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a proposito del commento di alcuni passi censurati negli avvertimenti: l’oscillazione partecipe/partefice

Si può infine richiamare alla memoria un passo degli Avvertimenti in cui Salviati cita esplicitamente passi censurati per spiegare alcune scelte linguistiche.

Si tratta della sua esposizione a riguardo dell’oscillazione tra partecipe e

La parola partecipe, che forse usò alcun de’ nostri poeti e già si leggeva in Pietro di Vinciolo (ma tra i buoni testi solamente nel Mannelli) non è vocabolo della lingua, ma usato come straniero: però esso Mannelli lo lascia tutto latino ed iscrive participe. Ma la voce nostrale è partefice: e così l’altre volte in tutte le buone copie si truova nelle Giornate, sì come in Ma-setto: partefici divennero del podere di Masetto. E nella penna della Fenice: mi fece egli partefice delle sue. Fra Giordano [Salviati intende le prediche di Fra Giordano nella copia manoscritta da lui consultata]: se vuoli esser partefice di Iesù Cristo. Ma ne son piene le scritture ed è soverchio recarne esempli. Ora chi non vede che ‘partefice’, secondo la sua natura, dovrebbe prendersi per colui che fa parte? Per tutto ciò siam costretti dall’uso a torlo per chi la prende, ch’è appunto il contrario13.

Dal brano qui sopra riportato emergono chiaramente due considerazioni: da un lato si conferma che l’analisi di un fatto linguistico per Salviati sia sempre superiore alla ratio censoria tanto che può parlare di una voce «che si leggeva» nel Decameron prima della rassettatura imposta dal Concilio per spiegare la distinzione tra due voci; dall’altro si nota ancora una volta una — se non proprio

la — critica principale mossa da Salviati nella difesa della fiorentinità della

lingua ovvero l’eccessivo uso di parole straniere, cioè latine, che in particolare dal Quattrocento hanno rovinato la purezza della favella trecentesca.

In merito al lemma in questione le scelte degli accademici della Crusca sono probabilmente opposte, tuttavia nell’edizione del 1612 si conservano entrambi i lemmi.

Partefice è definito «Partecipe, ed è usitato modo antico». Alla definizione

seguono, inoltre, due esempi tratti dal Decameron, gli stessi che riporta Salviati nel brano appena proposto, ovvero «partefici divennero del podere di Masetto» e «mi fece egli partefice delle sue».

Partecipe, invece, è definito «Che ha parte», ovvero con una espressione

neutra rispetto alla opposizione tra «Chi fa parte» e «Chi prende parte» così come la delinea Salviati.

Resta evidente la libertà di utilizzo di passi censurati da parte di Salviati. È una libertà che ereditano anche gli accademici della Crusca che più volte inseriscono nella prima impressione del vocabolario citazioni tratte da passi censurati del Decameron.

Guer-LA GRAMMATICA TRA PRIMA E TERZA CRUSCA

Nonostante il fiorire degli studi storico-linguistici sul Seicento italiano negli ultimi decenni, il contributo specialistico originale più recente dedicato alla terza impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1691 rimane l’ampio articolo di Maurizio Vitale pubblicato quasi cinquant’anni fa su «Acme» e poi ristampato con qualche modifica vent’anni dopo nel

fonda-mentale volume L’oro nella lingua1.

Le ragioni di una simile sfortuna critica non sono facili da stabilire, soprat-tutto se si pensa alla sorte ben più rosea della quarta impressione del 1729-1738 che, pur essendo poco considerata nel volume in cui questo contributo

si iscrive, vanta lavori anche recentissimi2. Si ha comunque l’impressione che,

paradossalmente, proprio il superamento nella terza edizione delle impunta-ture arcaistiche e fiorentinistiche che avevano suscitato al principio del secolo le maggiori polemiche vada di pari passo con la perdita di interesse critico dell’opera: una dinamica non poi troppo dissimile da quella per cui, sui quo-tidiani, i conflitti guadagnano solitamente titoli più vistosi rispetto alle rappa-cificazioni.

L’apertura alla modernità, come ha mostrato Maurizio Vitale nella sua ca-pitale analisi, è appunto la cifra della terza Crusca: il notevole ampliamento del lemmario e delle definizioni, con il passaggio da uno a tre volumi, ospita citazioni attinte non solo dal Tasso ma da diversi altri autori moderni non fio-rentini, come Gabriello Chiabrera o Paolo Ségneri, e l’inclusione, sulla spinta di Redi e Magalotti, di una quota significativa di lessico tecnico-scientifico, con

1 mAurizio VitAle, La III edizione del «Vocabolario della Crusca». Tradizione e innovazione

nella cultura linguistica fiorentina secentesca, in «Acme», XIX (1966), pp. 109-153, poi in id., L’oro nella lingua. Contributi per una storia del tradizionalismo e del purismo italiano, Milano - Napoli, Ricciardi, 1986, pp. 273-333. Di seguito si citerà dall’edizione in volume.

2 Si veda da ultimo eugenio sAlVAtore, La IV edizione del «Vocabolario della Crusca». Questioni lessicografiche e filologiche, in «Studi di lessicografia italiana», XXIX (2012), pp.

la lemmatizzazione di parole come acidità, algebra, burattino, bubbone, il

galile-iano cannocchiale e molte altre3.

Il processo è strettamente legato al mutare dei tempi, ma anche alla diversa condizione degli accademici: ai dilettanti d’ingegno del 1612 si sostituiscono in-fatti, nel redigere il Vocabolario, letterati ben introdotti nel mondo della cultura coeva come Vincenzio Capponi, Anton Maria Salvini e Alessandro Segni. È così che, insieme ai termini specifici di altre branche del sapere, nel 1691 prendono maggior piede, rispetto al passato, i tecnicismi grammaticali.

Il fatto si può misurare innanzitutto notando la quantità di nomenclatura relativa alla grammatica che si affaccia a lemma nel 1691, con parole come

ap-pellativo, avverbio, avvilitivo, dativo o gerundio; nelle giunte che precedono il

lemmario vero e proprio fanno poi la loro prima comparsa altre entrate, come

accusativo, congiuntivo, ottativo o participio. Si noti che tutti i termini sinora

citati, tranne appellativo e ottativo, comparivano già nelle definizioni delle due prime Crusche, senza essere a loro volta definiti.

Non è difficile obiettare che notazioni di questo tipo, se si comparano due vocabolari di cui il secondo abbia una mole notevolmente più estesa, sono piut-tosto ovvie. E infatti l’importanza acquisita dalla grammatica all’interno della terza Crusca è meglio esemplificata dai casi in cui un lemma, presente già nel 1612, acquisti solo nel 1691 l’accezione grammaticale pertinente, pur essendo stato impiegato sin da subito con tale valore nelle voci dell’opera. È il caso di

verbo, che nella prima Crusca è definito in prima battuta come «parola», con

esempi tratti da Dante, Boccaccio e Giovanni Villani, e in secondo luogo come «lo figliuol di Dio, cioè Cristo». Solo nel ’91 si introdurrà il senso di «termine gramaticale distinto dal nome, che dove questo significa cosa, il primo dinota azione», impiegando così una categorizzazione semantica tradizionale che risale

addirittura a Platone4.

Casi simili riguardano anche affigere, affisso, attivamente, declinazione,

infi-nito, particella, passivo, proposizione nel senso di ‘preposizione’, corrente

all’e-poca, superlativo e altri ancora che qui si tralasciano5.

Un’ultima spia della diversa attenzione degli accademici di prima e terza Crusca riguardo ai temi grammaticali può essere colta spostando l’attenzione dalla nomenclatura alla lingua effettivamente registrata, per esempio conside-rando i pronomi personali tonici che compaiono a lemma: nella prima Crusca si

3 VitAle, La III edizione, cit., pp. 299-333.

4 Nelle citazioni da stampe antiche si adattano all’uso moderno, ove necessario, l’impiego di accenti, maiuscole e punteggiatura nonché la distinzione tra u e v.

5 Su proposizione si veda giorgio grAffi, Per la storia di alcuni termini e concetti gram-maticali: il declino di oratio e l’ascesa di propositio come termini per ‘frase’, in Per una storia della grammatica in Europa. Atti del convegno (Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 11-12.09.2003), a cura di celestinA milAni - rosA biAncA finAzzi, Milano, I.S.U. Università Cattolica, 2004, pp. 255-286.

hanno io, tu, voi, egli, elli, ella, esso, ma si cercherebbero invano noi, loro, lei o

lui. Si trova solo luì, accentato, con un rinvio ad aiuolo, cioè «rete da pigliare

uc-celli», alla cui voce si scopre che il luì altro non è che un «uccellino piccolissimo». Una simile divergenza era d’altra parte rilevabile con chiarezza sin dalle due introduzioni al Vocabolario. Si consideri il passo celeberrimo in cui gli accade-mici della prima Crusca dichiarano di aver giudicato degna di registrazione la lingua fiorentina attestata nel suo periodo di massima fioritura, vale a dire «da’ tempi di Dante, o ver poco prima, sino ad alcuni anni dopo la morte del Boccac-cio» (c. a3v). A sostegno della tesi, le autorità linguistiche citate si restringono, nelle loro parole, ai pareri «dell’Illustrissimo cardinal Bembo, de’ Deputati alla correzion del Boccaccio dell’anno 1573 e ultimamente del cavalier Lionardo Salviati»6.

Più avanti, discutendo i criteri di redazione dell’opera, gli accademici con-fessano che «quanto a regole, precetti o minuzie gramaticali» si sono rifatti sem-plicemente «a quello che n’ha scritto il Cavalier Lionardo Salviati» (c. a5v): e si noti il termine minuzie, che mostra chiaramente la scelta della prima Crusca di relegare ai margini il campo della grammatica segnando così, come è stato

nota-to, un deciso stacco rispetto alla lessicografia cinquecentesca7. Oltre a Salviati, ai

Deputati alla prima rassettatura del Decameron e a Bembo, gli unici altri studiosi di lingua menzionati sono il Monosini (c. a4v), in merito al settore paremiologi-co, e Giorgio Bartoli (c. a6v), citato – insieme a Salviati – per la sua descrizione

della fonetica toscana8.

Nel Vocabolario del ’91, il tono si presenta assai diverso. L’elenco delle

auc-toritates che hanno individuato nel Trecento il secolo aureo del fiorentino è

de-cisamente più nutrito, perché oltre a riprendere i nomi di Bembo, dei Deputati

6 pietro bembo, Prose della volgar lingua. L’editio princeps del 1525 riscontrata con l’auto-grafo Vaticano latino 3210, a cura di clAudio VelA, Bologna, Clueb, 2001; Le Annotazioni e i Discorsi sul ‘Decameron’ del 1573 dei deputati fiorentini, a cura di giuseppe chiecchi, Roma - Padova, Antenore, 2001; lionArdo sAlViAti, Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone, I, Venezia, Domenico e Giovanni Battista Guerra, 1584; II, Firenze, Giunti, 1586.

7 VAleriA dellA VAlle, La lessicografia, in Storia della lingua italiana, a cura di lucA

seriAnni - pietro trifone, I, Torino, Einaudi, 1993, p. 48. Si vedano anche i Prolegomeni del

1606 contenuti negli Atti del primo vocabolario (a cura di seVerinA pArodi, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 338-344), strettamente connessi alla redazione dell’introduzione A’ lettori del 1612, nei quali si legge: «Delle minuzie grammaticali, come nomi, verbi, tempi, casi, articoli, pronomi, proposizioni, avverbi e simili, rimettersene al Salviati in tutto e per tutto» (p. 340).

8 Si vedano i Trattati di fonetica del Cinquecento, a cura di nicolettA mArAschio, Firenze, Accademia della Crusca, 1992, che offrono la riproduzione anastatica (pp. 265-325) e la tra-scrizione (pp. 327-355) di giorgio bArtoli, Degli elementi del parlar toscano, Firenze, Giunti, 1584; frAnco pignAtti, Etimologia e proverbio nell’Italia del XVII secolo: Agnolo Monosini e i Floris italicae linguae libri novem, I-II, Manziana, Vecchiarelli, 2010 (il secondo volume con-tiene la ristampa anastatica degli Angeli monosinii Floris italicae linguae libri novem, Venezia,

e di Salviati, gli accademici ne aggiungono diversi altri (I, p. 14). Scorrendoli in ordine cronologico, c’è innanzitutto «l’autor della Giunta», cioè Lodovico Ca-stelvetro, autore appunto della Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de’

verbi di messer Pietro Bembo del 1563, cui segue Benedetto Varchi, la cui

manca-ta menzione nell’introduzione alla prima Crusca risulmanca-tava manca-tanto più curiosa per

il suo comparire tra i citati nelle voci del Vocabolario (c. a7v)9.

Tre sono invece i secentisti annoverati: il primo è Benedetto Buommattei, che, oltre ad aver pubblicato nel 1643 la grammatica Della lingua toscana, era stato pure, in qualità di segretario dell’Accademia, il promotore della ripresa dei lavori che avrebbero portato, diversi decenni dopo, alla terza impressione della

Crusca10. Il secondo è il Cinonio, nome accademico del forlivese Marco Antonio

Mambelli, le cui Osservationi della lingua italiana erano state pubblicate in due

trattati, l’uno, sulle particelle, del 1644, l’altro, sui verbi, postumo, del 168511.

Infine è citato Ferrante Longobardi, nom de plume sotto cui Daniello Bartoli aveva dato alle stampe le proprie riflessioni sul Torto e ’l diritto del non si può, uscite per la prima volta nel 1655 e poi più volte ristampate con giunte anche ingenti12.

Ma oltre ad ampliare il novero di studiosi di lingua citati come numi tutelari, l’introduzione alla terza Crusca mostra di tenere i fatti grammaticali in ben altra considerazione rispetto al 1612: sebbene si sottolinei che «le regole e i precet-ti della grammaprecet-tica sono materia separata dall’intenzion del Vocabolario», nel 1691 gli accademici affermano a chiare lettere che la lingua fiorentina «molto è tenuta» all’opera dei grammatici, dai quali i redattori del Vocabolario hanno tratto «grande aiuto» per il loro lavoro (I, p. 20).

Ci si può chiedere quanto a simili dichiarazioni programmatiche sia corri-sposta una effettiva pratica lessicografica. Ora, se si getta l’occhio tra le citazioni delle opere linguistiche e grammaticali menzionate all’interno delle voci della

terza Crusca, si scopre che, come si dice, non è tutt’oro quel che luccica13. Dei

trattatisti affiancati a Bembo, ai Deputati e a Salviati nel ’91, Castelvetro è

ri-9 lodoVico cAstelVetro, Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de’ verbi di

mes-ser Pietro Bembo, a cura di mAtteo motolese, Roma - Padova, Antenore, 2004; benedetto

VArchi, L’Hercolano, a cura di Antonio sorellA, I-II, Pescara, Libreria dell’Università, 1995.

10 benedetto buommAttei, Della lingua toscana, a cura di michele colombo, Firenze,

Ac-cademia della Crusca, 2007; VitAle, La III edizione, cit., pp. 280-287; seVerinA pArodi, Quattro secoli di Crusca 1583-1983, Firenze, Accademia della Crusca, 1983, pp. 53-54.

11 mArco Antonio mAmbellidettoil cinonio, Osservationi della lingua italiana. Parte

seconda, Ferrara, Giuseppe Gironi, 1644; id.,Osservazioni della lingua italiana. Parte prima. Con l’aggiunta delle annotazioni del sig. cavalier Alessandro Baldraccani, I, Forlì, Gioseffo Selva, 1685.

12 dAniello bArtoli, Il torto e ’l diritto del non si può, a cura di sergio bozzolA, Milano - Parma, Fondazione Pietro Bembo - Guanda, 2009.

13 Si sono impiegate le digitalizzazioni delle edizioni del Vocabolario disponibili sul sito dell’Accademia della Crusca, all’indirizzo ‹www.lessicografia.it›.

chiamato solo per l’etimologia di oca, mentre Bartoli non lascia alcuna traccia. Varchi è invece assai presente, ma le molte citazioni dell’Ercolano compaiono quasi tutte tra gli esempi, e solo poche volte sono invece impiegate nel definire i lemmi.

Un discorso a parte meritano Buommattei e Cinonio. È stato scritto che le posizioni del primo, miranti a equilibrare autorità e uso moderno, ebbero

una ricaduta sull’attenzione alla lingua viva della terza Crusca14. D’altra parte, il

peso della sua grammatica in questa impressione del Vocabolario appare assai flebile, visto che Buommattei viene citato una volta soltanto, peraltro insieme al

Cinonio, all’interno della voce quegli, quelli, quei e que’15. La sua fortuna sarà

invece settecentesca: così, alle numerose ristampe dell’opera buommatteiana nel

XVIII secolo16 fanno da pendant le definizioni che la quarta Crusca adotterà di

alcuni lemmi grammaticali. Basti qui un solo esempio: l’articolo in precedenza era descritto come «parola la qual non aggiunta a voce di nome sust. o a voce che stia come nome sust. niente non significa e non ha luogo nel favellare». Nell’edizione del 1729-1738 del Vocabolario diventa invece «Parola declinabile che aggiunta a nome o pronome ha forza di determinare e distinguere la cosa accennata». Si tratta appunto della definizione che si può leggere nel primo ca-pitolo del trattato decimo dei libri Della lingua toscana di Buommattei: «Artico-lo è parola declinabile che, aggiunta a nome o pronome, ha forza di determinar

e distinguer la cosa accennata»17.

Ben maggiore è il peso assunto nella terza Crusca dalle Osservationi della

lingua italiana di Marco Antonio Mambelli, e specialmente dal suo trattato delle

particelle del 1644, che prende in considerazione aggettivi, soprattutto posses-sivi e indefiniti, articoli, avverbi, congiunzioni, preposizioni, locuzioni congiun-tive e preposizionali, interiezioni e pronomi, elencati in ordine alfabetico in 258 capitoli. Nelle definizioni della terza Crusca, il Cinonio è citato all’interno di 24 voci: si tratta senz’altro di una cifra ingente, se comparata con le sette citazioni degli Avvertimenti di Salviati (prescindendo da quelle che valgono come esempi linguistici).

Le ragioni di un simile ruolo erano enunciate già nell’introduzione A’ lettori, laddove gli accademici chiarivano:

al Cinonio [...] principalmente ci confessiamo obbligati, come a colui che più acconciamente alla nostra opera e con ordine più rispondente al nostro

14 dellA VAlle, La lessicografia, cit., p. 51.

15 «Più particolari regole d’usare anzi l’una che l’altra delle suddette voci, secondo le lette-re che seguono, posson riconoscersi dagli esempli allegati, se ne tratta da’ gramatici, e partico-larmente v. il Cinonio, il Buommattei, ec.».

16 michele colombo, Introduzione, in buommAttei, Della lingua toscana, cit., p. XXXII,

Vocabolario si vede avere organizzato il [...] suo libro; e non che spesso ne abbiamo col suo autorevole testimonio autenticati i nostri detti, ma talora a lui medesimo, come giudice competente, ne abbiam rimessa tutta la causa (I, pp. 20-21).

In effetti, molte delle citazioni del Mambelli costituiscono dei rinvii veri e propri indirizzati ai lettori che vogliano approfondire la materia, come per esempio per la voce non che, definita «particella avversativa di negazione. Lat.

non solum, ne dum. Delle sue più particolari distinzioni v. Cinon.».

La ragione principale dell’utilizzo esteso delle Osservationi della lingua

ita-liana del ’44 nella terza Crusca, come si è visto dalle parole dell’introduzione, è

il metodo espositivo del Cinonio, che elenca appunto in maniera vocabolaristica le particelle oggetto della trattazione, da A fino a Vostro, rendendo estrema-mente semplice la consultazione per un lessicografo. Tuttavia, tale connessione superficiale non deve nascondere l’importanza del fatto che gli accademici della terza Crusca abbiano accettato come punto di riferimento un grammatico che fiorentino non era, e che all’interno della sua opera aveva proposto un modello

linguistico sorvegliato ma esente da arcaismi o fiorentinismi spiccati18.

Il fatto è tanto più rilevante in quanto, al di là dei casi in cui Mambelli compare esplicitamente come auctoritas, il suo influsso può essere riconosciuto anche altrove. Si prenda la trattazione nel Vocabolario del 1691 del lemma lui, che − come si è detto − mancava nel 1612, come pure nella seconda Crusca del 1623. La definizione principale è «Pronome di maschio ne’ casi obliqui di Egli», seguita dai traducenti latini illius, illi, illum. Ai passi boccacciani addotti in funzione illustrativa seguono poi quattro specificazioni dell’uso di lui, ognuna corredata da esempi letterari: «E talora col segno del terzo caso sottinteso e non espresso», come nel verso dantesco Ma per dar lui esperienza piena (Inferno, XXVIII, 48); «Oltre ad huomini, si riferisce anche ad animali e cose senz’ani-ma», come nel sonetto dei Rerum vulgarium fragmenta Quanto più m’avicino al

giorno extremo (XXXII), dove lui si applica al tempo; «Colla particella CHE, o

simili, trovasi alcuna fiata in vece di Colui», come di nuovo nel Canzoniere pe-trarchesco, al passo laudate Lui / che lega et scioglie (CCLXXV, 12-13). L’ultima specificazione, è superfluo spiegarlo a chi si sia anche solo superficialmente oc-cupato di storia della lingua italiana, è particolarmente delicata, perché riguarda l’impiego di lui in funzione di soggetto: «In vece di Egli nel caso retto pur fu detto da alcuni e da Dante nel Convivio: “Chi a questo uficio è posto è chiamato imperadore, imperocché quello che lui dice a tutti è legge”. E altrove: “Dunque

se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, se lui fu vile, tutti siamo vili”»19.

18 Si veda michele colombo, Alcuni fenomeni linguistici nelle grammatiche secentesche da Pergamini a Vincenti, «Studi di Grammatica Italiana», XXVI (2007), pp. 67-106.

Ebbene, se si apre il trattato delle particelle del Cinonio a p. 491 e si legge il capitolo 161, dedicato al pronome lui, si trovano ai capi primo, secondo, quarto, quinto e sesto esattamente le medesime annotazioni: «1. Lui, pronome di maschio ne gli obliqui d’Egli», «2. Suole scriversi ancora nel terzo caso senza il suo proprio segno, massime da’ poeti», «4. Ha riferito ancora tal volta non