diventare donna come Aracoeli» (ARA 138). Subito dopo, egli descrive la percezione della diversità dei corpi, al momento di dormire insieme, che però si dava «come un atto sostanziale della maternità». Questa identità e diversità a un tempo è quanto, nella Genesi, molto lapidariamente, si dice dell’uomo: l’uomo è creato da Dio come entità unica, nella suddivisione tra maschio e femmina.
Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò (Gen 1, 24).
La rappresentazione era già propria del terzo componimento della Smania dello scandalo, in cui, nella descrizione dello stato prenatale, prima dello «strappo sanguinoso della nascita», madre e figlio sono una cosa sola:
impubertà senza storia, /finché ci dividono, per chiamarci alla loro strage (MSR 113).
Le pagine che raccontano l’esperienza di Totetaco insistono, in fondo, su un punto in particolare: quel mondo è completa pertinenza di madre e figlio. L’uscita da quella dimensione beata comporterà il primo grave smacco a quella che Manuele stesso definirà «esperienza della separazione».
Mi servo, un po’ arbitrariamente, di questa locuzione per riferirmi a più situazioni. La separazione di cui parla Manuele è, per l’appunto, provocata dal dramma di non poter tornare indietro, di non poter più raggiungere una condizione che si riconosce, o per lo meno si ricorda, come beata. È un’angoscia simile a quella provata da Cesira rispetto a un mondo, quello della ricchezza e dello sfarzo, che ha davanti a sé, ma che le è vietato, è inevitabilmente separato da lei, anche fisicamente: «di tanto in tanto, si fermava davanti alle vetrine come Eva davanti ai cancelli chiusi del giardino terrestre» (MS 60, corsivo mio).
Oltre alla separazione guardata retrospettivamente, poi, c’è la descrizione del luogo edenico come spazio separato dagli altri, nell’ambigua condizione di beatitudine e segregazione. Quest’ultima può essere anche temporale: Elisa e Arturo sono di fatto, «il racconto di due prigionieri»103, ancorati a una condizione infantile, da cui non riescono ad emanciparsi, e che guardano da una certa – specificata o non – distanza cronologica.
Elisa, proprio all’inizio della sua narrazione, confessa di essere rimasta relegata all’estate della sua infanzia in cui sono avvenuti tutti i cambiamenti sensibili della sua vita, la morte dei suoi genitori e il suo trasferimento in un’altra città.
Ancora oggi, in certo modo, io sono rimasta ferma a quella fanciullesca estate: intorno a cui la mia anima ha continuato a girare e a battere senza tregua, come un insetto intorno a una lampada accecante (MS 17).
A Procida ritroviamo una situazione del tutto analoga: nel capitolo settimo, «La Terra Murata», nel paragrafo intitolato La fine dell’estate, il protagonista esprime tutto il suo sentimento nostalgico per l’addio all’isola, ormai sempre più imminente.
Nell’impianto simbolico del testo, la partenza significa il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Ma nell’estate dei suoi quindici anni Arturo rimane, in qualche modo, bloccato. È quanto ci rivela l’analisi di Bardini del brano in cui si registra un’infrazione nei tempi della narrazione («due mesi fa» e «fra poco»), e «il presente di Arturo narratore si sovrappone al presente di Arturo personaggio»:
[…] d’improvviso egli intuisce che «in modo definitivo» che questa è l’estate più importante della sua vita, perché «questa [è] la [sua] ultima estate sull’isola; nel testo si mostra, cioè, che Arturo, con la memoria, ma soprattutto con la psiche, è rimasto e resterà sull’isola, perennemente bloccato al centro di «questa» estate (l’estate del 1938), iniziata appunto «due mesi fa», e che «fra poco» finirà104.
D’altra parte, una lettura simile è confermata dalle pagine private di Morante. Nel 1952, anno in cui prende forma il progetto dell’Isola, l’autrice annota: «ancora un’estate giovane: è finita. Potrei prolungarla di qualche giorno, ma non lo farò. Le dico addio, come dico addio a L. E forse alla giovinezza?105».
L’idea di paragonare la condizione prelapsariana all’età infantile non rappresenta, di per sé, una novità. Basta guardare, rimanendo in territorio italiano, alla prima delle Operette morali di Leopardi, Storia del genere umano106, nella quale, in una combinazione di
varia provenienza religiosa e letteraria, ma nella quale primeggia l’intento di reinterpretare sotto l’influsso gnostico il noto episodio della Genesi, la decadenza dell’umanità, si racconta la decadenza dell’umanità verso un grado sempre maggiore di infelicità a causa del frutto della conoscenza, che rende liberi ma infelici. Nel racconto, per l’appunto, si delinea la progressione dall’infanzia degli uomini, che coincide con la beatitudine illusoria, alla condizione di adulti, in cui ormai l’infelicità ha dilagato. Malgrado le dovute differenze tra le poetiche dei due autori107, il confronto con Leopardi non è inopportuno se si pensa che, oltre alla sua presenza già ampiamente rintracciata nelle opere di Morante108, egli è citato direttamente in Aracoeli, quando, nel fortunoso viaggio da Torino a Roma, Manuele porta con sé una copia dei Canti del poeta recanatese. Nemmeno casuale è che la citazione appaia proprio in questo
104 BARDINI 1999, p. 102. 105 Cronologia, p. LXIII
romanzo, dal momento che, come si vedrà più avanti, il suo protagonista offrirà un’interpretazione del peccato originale avente molti punti di contatto con quella presente in Storia del genere umano.
L’aspetto interessante, piuttosto, risiede in due punti: il primo è la costruzione, che si definisce sempre più nel tempo, di un tipo di personaggio, abitante dell’Eden, che si ritrova ex abrupto nel mondo posteriore alla caduta e si trova a confrontarsi con esso. Il secondo punto è la particolarità distintiva dei personaggi celesti – per la maggior parte, ma con qualche eccezione, molto giovani: essa consiste nel non essere descritti come dei puttini immacolati da qualsiasi vizio, anzi. Personaggi come Edoardo, come Arturo, assumono spesso dei comportamenti tutt’altro che santi. Quello che, però, determina la loro residenza a pieno titolo nel paradiso terrestre è l’assenza di giudizio, sia nel loro sguardo, sia in quello, spesso clemente, degli osservatori. Come esempio del secondo caso, si può ricordare come Elisa adulta veda benissimo, ma tenda a perdonare le storture di Edoardo (mentre si mostra poco conciliante con il padre Francesco); mentre, rispetto al primo, si può notare come Arturo non voglia riconoscere i limiti di Wilhelm fino all’evidenza, e nel momento in cui comincia a farlo, comincia anche ad essere consapevole, ed è perciò costretto a lasciare l’isola.
Di tutti questi personaggi, chi è destinato alla consacrazione edenica in eterno, è allo stesso modo destinato a morire prematuramente, in conformità al topos, ben presente nella letteratura dell’autrice, secondo cui muore giovane chi è caro agli dèi. L’alternativa è l’uscita dall’Eden nella totale perdizione, «tra pianto e stridore di denti» (Mt 24, 51).
Ma, è noto, «fuori del limbo non v’è eliso»; e dal «combattimento», dalla «guerra», dall’«ultima prova», insomma, o si esce morti (eroi, sì certo, ma morti, e silenti), come Remo N., come «Alessandro», come «Eurialo», o si esce vivi, come l’insipiente e raccontante Arturo109.
Per limitarci a qualche esempio, Edoardo Cerentano muore di tisi prima di poter realizzare i suoi ambiziosi progetti in giro per il mondo, dei quali resteranno solo le peregrinazioni da una casa di cura a un’altra, nel tentativo di guarire. Di Arturo da adulto, nella stesura definitiva del romanzo, non avremo nessuna informazione, a
differenza di quelle iniziali, in cui egli informa il lettore di essere prigioniero in Africa e inchiodato al letto, sul punto di morire110. Infine, nella Storia, la vita di Ninuzzo, il più dinamico e irrequieto tra i «ragazzini» morantiani, viene brutalmente stroncata in un incidente stradale.