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due interventi ravvicinati nella novella Nastagio degli onesti (V,8)

È utile cominciare da due inserti contigui che possano aiutare a comprendere il modus rescribendi di Salviati dal punto di vista linguistico. Si tratta di due passi riscritti da Salviati nella nota novella Nastagio degli Onesti (V 8).

Dopo la visione infernale Salviati vuole far capire al lettore che si è trattato solo di allucinazioni ingannevoli del demonio e quindi il passo «e dopo alquanto gli venne nella mente questa cosa dovergli molto poter valere» (V 8,32) diventa nel Decameron del 1582:

e dopo alquanto, come huomo idiota, et accecato nella sua passione, non conoscendo lo ’nganno del demonio, che quelle false imagini, per dannazio-ne della sua giovadannazio-ne e di se stesso gli faceva vedere, gli vendannazio-ne dannazio-nella mente, questa cosa dovergli molto poter valere5.

Mentre la conclusione «Et non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane donne paurose ne divennero che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri de gli uomini furono, che prima state non erano» (V 8,44) si trasforma in:

Così la Divina bontà, della maligna intenzione del comune inimico fece ad onta di lui buono effetto seguire. E non sarebbe questa paura stata cagione solamente di questo, anzi si tutte le Ravignane donne paurose ne divenne-ro, che sempre poi troppo piu arrendevoli a’ piaceri degli huomini state sarebbono, che prima state non erano, se per li savi huomini in iscrittura, quelle essere state diaboliche apparenze con verissime dimostrazioni, sicome avvenne, non si fosse manifestato.

Questo piccolo saggio è sufficiente per ricordare la modalità effettiva dell’intervento di riscrittura censoria attuato da Salviati, ma ciò che è interessante evidenziare sono alcune voci che si presentano a modo loro come un recupero della lingua di Boccaccio e quindi almeno dal punto di vista squisitamente linguistico coerenti con il modello di lingua che Salviati mostra nelle scelte della

sua rassettatura e che commenta e presenta anche negli Avvertimenti6.

5 Per la resa grafica dei manoscritti e delle stampe si è scelto di sciogliere le forme contratte (per, ser e l’indicazione del titulus per la nasale geminata). Inoltre si è preferito lasciare i mono-sillabi non accentati da (voce verbale), se (pronome), piu, ne (congiunzione) ed e (voce verbale) sia nei manoscritti che nelle stampe. Le parti in corsivo indicano gli interventi di riscrittura di Salviati presentati anche dal grammatico stesso con un carattere differente nella seconda edi-zione del 1582 (nella stampa dei Giunti il testo non censurato è in corsivo mentre gli interventi di Salviati sono in tondo).

Venezia-Nel dettaglio le forme da commentare nei due brani appena proposti sono:

lo ’nganno: forma aferetica che ricorre per 5 volte nel Decameron (e 13 volte

in Crusca 1612)7;

imagini: tutte le voci che derivano da questa radice (imagine e imaginare)

sono uno dei pochi casi in cui la scelta di Salviati non propende per la geminata ma conferma la scempia presente in Mannelli probabilmente per la forte autorità del termine latino (in Crusca 1612 invece c’è una sola occorrenza di

imagine mentre in tutti gli altri casi la voce si presenta nella forma moderna con

geminata);

iscrittura: la i- prostetica è un tipico intervento linguistico di Salviati che

è molto prescrittivo in tal senso nella sua rassettatura perché considera la possibilità della prostesi come un segno della duttilità e della ricerca continua di dolcezza nella favella fiorentina (iscrittura ha 19 occorrenze in Crusca 1612);

inimico: si tratta di una forma latineggiante già presente in un passo

dell’introduzione della prima giornata (I intr.,43); lo stesso passo è citato alla voce inimico anche in Crusca 1612;

sarebbono: la forma di condizionale fiorentino è usata varie volte nel Decameron (ad esempio poco sopra a V 6,15, in un passo citato anche in Crusca 1612 in cui si registrano 14 occorrenze complessive di sarebbono);

per li savi huomini: in questo caso Salviati rispetta la prescrizione di Bembo

che impone dopo il per l’articolo determinativo plurale maschile li e non la forma gli. In realtà Salviati negli Avvertimenti critica tale norma per la prosa dove invece l’autore può indifferentemente usare la forma più arcaica per li e

quella più consueta e d’uso per gli8. In Crusca 1612 si contano 317 occorrenze

di per li e 134 di per gli.

Si tratta di pochi ma ravvicinati esempi che mostrano come, seppur in un’azione di censura che agli occhi di noi moderni (e non solo) risulta dannosa e violenta, l’obiettivo di Salviati di recuperare la lingua di Boccaccio e di mostrarne la purezza e la dolcezza sia tenuto in considerazione anche là dove aggiunga di suo pugno nuove parole o interi periodi.

Si intendono ora passare in rassegna alcuni altri esempi partendo da una

7 Molte delle forme individuate saranno messe in parallelo non solo con le occorrenze complessivi nel Decameron, ma anche con le occorrenze presenti nella prima Crusca (da qui in poi indicato con la sigla Crusca 1612), quella che, pur stampata più di venti anni dopo la morte di Salviati, risente di più della sua lezione e delle sue indicazioni. Sull’eredità lasciata da Sal-viati agli accademici non è ovviamente questa l’occasione per una lunga digressione, basti qui ricordare due fondamentali contributi di Maurizio Vitale: mAurizio VitAle, La prima edizione del Vocabolario della Crusca e i suoi precedenti teorici e critici, in Le prefazioni ai primi grandi vocabolari europei, vol. I, Milano-Varese, 1958 e id., L’oro nella lingua. Contributi per una storia del tradizionalismo e del purismo italiano, Milano-Napoli, Ricciardi, 1986.

8 lionArdo sAlViAti, Degli avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, Firenze, Giunti,

sorta di antologia di Centoni del Decameron e quindi presentando alcune voci interessanti dal punto di vista fonomorfologico.

3. I centoni

Sono realmente molte le espressioni che pur inserite nel testo riscritto da Salviati si possono riscontrare anche in altri luoghi del Decameron. Se ne propongono le più significative:

1. I 2,12: Salviati di fronte al testo di Boccaccio che racconta di come Abraam se fosse già cristiano alla vista della corruzione della corte papale a Roma «senza fallo giudeo si ritornerebbe» muta quest’ultima formula in «senza fallo scandalo ne prenderebbe». Mentre i Deputati tagliano largamente il testo della novella, in questo caso Salviati ne conserva di più ma adattandolo maggiormente. L’espressione scandalo ne prenderebbe richiama alla memoria «scandalo ne nascerebbe» (X 8,42), «scandalo non ne segua» (I intr,77) e «scandalo non ne nascesse» (III 3,12).

2. II 7,26: «Et essendosi avveduto che alla donna (...) piaceva il vino (del quale

a Baiafet, che non se n’asteneva, era stata portata non picciola quantità da una cocca di Genovesi)». L’aggiunta di Salviati che vuole esplicitare l’immoralità

di Baiafet (il Pericone di Boccaccio) recupera una espressione della novella di Landolfo Rufolo (II 4,14) «due gran cocche di Genovesi». La litote non

picciola si incontra 4 volte nel Decameron.

3. III 1,6: la vicenda di Masetto si sposta dalla Toscana ad Alessandria d’Egitto «Appresso ad Alessandria fu già una grandissima e bella torre». Grandissima e

bella è dittologia presente anche a IV 4,13 («grandissima e bella nave»).

4. III 4,3: Salviati muta l’espressione «d’andarne in paradiso» in «d’andar di bene

in meglio». Tale espressione si trova 5 volte nel Decameron (I intr.,98; I 1,46;

III 3,38; IV 10,53; X 8,38). Da notare la vicinanza con analoga espressione a III 3,38 nella conclusione della novella precedente e da sottolineare che uno dei casi presentati si trova in un passo completamento censurato da Salviati ovvero nella novella di Ser Ciappelletto (I 1,46).

5. III 5,33: «Ma alla fine, rimordendogli la coscienza, si adoperarono, che senza

risapersi niente del passato, con buona pace de’ lor parenti, divenner marito, e moglie». Si tratta di uno dei tipici finali riscritti e moralmente corretti.

L’immagine del ‘rimordere della coscienza’ è anche presente in III 5,14 («rimordendovene alcuna volta la coscienza»), mentre con buona pace de’ lor

6. III 6,49-50: Questa è la riscrittura moraleggiante del finale della novella di Ricciardo: «tanto scongiurò, che ella fece sembiante di rappacificarsi con

lui, e partissi. Et a casa tornatasi, pensando alla sua sciocchezza, cadde in sì fiera malinconia, che n’infermò, e morissi. E Ricciardo, essendo appunto in quei giorni rimaso vedovo, dolente del suo peccato, in un diserto, faccendo penitenza, finì la vita sua». L’uso di rimaso per rimasto è tipico di tutto il Decameron (più di 30 occorrenze); l’espressione cadde in sì fiera malinconia

richiama «entrò in fiera malinconia» (III 7,5); dolente del suo peccato è ripreso da «dolente del caso» (II 5,40); la forma rappacificarsi è in continuità con le altre voci che Salviati riscontrava in Mannelli («rappacificarsi» a VIII 9,95 e «rappacificata» a IX 5,66); infine faccendo penitenza è un recupero di un brano censurato da Salviati nella rubrica di III,4 («faccendo una sua penitenza»).

7. III 7,22: Salviati corregge Mannelli e passa da «Per quello che Iddio mi riveli» al più laico «Per quello che io vegga». Tale formula si ritrova anche a II 8,47 nella novella del Conte di Anguersa.

8. III 8,33: Salviati sostituisce nella novella di Ferondo l’avello (ritenuto troppo legato all’ambito religioso) con «una grande arca di marmo con alcun

spiraglio». «Arche grandi di marmo» si trova a VI 9,10.

9. VII 10,28: «E tu, per questo principalmente, sei ora qui: e saresti in inferno,

se non t’havesse, appo Iddio, in su l’estremo impetrata misericordia la tua grandissima contrizione». La censura di Salviati recupera un passo conclusivo

della novella di Ser Ciappelletto (I 1,90): «in su lo stremo aver sì fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia».

10. IX 2,5: Anche l’esordio della seconda novella della nona giornata è riscritto per riportare la vicenda nell’oriente islamico: «Il Serraglio adunque di Masetto

da Lamporecchio, a questi giorni da Filostrato mentovato, un accidente m’ha tornato nella memoria, nello stesso luogo gia accaduto». L’espressione m’ha tornato alla memoria ricorre con varianti in vari passi del Decameron in cui

i novellatori introducono il proprio racconto (I 3,3; II 5,3; VII 3,3). Si può citare qui l’espressione di VI 6,3: «l’essere stati ricordati i Baronci (...) m’ha nella memoria tornata una novella».

4. fonetica

Come è noto e come è ulteriormente risultato evidente dall’analisi delle scelte linguistiche operate nella rassettatura del Decameron, Salviati mostra particolare attenzione nella conservazione di tutti quei tratti che dal punto

di vista fonetico tramandano la purezza e la dolcezza della favella fiorentina. Si tratta di un’operazione di recupero e difesa della lingua del ’300 che nello stesso tempo vuole anche mostrare la sostanziale continuità con la lingua parlata dai colti (non dal ‘popolazzo’ come direbbe Varchi) nel ’500 stesso. Le scelte attuate nelle parti riscritte confermano tale atteggiamento. E del resto ciò è chiaramente esplicitato dallo stesso Salviati in uno dei passi più pesantemente censurati, ovvero la novella di Alibech (III 10). A margine, infatti, Salviati così glossa: «si lasciano questi fragmenti per salvare più parole e più modi di favellare che si può». Nel caso estremo, quindi, della censura quello che è essenziale è ‘salvare’ la lingua con i suoi suoni, le sue forme e i suoi peculiari e originali modi di dire.

4.1. Vocalismo

Nel codice Mannelli (mn)9 si riscontra una oscillazione tra la forma denari e

quella più tipica del primo Trecento danari, Salviati segue sempre la lezione del codice trecentesco accettandone anche in questo caso la polimorfia. A conferma di questo atteggiamento si può citare la sostituzione di moccoli con danari a VIII 2,39. Salviati vuole qui aggiungere un’ulteriore testimonianza dell’uso di

danari. Simile è anche il caso dell’apertura giovine>giovane. In tutti i suoi inserti

Salviati usa solo la forma giovane (del resto unica in mn), ma sulla linea di mn

inserisce anche forme con minore continuità nel ’500 come giovanezza (III 1,7) che ricorre per 16 volte nel codice trecentesco (ed è comunque maggioritaria anche in Crusca 1612). Allo stesso modo Salviati usa per due volte nei suoi inserti censorii altramente a VII 5,21 e altramenti a VIII 8,5. Si tratta di forme culte decisamente maggioritarie nel Decameron (rispetto ad altrimenti) che sono ancora attestate in Crusca 1612. Ultima voce di questo gruppo è maraviglia inserita a X 3,1; si tratta di una voce che ha ancora una netta preminenza in

Crusca 1612 (75 occorrenze di maraviglia contro solo 9 di meraviglia).

Interessante nel confronto con le scelte dei Deputati è anche l’oscillazione tra laudevol e lodevole a IV 2,9. Qui apparentemente è Salviati a scegliere per la forma più alta con conservazione del dittongo latino au. In realtà anche in

questo caso si attiene alle scelte presenti in mn dove compare solo la forma laud-.

Sui fenomeni del vocalismo tonico si può citare, infine, la forma i preghi (III 8,70) con riduzione del dittongo ie dopo il nesso cons.+vibrante. Qui Salviati preferisce la forma più consueta nel ’500 (al contrario dei Deputati che nello

stesso punto hanno la stessa voce, ma nella forma prieghi). Da notare che in mn

si trova sempre la forma prieg- tranne in un caso in cui c’è la forma monottongata

rassetta-prego a VIII 2,44 in un contesto in cui essa non è però voce verbale ma è un

sostantivo. La scelta di Salviati oltre che dall’uso del ’500 potrebbe quindi anche essere stata motivata dal fatto che anche in questo caso il termine i preghi è un nome.

4.2. Consonantismo

Si possono rintracciare alcune forme legate ai fenomeni del consonantismo che confermano questo atteggiamento di recupero e conservazione della lingua del Trecento. A II 2,7 il testo di Salviati presenta questo intervento censorio: «ma nondimeno ho sempre avuto in costume di cignermi la mattina», ripreso poco dopo a II 2,9 «E istamane cignestevel voi?». Salviati trasforma la recita delle orazioni in un cignersi di armi. Tale voce del verbo cignere con nasale palatale si trova anche in due altri passi del Decameron («fattolo scignere» a III 8,33 e «gli fece una spada cignere» a X 9,86). Simile è la forma aggiugnendogli a I 6,11 (la forma aggiugne- ha più di 10 occorrenze nel Decameron). A I 2,22 Salviati inserisce l’espressione servigi tutti: la forma con affricata palatale è consueta in

mn dove ricorre più di 80 volte. Rientra nei fenomeni legati a rappresentazioni

di suoni palatali anche la forma non picciola quantità a II 7,26: Salviati preferisce la forma con radicale palatale che si alterna con la forma con radicale velare

in mn (102 occorrenze per piccol- e 41 per picciol-). Infine si può ricordare un

caso tipico di sonorizzazione della velare iniziale, tipico tratto del fiorentino popolare: si tratta della voce gastigo a VII 5,59, forma unica nel Decameron e forma da prescrivere secondo Salviati che, infatti, nelle Osservazioni al Pastor

Fido invita Guarini a passare proprio da castigo a gastigo10.

Nel campo spinoso delle oscillazioni tra forme geminate e scempie Salviati conferma la sua propensione per la chiara indicazione grafica delle geminate nella volontà evidente in tutta la rassettatura, evidenziata già tra gli altri da

Nicoletta Maraschio11, di correggere le ‘scorrezioni di mala ortografia’ di mn.

Come esempio si può ricordare la forma s’ammendano a IV 2,58: Salviati, infatti, sceglie sempre la forma amm- anche se in Mannelli le forme presenti sono am- e

adm-.

10 deAnnA bAttAglin, Leonardo Salviati e le «Osservazioni al Pastor Fido» del Guarini,

«Memorie dell’Accademia patavina di scienze, lettere ed arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti», LXXVII (1964-65), p. 254.

11 nicolettA mArAschio, Scrittura e pronuncia nel pensiero di Lionardo Salviati, in Atti del Congresso internazionale per il IV centenario dell’Accademia della Crusca, Firenze, Accademia della Crusca, 1985, pp. 81-89.

4.3. L’uso di apocope, prostesi, aferesi

Sono molti i casi in cui le riscritture di Salviati presentano forme apocopate, prostetiche o aferesate:

Apocopi: I 4,4 secondo quella lor legge; I 4,21 alla religion di Feronia; I 6,11

ragion civile; I 6,14 la qual notabile; II 2,9 cignestevel voi? (<mn: dicestevel voi?);

II 2,12 e mai nol portai; II 3,2 opinion (<mn e D: divotion) II 10, 37 poteron

farlo; III 1,6 tenner racchiuse / lor badessa; III 1,42 assai donzellin generasse; III

4,12 i gran signori; III 4,15 si faran d’oro; III 4,33 divenner marito e moglie; III 5,33 divenner marito e moglie / de’ lor parenti; III 7,4 l’un l’altro; III 7,22 convien del tutto; III 7,56 gran parte; III 7,101 de’ lor parenti / la qual senza più turbarsi; III 8,4 di nazion greco; III 8,15 troverrem modo; III 8,33 nel cortil della villa /

con alcun spiraglio; IV 1,53 poser gl’Iddij; IV 2,9 sensal di matrimoni; IV 2,12 a consigliar con questo venerabile huomo (<mn: confessar da questo sancto frate); IV 2,24 nol guardasse con gran diletto; IV 2,32 far non solea; IV 2,43 nol faceva; V 7,9 s’offerse lor via cacciare; VII 10,1 Muore il compare e al compagno par ch’e’

torni; VII 10,30 haver sognato / haver veduto; IX 2,19 l’Ammiraglio nol riseppe giammai; VIII 2,23 haver moglie; VIII 10,19 fuor di se; IX 7,7 non si vuol credere;

IX 10,20 compar Gianni; X aut., 27 gran retorica; Prostesi: V 8,44 in iscrittura;

Aferesi: I 4,7 ’l Messere; I 7,4 ’l Capitan trafisse; VII 10,16 parve tra ’l sonno12;

III 3,33 confermò la ’ntenzion di costei; V 8,32 lo ’nganno.

Si tratta di 40 forme apocopate inserite nel testo da Salviati a volte anche per mantenere, pur con parole differenti, l’originale presenza dell’apocope nel codice Mannelli (si vedano i casi di cignestevel da ‘dicestevel’ a II 2,9, opinion da ‘divotion’ a II 3,2 e di consigliar da ‘confessar’ a IV 2,12); di una forma prostetica in una successione che Salviati percepisce come molto prescrittiva (in o non seguiti da cosiddetta s impura) e di 5 forme aferesate: tre articoli determinativi maschili singolari (come spesso si trovano anche nel codice Mannelli) e due parole che spesso presentano tale forma. Tali fenomeni sono oggetto di particolare interesse da parte di Salviati fin dalla sua Orazione in lode

della fiorentina favella recitata presso l’Accademia fiorentina nel 1564 a soli 25

12 Si è voluto citare anche questi tre casi di articolo nella sua forma asillabica (e quindi di per sé non storicamente frutto di aferesi) per quello che Salviati sostiene negli Avvertimenti quando all’interno della lunga spiegazione sui vari fenomeni generali (apocope, prostesi, aferesi e simili) afferma che regolarmente «fassi questo ammortamento della vocale sempre nel fin della parola, fuor solamente nelle sottoscritte voci che sono in tutto sole a riceverlo nella fronte. Il, così articolo, come pronome [...]». Per Salviati quindi la forma ’l è frutto di ‘ammortamento’ della vocale iniziale, ovvero di aferesi [cfr. lionArdo sAlViAti, Degli avvertimenti della lingua

anni. Secondo Salviati la possibilità di mutare l’inizio o la fine di una parola è uno dei fattori che rende il fiorentino più dolce e musicale non solo delle altre parlate moderne ma anche e soprattutto rispetto ai più aspri e rigidi latino e greco. Nella rassettatura del Decameron in generale si può evidenziare la netta preferenza per le forme apocopate da parte di Salviati rispetto alle scelte operate dai Deputati che tendono più rigidamente a prediligere per la prosa le forme intere (soprattutto nel caso degli infiniti).

5. Morfologia

I fenomeni morfologici sono tra i segni più evidenti della polimorfia della lingua toscana che Salviati mira a conservare. Tali tratti si possono in parte rintracciare anche negli inserti creati dal grammatico fiorentino.

Uno di questi, tipico della lingua del Trecento, è l’oscillazione tra forme di participio e forme di cosiddetto aggettivo verbale (il tipo nascosto/nascoso). Salviati usa più volte l’aggettivo verbale rimaso, forma molto ricorrente nel

Decameron («rimasa vedova» a V 9,10; II 6,35 e VIII 7,4) e quasi unica anche in Crusca 1612. Per quanto riguarda le forme di imperfetto oscillanti tra tipi interi

e tipi con dileguo della fricativa nella desinenza (havea/haveva) Salviati non pare seguire un criterio preciso nella sua edizione del Decameron, così anche nei suoi interventi censori le usa indifferentemente. Ad esempio a VIII 4,8 prima elimina una forma con dileguo presente in Mannelli e nei Deputati (havea>haveva) ma poi ne aggiunge un’altra (tenea): «ciascun di loro haveva per amica una donna assai bella, né altramenti, che come moglie se la tenea».

Tra le forme per le quali più si distingue e si riconosce l’intervento linguistico di Salviati c’è sicuramente il futuro con doppia -rr- sia essa derivata da metatesi consonantica o sia essa analogica. Salviati conferma le poche forme in tal senso presenti in Mannelli e ne aggiunge di nuove. Ad esempio si può citare l’espressione troverrem modo aggiunta da Salviati a III 8,15 (qui Salviati recupera, pur spostandola di luogo, una simile espressione dei Deputati presente poco sopra nello stesso passo: Noi troverrem bene il modo).

6. a proposito del commento di alcuni passi censurati negli avvertimenti: