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El sicario – Room 164: il cappuccio del boia

CAPITOLO III La rappresentazione del crimine e del colpevole nel cinema

3.2 Un percorso filmografico: ragioni e obiettivi

3.2.2 La confessione anonima: il filmmaker, il colpevole e la sua maschera

3.2.2.2 El sicario – Room 164: il cappuccio del boia

Il protagonista del documentario di Gianfranco Rosi è un ex sicario dei narcos messicani, uscito dalla violenta macchina criminale dei cartelli della droga a seguito di un’improvvisa conversione religiosa. Anche in questo caso, al centro della rappresentazione vi è un colpevole impunito che si presta a partecipare al progetto documentario solo a patto di non vedere rivelata la propria identità. Si tratta, dunque, di un’altra confessione problematica — mancante del costo di enunciazione che caratterizza il ‘dir vero’ di sé e, di conseguenza, di un enunciatore autenticamente responsabile della propria testimonianza.

Il punto di partenza del film del regista italiano è nuovamente un resoconto scritto: il racconto/reportage del giornalista americano Charles Bowden, The Sicario. A Juàrez hitman speaks, pubblicato nell’edizione statunitense di Harper's nel Maggio 2009.423 Il confronto con la fonte letteraria rivela immediatamente la corrispondenza, pressoché perfetta, tra le due performance testimoniali del sicario di Juàrez: gli episodi narrati, l’ordine dell’esposizione e, persino, i gesti che la accompagnano sono identici nell’articolo scritto da Bowden — che è anche co-autore del film — e nel documentario girato da Rosi. In questo senso, possiamo dire che il sicario si attiene a un copione in cui la sua stessa storia, dall’ingresso nel mondo della criminalità alla conversione, segue uno schema chiuso, disegnando una parabola di dannazione e redenzione scritta e messa in scena da un soggetto-attore.

Mentre il protagonista del documentario di Mograbi celava la propria identità per paura, da un lato, delle conseguenze penali e, dall’altro, della vendetta delle vittime — due minacce, in realtà, non così concrete e scontate considerata la situazione politica e militare israeliana — il sicario dichiara di essere a conoscenza di una taglia di 250.000 dollari sulla sua testa, fissata dal cartello per cui lavorava. Lo status di fuggitivo del protagonista rende impossibile a Bowden e a Rosi la costruzione di una relazionalità autentica con il protagonista. Il sicario è rappresentato come una fonte e trattato come un informatore; in entrambi i casi l’intervista si svolge nella stanza anonima di un motel ai confini tra Stati Uniti e Messico e il volto dell’uomo appare irriconoscibile al lettore/spettatore. Se nel documentario l’uomo indossa un cappuccio nero, che copre integralmente la testa, nell’articolo del giornalista statunitense la descrizione fisica del personaggio evita accuratamente ogni particolare identificativo e, persino, espressivo:

423 C. Bowden, The Sicario. A Juàrez hitman speaks, in “Harper’s Magazine”, May 2009. Una copia dell’articolo è consultabile a questo indirizzo, https://harpers.org/archive/2009/05/the-sicario/ (consultato in data 3/9/2018).

He is of average height, he dresses like a workman with sturdy boots and a knit cap. If he stood next to you in a check-out line, you would be unable to describe him five minutes later. Nothing about him draws attention. Nothing. He has very thick fingers and large hands. His face is expressionless. His voice is loud but flat.424

La maschera che nasconde il sicario messicano nel film del regista italiano è impenetrabile. Dagli strati di stoffa nera finemente traforata l’uomo intravede solo la porzione di realtà necessaria a disegnare sul quaderno e a muoversi nello spazio, ma da questi veli essi non trapela nulla che possa nemmeno ricordare allo spettatore il volto di un uomo. Rosi ci pone, in sostanza, di fronte a una massa nera e informe, che si nega perciò come corpo umano. Le soli parti visibili, ovvero riconoscibili, del corpo filmato da Rosi sono le due grandi mani callose che fanno retoricamente da parte per il tutto del killer, che le ostenta di fronte alla macchina da presa come vere e proprie armi fatte per uccidere. Queste mani, nel loro isolamento visivo e nella sproporzione425 rispetto al corpo e nel loro gesticolare frenetico, mimano, durante il resoconto, con la stessa energia furiosa tanto gli strangolamenti quanto le preghiere.

Sullo sfondo di queste due azioni, alle estremità della vita eccessiva del protagonista, il racconto di un susseguirsi di strette di mano tra la politica, la polizia e i narcos. Come ha evidenziato Mark Peranson, le scelte della messa in scena cinematografica coinvolgono lo spettatore nel medesimo sistema di fiducia entro cui si dipana il vissuto del testimone:

“Trust” is itself the film’s theme. The story that the sicario narrates is one of trust: between himself and his patron, the other members of the cartel, between the drug barons, the police, and the local (and federal) governments of both Mexico and the US. Just as important as money, trust is what holds this system together, and a breakdown of trust is in fact what ironically ignites the sicario’s third-act transformation into a man of faith.426

Il film di Rosi ci invita a fare un vero e proprio atto di fede rispetto a questa testimonianza, senza esibire prove o ricostruzioni attendibili, ma affidandosi all’orientamento cognitivo determinato nello spettatore dalla sola etichetta ‘documentario’. Il genere documentario di per sé richiede un atto di fede che qui è esibito nella propria essenza slegata da qualsiasi logica di verifica e interrogazione. Le scelte narrative ed estetiche adottate da Rosi portano agli estremi quel percorso di emancipazione dal dato fattuale che, come abbiamo visto, attraversa per intero

424 Ivi, p. 48.

425 La grandezza delle mani del protagonista è accentuata dal ricorso a un obiettivo grandangolare che deforma gran parte delle riprese effettuate nella camera del motel.

426 M. Peranson, El Sicario Room 164, in “CinemaScope”, Issue 45. Articolo consultabile online all’indirizzo http://cinema-scope.com/spotlight/spotlight-el-sicario-room-164-gianfranco-rosi-franceus/ (consultato in data 01/09/2018).

il cinema documentario contemporaneo.

A differenza della complessità e della stratificazione dei livelli della rappresentazione in Z32, qui la testimonianza è presentata per sottrazione, nel suo mero darsi come parola, ovvero, come scrittura senza soggetto, segno grafico e citazione ripetibile all’infinito, secondo la prospettiva linguistico-filosofica derridiana. El sicario – Room 164 rinuncia, dunque, al potere del cinema documentario di mostrare l’uomo con il suo volto e il reale attraverso le vite di coloro che lo abitano. La violenza narrata dal sicario si avvale solo delle immagini scarabocchiate in modo frettoloso e compulsivo su un bloc-notes Alle figure stilizzate, agli schemi, alle parole chiave e alle sottolineature è affidato il compito di ‘spiegare’ l’atrocità del crimine.

L’intervista si svolge nell’arco di una giornata ed è interamente girata nella stanza di un motel nei pressi di Juàrez — nel 2009, durante le riprese del film, la città con più omicidi al mondo.427 Gli spazi vuoti e insignificanti della stanza 164 ci vengono mostrati all’inizio del film con una serie di lunghe inquadrature fisse. In questa sorta di non luogo si inserisce la figura massiccia e incappucciata del sicario che, prima dell’inizio vero e proprio dell’intervista-confessione, sostiene di aver rapito e torturato una persona proprio in quella stanza. Uguale a migliaia di altri, questo ambiente riporta alla memoria dell’uomo una delle tante violenze perpetrate nel suo passato. La stanza 164 come spazio anonimo, concepito e organizzato in serie come tutte le camere dei motel, fa da cassa di risonanza alla violenza ‘professionale’ del protagonista e del sistema criminale a cui era affiliato. Le torture e gli omicidi non sono vissuti e narrati come eventi traumatici, ma come prodotti di un lavoro che richiede abilità, devozione cieca verso il proprio ‘padrone’ e, persino, l’assenza di istinti sadici.428

Come in S21: La macchina di morte dei Khmer rossi (S.21, la machine de mort Khmère rouge, Rithy Panh, 2003) e The Act of Killing (Joshua Oppenheimer, 2012),429 l’assassino, nel corso del film, mette in scena i propri crimini, mimando con enfasi la tortura di una delle tante vittime rapite durante la sua attività per i cartelli. Anche qui, l’auto‐mise‐en‐scène430 del

427 Il film riporta sullo schermo nero prima dei titoli di coda il dato di oltre 5000 persone uccise in questa città dal gennaio 2008 alla fine del 2009. Per un approfondimento sull’emergenza della violenza nella città messicana in quegli anni si veda, E. Vulliamy, Life and death in Juárez, the world's murder capital, in “The Guardian”, October 2009, https://www.theguardian.com/world/2009/oct/04/mexico-drugs-death-squads-juarez (consultato in data 01/09/2018).

428 A questo proposito riporto un passaggio dell’articolo di Bowden particolarmente significativo: «he resents people who like to kill. They are not professional. Real sicarios kill for money. But there are people who kill for fun. “People will say, ‘I haven’t killed anyone for a week.’ So they’ll go out and kill someone. This kind of person does not belong in organized crime. They’re crazy. If you discover such a person in your unit, you kill him. The people you really want to recruit are police or ex-police, trained killers.”», C. Bowden, The Sicario. A Juàrez hitman speaks, op. cit.

429 Per un approfondimento sul reenactment in questi due film si rimanda a R. Stam, Keywords in Subversive Film/Media

Aesthetics, Wiley-Blackwell, Hoboken New Jersey, 2015.

430 Il termine è stato utilizzato nelle analisi sul cinema documentario di C. de France, Cinéma et Anthropologie, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, Paris 1998 e in quelle, già citate, di Comolli, J.L. Commoli, Vedere e potere, op. cit., pp. 122-143.

carnefice è caratterizzata da una sollecitudine disturbante, in cui il soggetto interpreta, in modo fisico, le azioni violente commesse come se si svolgessero su un palcoscenico o al cospetto di un pubblico. Mentre i film di Panh e Oppenheimer presentano queste performance come atti di auto-accusa, inserendole in un discorso politico che mostra il volto dei colpevoli — in contesti sociali in cui il passato è stato forzatamente rimosso e le colpe sono rimaste impunite — il documentario di Rosi accoglie la confessione del protagonista in uno spazio sicuro in cui il peccato è scisso dal peccatore come nel segreto di un confessionale. Le scelte registiche e stilistiche di El Sicario producono, quindi un paradosso: «that Rosi’s uncompromising aesthetic results of compromised circumstances»,431 La regia, in altre parole, rafforza la ritualità impersonale di questa confessione, irrelata ai bisogni umani, o meglio terreni, di perdono e di giustizia. Il dir vero su di sé del protagonista è assimilabile a una pratica tanto codificata e teatrale da apparire sospetta agli occhi dello spettatore. Questa confessione, che ha come interlocutore esclusivo Dio, si riduce, come direbbe Foucault, «a una condizione indispensabile per l'assoggettamento a un rapporto di potere [...] sotto il segno dell'obbedienza e della mortificazione del sé».432 Il sicario si confessa di fronte alla macchina da presa non per cercare, più o meno egoisticamente un’assoluzione da parte dell’altro, ma per testimoniare pubblicamente la propria fede cieca nel Dio che l’ha salvato, strappandolo da morte certa.

Così come aveva messo in scena i propri crimini, nel finale di questo documentario, il protagonista mette in scena la propria conversione. L’incontro con Dio in una chiesa evangelica è narrato come un’esperienza corporea sconvolgente, vissuta e (ri)rappresentata con la stessa frenesia fisica delle torture e degli omicidi. In questo senso, l'ex sicario reitera l'idea di un io asservito, un tempo ai narcos e ora a Dio, indifferente a qualsiasi forma di introspezione e di empatia verso l’altro. In questo isolamento egotico del protagonista, sottolineato attraverso l’essenzialità estrema della regia, la crudeltà dei crimini compiuti emerge in tutto il suo orrore. L’assenza in tutto il film di figure umane, dei loro volti e dei loro sguardi, provoca uno spaesamento nello spettatore e fa sì che l’immagine sempre fuori campo della violenza saturi per intero la rappresentazione

El sicario, non mira ad articolare una riflessione etica e politica sulla realtà della criminalità organizzata e della corruzione in Messico, quanto a scioccare lo spettatore con una performance interamente basata sul potere del non-visibile, sulla suggestione delle parole e dei segni. Il documentario di Rosi è per molti versi anti-cinematografico poiché preclude alla macchina da

431 M. Goldberg, Direct Address. IFFR 2011: Gianfranco Rosi's El Sicario Room 164 and Ben Russell's Trypps #7 (Badlands), in “MUBI, Notebook Festival”, 21/02/2011. Articolo disponibile online all’indirizzo https://mubi.com/notebook/posts/direct-address-iffr-2011-gianfranco-rosis-el-sicario-room-164-and-ben-russells-trypps-7-badlands (consultato in data 2/09/2018).

presa la possibilità di cogliere la realtà di un volto (El Sicario) e di un luogo (Room 164). L’assenza in tutto il film di immagini relative alla realtà della criminalità messicana fa sì che le parole del protagonista, le sue rappresentazioni grafiche e attoriali, acquistino una capacità immaginifica totalizzante. Lo spettatore si trova così forzato a colmare il resoconto verbale, grafico e teatrale dei crimini commessi dall’uomo di Juàrez con immagini ricavate dal proprio immaginario a metà strada tra la cronaca del reale e la finzione. Perché il meccanismo di Rosi possa funzionare deve esistere ed essere effettivamente operativo il patto fiduciario che lega l’autore alla rappresentazione del reale e allo spettatore, secondo la prospettiva analitica proposta da Odin e Carroll. La performance documentaria di Rosi sfrutta una precondizione del genere documentario, ovvero, la fiducia nella sincerità del regista e dei protagonisti, per mettere in scena la pervasività della violenza, la sua forza pre-razionale e illogica. Le atrocità perpetrate dal sicario si trasformano in questo documentario in un flusso di parole e di segni, prima ancora che di immagini, che esasperano l’orrore proprio nella misura in cui lo sottraggono alla rappresentazione, negandoci l’immagine.