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EDWARD SAID: RICONOSCERE PER ESSERE RICONOSCIUT

L'incipit del dibattito sulla creazione di uno Stato democratico bi-nazionale arabo-ebraico.

Capitolo 3 Il dibattito su una possibile convivenza.

3.3 EDWARD SAID: RICONOSCERE PER ESSERE RICONOSCIUT

Uno dei più affermati intellettuali palestinesi della seconda metà del '900 è Edward Said, nato in Palestina nel 1935, con una infanzia trascorsa tra il Libano l'Egitto e la Palestina e una formazione culturale complessa compiuta a metà tra oriente e occidente, tra la terra natale e gli USA dove divenne docente universitario presso la Columbia University. Questo tipo di formazione ha caratterizzato fortemente il pensiero di Said sulla questione israelo-palestinese; difatti ciò che contraddistingue il suo contributo come intellettuale palestinese è la sostanziale apertura alla comunità israeliana.

In tal senso il suo contributo più famoso è La questione palestinese pubblicato per la prima volta nel 1979. In quel saggio, pur affermando lo stato di miseria e privazioni in cui versa il suo popolo, Said sottolinea l'importanza del riconoscimento da parte dei palestinesi delle sofferenze subite dal popolo ebraico, così come l'autocritica da parte di Israele per gli abusi commessi a danno dei palestinesi a partire dal 1948. In altri termini, Said afferma l'esigenza di un riconoscimento reciproco dei due popoli e di una rilettura

oggettiva della storia senza filtri di natura nazionalistica al fine di risolvere un conflitto lungo un secolo. Said afferma:

«Noi dobbiamo accettare l'esperienza ebraica con tutto ciò che essa comporta di orrore e di paura; ma al tempo stesso dobbiamo esigere che alla nostra esperienza venga data un'attenzione non minore.»79

Il riconoscimento reciproco dei due popoli viene evocato da Said in nome del principio dell'universalità del dolore che accomuna la condizione di entrambi.

L'approccio culturale di Said in relazione alla questione israelo- palestinese è stato definito di stampo “umanista” poiché pone al centro del suo discorso l'essere umano in quanto tale spogliato da ogni differenza religiosa, politica, culturale. Said afferma che soltanto la consapevolezza di una comune situazione di dolore e disperazione può salvare l'esistenza di entrambi i popoli. Al fine di rendere possibile il riconoscimento dell'altro è necessaria, secondo Said, la diffusione della cultura nella sua accezione più generica, poiché la cultura libera dall'ignoranza genitrice di odio e incomprensioni; a tal proposito e in relazione al ruolo della diffusione della cultura come strumento per la composizione del conflitto israelo-palestinese. Said afferma:

«Come non pensare che, quanto più cresce il numero di testi letterari arabi disponibili in Israele, tanto più gli israeliani saranno in grado di capirci come

popolo e di smettere di trattarci come animali o sub-umani?»80

A tale scopo Said ha sempre voluto tradurre i suoi scritti sia in arabo che in ebraico per diffonderli in Palestina come in Israele. Egli sostiene che gli intellettuali palestinesi hanno la responsabilità di arginare le passioni e la rabbia provocate dalla disperazione e dal dolore e diffondere idee fondate sulla conoscenza e il rispetto: in questo senso la società araba guidata dai suoi intellettuali deve escogitare mezzi pacifici per rapportarsi agli israeliani. Così come, sull'altro versante, Israele dovrebbe studiare e rivalutare le tradizioni e la cultura araba discostandosi da posizioni simili a quelle che descrivono i palestinesi «una misera popolazione»81. .

Il tema della cultura chiama in causa, per Said, quello della censura; nella sua concezione la censura operata da entrambi i fronti, arabo e israeliano, non è mai stata né mai sarà uno strumento per consolidare il consenso o spostare l'ago della bilancia a favore di una delle due parti in gioco. La censura condanna soltanto all'ignoranza e nega ogni possibilità di sviluppo civile e di diffusione di coscienza critica.

Sul ruolo degli intellettuali nel diffondere i principi del rispetto e del riconoscimento dell'altro Said afferma:

«Un intellettuale è come se fosse scampato ad un naufragio ed imparasse a vivere per così dire con il paese cui è approdato e non su di esso. Non come Robinson Crusoe che si propone di colonizzare la sua isoletta; semmai come

80 Edward Said, Fine del Processo di Pace, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 244.

81 Edward Said, La Questione Palestinese, pag.38. con citazione da Theodor Herzl, Diaries, 1895.

Marco Polo che non perde il senso della meraviglia e rimane sempre un viaggiatore, un ospite di passaggio che non si trasforma mai in approfittatore, conquistatore, predone». 82

Basandosi sul concetto di “ospite” o di “viaggiatore di passaggio” Said intravede una possibile soluzione all'odio e alla violenza in Palestina e in Israele.

Strettamente legato al ruolo della cultura e degli intellettuali è il tema dell'informazione internazionale. Come studioso della comunicazione linguistica della cultura occidentale, Said ha monitorato attentamente l'atteggiamento della stampa occidentale sulla questione israelo-palestinese, concentrando la propria attenzione soprattutto sui media statunitensi. Secondo Said, lo sproporzionato sbilanciamento a favore di Israele da parte della stampa americana è il principale fenomeno da contrastare al fine di una soluzione pacifica del conflitto in questione:

«L'aspetto paradossale è che la verità e la giustizia sono dalla parte dei palestinesi, ma essi non avranno alcuna possibilità di trionfare finché non avranno messo questo fatto di fronte al mondo in generale, a loro stessi, agli israeliani, e soprattutto agli americani.» 83

Difatti, secondo Said, l'opinione pubblica statunitense ha un peso rilevante al fine del riconoscimento dei diritti del popolo palestinese presso la

82 Edward Said, Dire la Verità, Feltrinelli, Milano, 1944, cit. p.70.

comunità internazionale. Egli afferma che la posizione del popolo americano è condizionata da un'informazione manipolata ad arte, che evita espressioni come “territori occupati” o si rifiuta di mostrare immagini di morte e devastazione ai danni del popolo palestinese. Per esempio, Said nota l'uso di particolari espedienti retorici per sconvolgere la realtà dei fatti, come quando, durante l'occupazione del sud del Libano nel 1978, la stampa americana parlava di “attacchi dei terroristi arabi contro civili israeliani”, mentre commentava i bombardamenti contro i campi profughi come “attacchi contro le basi palestinesi”. Said sottolinea in molti suoi interventi che, paradossalmente, la stampa americana è molto più faziosa di quella israeliana, la quale, soprattutto negli ultimi anni, ha ridotto drasticamente la censura riportando sempre più spesso il pensiero di molti intellettuali israeliani inclini al riconoscimento dei diritti del popolo palestinese.

L'incondizionato appoggio americano ad Israele viene interpretato da Said come il frutto dell'intromissione nella politica statunitense di potenti lobby, associazioni e PAC (gruppi di azione politica) filo-israeliane. Questi gruppi intervengono economicamente durante le campagne elettorali dei canditati alla presidenza, assumendo un grande potere decisionale sulle politiche dei futuri governi in merito al conflitto israelo-palestinese. Said ricorda che prima che Hilary Clinton divenisse senatrice, si espresse più volte a favore della fondazione di uno stato palestinese; quando poi fu costretta a fronteggiare un candidato repubblicano nello stato di New York cambiò opinione in direzione filo-sionista a tal punto da auspicare il trasferimento dell'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme,

posizione assunta soltanto dai sionisti più radicali.84

Eppure Said nota che una grande responsabilità per la delegittimazione della causa palestinese cade proprio sulla leadership araba che a partire dal 2000 ha permesso l'ascesa di gruppi come Hamas e

Jhad islamica, i quali tolgono respiro al dibattito politico laico per affermare

un dogmatismo religioso violento che non giova all'immagine della comunità palestinese.

In questo senso, gioca un ruolo fondamentale anche la criminalizzazione dell'Islam compiuta dai governi americani e israeliani dopo l'11 settembre 2001; un tale atteggiamento ha compattato il fronte estremista musulmano che è stato eletto, soprattutto dagli USA, come il nuovo nemico da combattere in nome della lotta al terrorismo. In questo scontro il termine “mondo arabo” ha assunto esclusivamente un significato negativo, rimandando a organizzazioni terroristiche. Il problema, dice Said, è che il termine “terrorista” affiancato automaticamente a “mondo arabo” rischia di generare una pericolosa spirale: è necessario non cedere il passo all'ignoranza, ma al contrario conoscere, studiare e apprezzare una cultura millenaria che non contempla la violenza; d'altra parte occorre arginare quelle frange estreme che interpretano la religione islamica per soddisfare la loro rabbia. Said aggiunge che l'uso inesatto della parola “terrorista” non è solo il frutto di ignoranza e superficialità; in alcuni casi il termine potrebbe essere usato per demonizzare coscientemente un avversario; per esempio le rivolte degli indiani contro i britannici durante la colonizzazione venivano chiamati “atti di terrorismo” e solo dopo molti anni quelle azioni sono state

giudicate sotto un'altra luce.

Così come Said critica l'uso inesatto della parola “terrorismo” da parte del mondo occidentale, denuncia la scorrettezza del sempre più citato “scontro tra civiltà”, che presupporrebbe una faglia tra due o più civiltà, nello specifico tra mondo occidentale e mondo orientale. Secondo Said anche il principio di scontro tra civiltà è viziato da ignoranza e, più spesso, da una cosciente volontà di denigrare il mondo orientale per lodare la superiorità del modello occidentale. Da profondo conoscitore della letteratura occidentale Said cita Conrad per affermare la sua critica a un simile atteggiamento intellettuale:

«Fu Conrad a comprendere che le distinzioni tra la Londra civilizzata e il “Cuore di tenebra” facevano presto a crollare in situazioni estreme, e che le vette della civiltà europea potevano trasformarsi all'istante nelle pratiche più barbare senza preavviso né transizione» 85

Said è fermamente convinto che ci sia una interdipendenza tra le diverse culture, che esista una compenetrazione di valori anche tra civiltà apparentemente in opposizione e che la contaminazione sia il collante tra mondi diversi: i contatti tra mondo arabo e impero romano, la conquista dell'Europa meridionale, le esplorazioni e le invasioni in Medioriente da parte degli europei, le migrazioni, tutto ciò ha portato a una stratificazione di culture che rende impossibile delineare i confini netti tra diversi modelli di

85 Edward Said, Più che di civiltà è scontro d'ignoranze, sul giornale “ La Repubblica”, 1 novembre 2001.

società.

In relazione allo studio del conflitto israelo-palestinese, Said afferma la necessità di osservare il sionismo sotto due punti di vista diversi: da un lato occorre capire quale sia stata la motivazione che ha spinto i primi sionisti a prendere in considerazione l'occupazione della Palestina e dall'altro si devono comprendere le ragioni che legittimano l'espropriazione delle terre e delle abitazioni dei palestinesi. Said afferma che il sionismo «non si definì mai chiaramente come un movimento di liberazione ebraico, ma piuttosto come un movimento ebraico per la colonizzazione dell'Oriente.»86 Tale

affermazione è corroborata dalla citazione di autori occidentali che in varie forme si sono espressi sull'argomento: George Eliot, Karl Marx, John Stuart Mill, i quali hanno auspicato una penetrazione dell'occidente e della sua cultura nel “dispotico oriente”. Questi intellettuali, osserva Said, non negano l'esistenza di popoli nativi in oriente, ma ne negano la sovranità e il loro status di abitanti legittimi. Lo stesso Borochov, padre del sionismo socialista, sostenne che la Palestina esigeva un'immigrazione di massa per bilanciare il sottosviluppo e l'ignoranza della popolazione locale. L'atteggiamento dei sionisti o di coloro che hanno in qualche modo partecipato al dibattito sionista, afferma Said, affonda le sue radici nell'atteggiamento etnocentrico che ha caratterizzato l'Europa coloniale sulla scia dell'imperialismo del 1800.

Secondo Said, ciò che ha permesso al progetto sionista di attecchire è stato il fatto che il sionismo sia stato paragonato dagli arabi a qualsiasi altra forma di colonialismo, da combattere con la forza armata e con appelli ai tribunali internazionali per decretare la legittima sovranità su quelle terre; le

comunità indigene non si accorsero che il progetto sionista e la migrazione degli ebrei in Palestina vennero programmati meticolosamente secondo il principio dei “fatti compiuti” al fine di spazzare via da quella regione tutto ciò che esisteva prima dell'arrivo della comunità ebraica.

Said sottolinea che l'opposizione araba è sempre stata inadeguata e lo fu sin dagli inizi. Come esempio calzante, Said ricorda l'immobilità e l'incapacità di reazione dei palestinesi quando il Jewish National Found acquistò in Palestina terre destinate all'occupazione da parte degli ebrei. In quella occasione l'organizzazione ebraica dichiarò:

«deve essere chiaro che non c'è posto per tutti e due i popoli in questo paese. […] Non c'è altro modo se non quello di trasferire gli arabi nei paesi confinanti, trasferirli tutti; eccetto forse per Betlemme, Nazareth e la città vecchia di Gerusalemme, non dobbiamo lasciare un singolo villaggio, una singola tribù.87 »

Sulla base di quanto è stato detto finora a proposito dei punti nodali del pensiero di Said sulla questione israelo-palestinese è possibile trarre delle conclusioni di carattere pratico per un assorbimento della violenza nel conflitto. In primo luogo l'esigenza di un riconoscimento reciproco da parte dei due popoli, ciò che può avvenire tramite la cultura e l'istituzione di una

Commissione storica per la verità; in secondo luogo la necessità di

un'informazione oggettiva depurata da ogni forma di partigianeria e di influenza politica esterna, soprattutto in riferimento alla stampa statunitense

filo-sionista.

Per quanto riguarda le proposte strettamente politiche di Said, ricordiamo quella che ha accompagnato lo studioso nell'ultima fase della sua vita, ovvero l'istituzione di un unico stato con pari diritti per entrambe le parti, ciò che potrebbe portare ad un graduale esaurimento dell'odio e della violenza. Uno stato unico con pari diritti di cittadinanza deve essere, secondo Said, soprattutto laico al fine di essere totalmente “inclusivo” e generare “un'umanità comune affermata in uno stato bi-nazionale”.88

Conclusioni

Ciò che occorre aggiungere in forma di conclusione è che, sebbene non abbiano abbattuto il muro di resistenza interna al movimento sionista tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento, Buber, Magnes e Arendt hanno inaugurato una prospettiva di osservazione della questione arabo-ebraica oggi rivalutata dai contemporanei. Mentre essi hanno tentato di stimolare la comunità ebraica al riconoscimento del popolo arabo, oggi, dopo sessanta anni, sul fronte opposto, intellettuali del calibro di Said e Abu-Nimer suggeriscono, al fine di una reciproca comprensione, alla popolazione araba una presa di coscienza delle sofferenze subite nella storia dagli ebrei; in entrambe le proposte la comprensione del dolore e della sofferenza divengono il collante per il raggiungimento della pace tra i due popoli. Soprattutto Said, sotto il profilo strettamente politico, sembra aderire perfettamente all'ipotesi di uno stato bi-nazionale arabo-ebraico così come teorizzato da Buber, Magnes e Arendt, ritenendo realizzabile solo questa forma di istituzione.

Chi scrive non ha la pretesa di escludere altre ipotesi per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, ma trova una conferma della realizzabilità di questa soluzione in un esperimento iniziato negli anni Settanta del Novecento su un terreno agricolo nella valle di Ayalon; qui, da quando nel 1967 si sono susseguiti demilitarizzazione e abbandono dei campi, famiglie arabe ed ebree hanno scelto di vivere insieme nell'uguaglianza e nella cooperazione. Il villaggio, che ha avuto come

fondatore il padre domenicano Bruno Hussar, oggi comprende settanta famiglie organizzate su base democratica con un segretario e una commissione eletta di anno in anno a cui spetta il compito di decidere le questioni riguardanti la comunità.

Proprio in relazione a quanto affermava Said sul ruolo della cultura per la convivenza e la pace, a Neve Shalom-Wahat al-Salam - questo è il nome della comunità- la scuola prevede seminari di reciproco incontro sul conflitto sia per giovani che per adulti, incontri di lavoro fra cittadini di Israele e Palestina, corsi di formazione annuale in cooperazione con l'Università di Israele e corsi di empowerment per donne arabe ed ebree. Inoltre, l'educazione dei più piccoli è bilingue: gli insegnanti, arabi ed ebrei, parlano con i bambini la loro lingua d'origine facendo acquisire il rispetto di culture e tradizioni diverse. Un risultato importante è stato ottenuto tra il '92 e il '93, quando il Ministro dell'educazione israeliano ha riconosciuto ufficialmente la scuola materna ed elementare di Neve Shalom-Wahat al-Salam; inoltre nel Duemila lo stesso ministero ne ha “incorporato” la scuola materna al sistema scolastico nazionale, riconoscendo Neve Shalom-Wahat al-Salam come un modello da adottare in altre regioni e località con popolazione mista (Ramla, Giaffa, Acri, Haifa).

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