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MOHAMMED ABU-NIMER: TESTIMONIANZE NON VIO LENTE IN ISRAELE E PALESTINA

L'incipit del dibattito sulla creazione di uno Stato democratico bi-nazionale arabo-ebraico.

Capitolo 3 Il dibattito su una possibile convivenza.

3.2 MOHAMMED ABU-NIMER: TESTIMONIANZE NON VIO LENTE IN ISRAELE E PALESTINA

Nel dibattito contemporaneo sul conflitto israelo-palestinese ricordiamo il contributo del 2004 di Mohammed Abu-Nimer dal titolo Azione

diretta non violenta in Israele e Palestina: possibilità e sfide, raccolto nei

«Quaderni di Satyāgraha», n. 5 (Giugno 2004) a cura di Rocco Altieri. Il breve saggio vuole proporre una via non violenta alla composizione del conflitto israelo-palestinese, facendo luce sul significato di «lotta non violenta» e illustrando una breve storia delle più importanti azioni non violente verificatesi in Palestina e in Israele dagli anni ’70 fino a oggi.

Abu-Nimer chiarisce, prima di tutto, le definizioni di non-violenza seguite per la composizione del suo saggio:

«La nonviolenza è un insieme di atteggiamenti, percezioni e azioni, finalizzato a persuade la parte avversa a cambiare le proprie opinioni, percezioni e azioni. Nonviolenza significa che gli attori non si rivarranno con la violenza contro le azioni dei loro opponenti; ma, assorbendo la loro collera e i danni subiti, invieranno un risoluto messaggio di pazienza e insistenza

contro le ingiustizie che li sopraffanno.» 69

Partendo da tali presupposti Abu-Nimer aggiunge che la strategia non violenta è un impegno rischioso e drammatico, poiché il resistente non violento mette la propria vita nelle mani dell'avversario non cooperando e disobbedendo ad esso.

Anche in Palestina e in Israele la pratica della non-violenza attiva, come per molte altre regioni del mondo, riscuote una certa diffusione a partire dalla seconda metà del ’900; in particolar modo, come ricorda Abu- Nimer, a partire dal 1967, anno dell'occupazione della Cisgiodarnia e della striscia di Gaza da parte di Israele. È dunque un'opinione errata quella che sostiene la necessità della creazione di movimenti di resistenza non violenti in Palestina; difatti già da diversi decenni tali movimenti esistono riscuotendo importanti successi o inciampando in gravi sconfitte.

Le pratiche non violente adottate dai Palestinesi durante la prima

Intifada (1987) furono diverse: dimostrazioni, sit-in, preghiere collettive nelle

strade, periodi di silenzio, blocchi del traffico, boicottaggio dei prodotti di Israele, rifiuto dei servizi ai Vip, partecipando alle proteste nonviolente con le forze di pace israeliane da entrambe le parti dei checkpoint, organizzando conferenze internazionali, sottoscrivendo documenti di protesta poi inviati alle ambasciate e alle organizzazioni internazionali per richiedere la fine delle occupazioni.70 Secondo Abu-Nimer, il primo passo per la buona riuscita di

69 Mohammed Abu-Nimer, Azione diretta non violenta in Israele e Palestina: possibilità e sfide in Quaderni Satyāgraha. Il metodo non violento per trascendere i conflitti e costruire la Pace a cura di Rocco Altieri, n°5, Edizioni Plus, Pisa, 2004, pag. 127.

una risoluzione nonviolenta in Palestina e Israele sarebbe quello di sottolineare la presenza dei movimenti che in questa direzione si sono già mossi negli anni passati; per fare ciò occorre bilanciare, con ogni mezzo lecito e moralmente in linea con i principi di questo tipo di lotta, la stampa israeliana e i comunicati istituzionali israeliani che hanno sempre tenuto nell'ombra i movimenti nonviolenti palestinesi, enfatizzando, al contrario, le azioni delle frange di resistenza armata. In questo senso l'occhio vigile delle associazioni internazionali ha la responsabilità di maggior peso.

Riprendendo la storia delle azioni nonviolente in Palestina, Abu-Nimer ricorda che dalla fine degli anni ’70, affiancando vere e proprie azioni concrete, alcune associazioni, quali il Centre for the study of Nonviolence di Gerusalemme o il Committee Against the Iron Fist Policy, hanno inaugurato importanti attività di educazione e sensibilizzazione alla nonviolenza, traducendo in lingua araba le strategie e le tecniche concepite da Martin Luther King, Gandhi e Gene Sharp.

Il periodo migliore per la lotta non violenta palestinese fu quello seguente al 1987, dopo l'incidente del camion di Gaza e la sparatoria di Balata. Dopo questi due eventi drammatici in cui persero la vita centinaia di Palestinesi, il movimento palestinese diede vita a un «comando unificato clandestino, e cominciò a diffondere locandine e volantini per lanciare la prima diretta, esplicitamente nonviolenta, campagna di resistenza nazionale palestinese»71 . Questa campagna ebbe come conseguenza una inedita,

sebbene priva di effetti, rilettura dell'uso della forza da parte della società civile israeliana: «accrebbe negli israeliani la consapevolezza della parallela

"vittimizzazione" dei Palestinesi, anche sensibilizzando l'opinione pubblica alla questione palestinese dell'autodeterminazione nazionale; contribuì alla mobilitazione della sinistra politica israeliana (specialmente attraverso piccoli gruppi di protesta), che fece dimostrazioni, e condusse diverse attività di solidarietà; introdusse inoltre la soluzione dei due stati nell'opinione pubblica

israeliana del tempo». (p. 135, corsivo mio).

Tra le azioni più eclatanti della lotta nonviolenta del 1987 Abu-Nimer ricorda lo sciopero dei commercianti palestinesi e il rifiuto dei palestinesi di pagare le tasse recando un danno all'economia israeliana di 120 milioni di dollari. In quella occasione, per aggirare le privazioni conseguenti all'evasione fiscale, i palestinesi organizzarono un mercato del lavoro alternativo, scuole auto-gestite, e piccoli ambulatori allestiti nelle abitazioni private. Secondo Abu-Nimer ricordare quella stagione di resistenza e apprendere da quelle azioni è il primo passo per rafforzare i movimenti nonviolenti che oggi continuano la loro battaglia per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese.

Ma il successo di quelle azioni dipese da fattori che oggi, secondo Abu-Nimer, sembrano venir meno: 1) una leadership in grado di tenere unita la popolazione e di arginare ogni afflato di violenza; 2) l'insipienza dell'ANP nel promuovere nuove forme di resistenza in una direzione nonviolenta efficace:

«La leadership dell'ANP, essendo la sola legittimata a negoziare con Israele, ha di fatto bloccato l'emergere di una leadership locale che conducesse una

campagna d'azione di massa contro l'occupazione.» 72

Ad aggravare la situazione dal 2000 in poi è stata la massiccia diffusione di armi presso la società palestinese, che le ha impugnate per lo scontro armato contro gli Israeliani. Si aggiunga che piccoli gruppi armati alle dipendenze di diverse forze di sicurezza hanno soppresso molte iniziative popolari nonviolente. Tutto ciò ha fornito a Israele il pretesto di attacchi indiscriminati contro civili palestinesi innocenti. Per questo motivo, ricorda Abu-Nimer, l'ISM e il GIPP (Grassroots International Protection for the

Palestinian People) hanno promosso alcune iniziative volte a indurre i militari

israeliani a distinguere tra la resistenza armata e quella civile.73 Non hanno

giovato alla lotta nonviolenta nemmeno gli uomini-bomba che hanno indignato l'opinione pubblica israeliana e internazionale: queste azioni hanno avuto come conseguenza la difficoltà, per i simpatizzanti delle aspirazioni politiche dei palestinesi, di esprimere con convinzione le proprie idee.

Abu-Nimer osserva con attenzione anche i movimenti di aspirazione nonviolenta presenti in Israele constatando la loro inefficacia. Questi gruppi, secondo lo studioso, contengono al loro interno discrepanze importanti che rendono difficoltosa la creazione di movimenti più ampi e di maggiore impatto; la più importante è la totale fedeltà all'ideologia israeliana della sicurezza, come avviene per il gruppo Peace Now: «il gruppo evita ogni diretto confronto sul campo con le forze militari israeliane, tuttavia si oppone a molte delle politiche governative come l'espansione degli insediamenti, la

72 Abu-Nimer, Op. cit., p. 140. 73 Cfr. Idem, p.142.

violazione dei diritti umani e le punizioni collettive. Malgrado la loro forma attiva di protesta condotta negli anni, i leader di Peace Now sono estremamente attenti a mantenere il consenso nazionale su temi cruciali quali il sostegno all'esercito (molti sono impiegati nell'esercito o "riservisti"»74.

Per corroborare la propria tesi Abu-Nimer cita le parole di Adì Ophir:

«La sinistra, che in Israele si è rapidamente avvicinata alla destra, è stata una sinistra che non ha mai interiorizzato il fatto che l'occupazione è il punto di partenza, e che la fine dell'occupazione è una condizione per la riconciliazione e non vicevers»75.

Abu-Nimer aggiunge un altro fattore per spiegare l'insipienza dei gruppi nonviolenti in Israele: il rischio di incorrere in gravi sanzioni per tutti i resistenti nonviolenti israeliani, poiché come è stato detto, la lotta nonviolenta implica la sfida alle politiche e alle leggi dello Stato. Per questo motivo i gruppi pacifisti israeliani hanno basato la loro azione sui temi più moderati della sicurezza e della pace, mentre quelli palestinesi sui temi della libertà e dei diritti umani. È questa, con molta probabilità, la motivazione che tiene spesso lontani i gruppi pacifisti palestinesi da quelli israeliani.

Esistono, però, alcune associazioni pacifiste israeliane che con impegno e dedizione hanno lottato e continuano a farlo per la fine delle occupazioni e la creazione di uno stato palestinese. Abu-Nimer ricorda Yesh

Gvul (‘c'è un limite’), Ta’ ayush (‘vivere insieme’), Rabbis for Human rights,

74 Abu-Nimer, Op. cit., p. 145.

75 A. Ophir, A Time of Occupation, in The Other Israeli Voices of Refusal and Dissent, a cura di R. Carey-J. Shanin, cit. p. 53. La citazione è in Abu- Nimer, op.cit., p.145.

Israeli Committee Against Home demolition, Gush Shalom, Mashom Watch

(per i controlli dei posti di blocco).

Abu-Nimer sottolinea l'importanza del rifiuto di militare nell'esercito compiuto dagli attivisti israeliani. Fino al 2004 il rifiuto ha coinvolto 27 piloti di riserva, quattro ex comandanti del servizio di sicurezza, un capo del personale militare, una lista di 574 riservisti. Si aggiunga che dal 2002 un migliaio di ex ufficiali, fra cui anche Generali, hanno invitato Israele a porre fine all'occupazione. Tutte le dichiarazioni degli attivisti che hanno rifiutato il servizio militare sono state raccolte da un gruppo chiamato Courage to

Refuse. Abu-Nimer cita una delle dichiarazioni di alcuni militari appartenenti

ai servizi segreti israeliani contro il terrorismo:

«Abbiamo oltrepassato da molto tempo il confine fra soldati che combattono per una giusta causa e soldati oppressori di un altro popolo. Il gruppo dichiara il suo profondo timore per il futuro dello stato di Israele come paese democratico, sionista ed ebraico, e accusa il governo israeliano di violare i diritti di milioni di palestinesi e di usare i soldati come scudi umani per gli insediamenti dei coloni... Noi non sacrificheremo più la nostra umanità, prendendo parte a missioni militari di occupazione.»76

Occorre sottolineare che il rifiuto non comporta necessariamente la negazione dell'impegno militare, ma prevede l'uso dell'esercito esclusivamente per scopi difensivi. Abu-Nimer definisce una tale posizione come rifiuto selettivo, ovvero un rifiuto dell'abuso del potere militare

perpetrato per fini come guerre di aggressione e azioni di repressione della società civile.

Nonostante il numero degli obiettori sia esiguo Abu-Nimer afferma che il loro atto «brilla come un faro. Scaccia la disperazione che ha infettato ogni parte del corpo sociale e ridà speranza al futuro». 77

Sul versante palestinese la resistenza non-violenta contemporanea si avvale della collaborazione di associazioni straniere e di volontari provenienti da rutto il mondo che hanno coordinato azioni pacifiste degne di attenzione: scortare le ambulanze nel mirino dei militari israeliani; alloggiare nelle case dei palestinesi al fine di proteggerli da invasioni militari; portare medicinali e cibo ai 150 palestinesi assediati per 43 giorni nella chiesa della Natività a Betlemme. Gli stessi volontari, supportati dai membri dell'associazione pacifista israeliana Gush Shalom, hanno guidato in diverse occasioni marce di protesta e manifestazioni pacifiche contro l'esercito israeliano.

Come nota Abu-Nimer, la diffusione degli strumenti di lotta non- violenta è stata notevole soprattutto presso i ceri rurali palestinesi e nelle classi medio basse; manca ancora un appoggio decisivo del ceto medio palestinese che è rimasto distaccato dall'impegno civile. Tra le varie associazioni impegnate a diffondere la resistenza non-violenta in Palestina ricordiamo Holy Land Trust che ha avviato corsi di sensibilizzazione a Betlemme, Beit Sahour e Ramallaha e il Centre for nonviolence di Gerusalemme che ha inaugurato una biblioteca che ha offerto a molti bambini l'opportunità di leggere materiale sulla nonviolenza.

Abu-Nimer ricorda come all'interno del movimento di liberazione

nazionale palestinese ci siano stati tre tipi di orientamenti sull'uso della violenza: il primo ammetteva tutti gli strumenti di resistenza possibili, quindi anche la violenza; il secondo ammetteva la violenza solo in determinate circostanze e secondo particolari modalità; il terzo rifiutava la violenza a tutti i livelli. È interessante notare come negli ultimi anni il terzo orientamento abbia perso credibilità soprattutto a causa degli interventi di alcuni leader della resistenza e di alcuni intellettuali che hanno dichiarato inefficace la lotta non violenta in Palestina. Alcuni di essi hanno addirittura dichiarato che la nonviolenza contraddice l'Islam. In realtà, come ricorda Abu-Nimer, un tale assunto è oggettivamente errato e facilmente contestabile:

«Khalid Kishtainy (1990, 1998), Khalis Jalabi (1998), Jawdat Said (1997) e Imam Mohammad al Shirazi (pionieri della nonviolenza nel mondo arabo) hanno usato ‘jihad civile’ come termine per evitare la Unf (nonviolenza), espressione araba che ha una connotazione negativa di resa e passività. La nonviolenza riguarda il rifiuto attivo della violenza ed un impegno pieno nel resistere all'oppressione attraverso possibili mezzi che sfidino la dominazione e d'ogni altra forma di ingiustizia, senza infliggere sofferenza fisica agli oppositori.» 78

Dunque lotta nonviolenta non vuol dire ‘arresa’, ma lotta condotta secondo modalità diverse da quella armata e ciò, secondo quanto afferma Abu-Nimer, non stride con i principi dell'Islam.

La conclusione del saggio di Abu-Nimer sottolinea l'importanza della

«rifocalizzazione» sulle esperienze non violente palestinesi degli scorsi decenni e la necessità di una maggiore cooperazione dei movimenti pacifisti israeliani e palestinesi al fine di un passo decisivo per la composizione di un lungo e drammatico conflitto.

3.3

EDWARD

SAID:

RICONOSCERE

PER

ESSERE