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Performance e colpa: il processo e il giudizio come atti discorsivi complessi

CAPITOLO I Performance e documentario

1.3 Performance e colpa: il processo e il giudizio come atti discorsivi complessi

Come ha evidenziato Giorgio Agamben, la questione della colpa definisce un concetto-soglia nevralgico per l’intera società occidentale.137 Per il filosofo italiano, l’idea di soggetto come agente volontario e responsabile, che determina l’esperienza etica nella cultura occidentale, si è costruita storicamente tramite l’elaborazione giuridica e religiosa dei concetti di causa e colpa — a cui si lega la nozione latina di crimen che coincide con «ciò che è in questione in un’accusa», ovvero con «l’azione in quanto è sanzionata».138 In particolare, la nozione di soggetto elaborata dalla filosofia e dal diritto medievale e moderno è debitrice del passaggio, operato dalla teologia cristiana, «dalla potenza alla volontà – o, piuttosto, il laborioso innesto del concetto di volontà su quello di potenza».139

Nel corso di sei secoli, da Agostino ad Anselmo, la teologia cristiana ha fatto della volontà il perno della concezione morale del soggetto libero; la volontà è la legge della coscienza che si determina «rispetto all’azione buona o a quella malvagia, al giusto o all’ingiusto»140 e che coincide, in sostanza, con il libero arbitrio, cioè con la facoltà dell’uomo di compiere il bene o di peccare. Il diritto e l’etica moderna interpretano questa volontà come fondamento dell’azione libera e responsabile, astraendola dalla sua funzione originaria di «dispositivo volto ad assicurare la responsabilità delle azioni umane»141 di fronte a Dio e alla giustizia terrena. Per Agamben, che in Karman si richiama in più occasioni all’opera di Kafka, nelle società occidentali moderne l’uomo non è colpevole in quanto libero, ma libero per poter essere colpevole e, dunque, sanzionabile da un potere organizzato in istituzioni statali.

Al di là del fascino e delle problematiche connesse all’approccio post-strutturalista di Agamben — ispirato, dichiaratamente, all’archeologia del potere di Foucault — al tema della giustizia,142 mi sembra utile, ai fini di questa ricerca, pensare alla colpa e al crimine proprio a partire dalla loro condizione liminare. Macchiarsi di una colpa contro qualcuno o commettere un crimine significa, in modi diversi ma affini, diventare giudicabili e punibili secondo l’ordine della responsabilità. Quest’ordine, come abbiamo visto analizzando la teoria austiniana degli

137 In Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, il filosofo italiano traccia la storia della morale e del diritto occidentale moderno a partire dalla genesi del significato di colpa e crimine nell’antichità. Come vedremo più avanti, per Agamben la colpa delimita «la soglia dell’edificio del diritto […], varcata la quale un certo comportamento diventa imputabile al soggetto, che si costituisce come “colpevole”». Cfr. G. Agamben Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 16.

138 Ivi, p. 45.

139 Ivi, p. 83.

140 Ibidem.

141 Ivi, p. 84.

142 Dopo una prima fase dedicata all’estetica, Agamben ha sviluppato la propria prospettiva biopolitica nei nove libri che compongono il progetto Homo sacer. G. Agamben, Homo sacer. Edizione integrale, Quodlibet, Macerata 2018.

atti performativi, si dà anche nell’uso del linguaggio ordinario; l’operatività degli atti linguistici, infatti, presuppone e determina per gli interlocutori precise responsabilità deontiche. La colpa penale processata nei tribunali porta in primo piano e amplifica in modo drammatico il tema della responsabilità che fa da sfondo al nostro agire linguistico e sociale.

Se per Agamben, «l’ingresso dell’uomo nell’edificio del diritto»143 attraverso la colpa criminale è l’evento che origina il concetto filosofico di responsabilità dell’azione, per Hannah Arendt, su cui tornerò più avanti, il diritto penale contemporaneo attesta l’idea politica di persona come soggetto capace di rispondere dei propri atti:

La semplice esistenza di procedimenti giuridici contro i criminali, così come la sequenza

accusa-difesa-sentenza che si ritrova in ogni sistema giuridico di cui si sia conservata

memoria, ebbene tutto questo sfida dubbi e scrupoli d’ogni sorta – non perché dia loro una risposta, ma perché l’istituzione giuridica si basa comunque sull’idea di responsabilità e di una colpa personale, nonché sull’idea abbinata alla prima di una coscienza che funziona a pieno regime. I problemi di carattere morale e giuridico non sono certo uguali, ma si basano entrambi sull’idea di persona, di persone che rispondono dei propri atti, e non su quella di sistemi o di organizzazioni. È questa l’innegabile grandezza del diritto: esso ci costringe tutti a focalizzare la nostra attenzione sull’individuo, sulla persona, anche nell’epoca della società di massa, un’epoca in cui tutti si considerano più o meno come ingranaggi di una grande macchina [...]. Lo scaricabarile delle responsabilità, uno scaricabarile pressoché automatico nelle società moderne, trova sempre un punto d’arresto sulla soglia del tribunale.144

Per molti versi, la figura dell’imputato nei documentari che esaminerò nel terzo e nel quarto capitolo oscilla tra queste due alternative filosofiche (Agamben/Arendt) apparentemente inconciliabili. Nella realtà dei sistemi giuridici contemporanei e nell’esperienza effettiva del soggetto ‘giudicato’, con cui molta nonfiction si confronta, l’imputato non è mai solo l’effetto di un sistema — come sembra suggerire la biopolitica agambiana — né è, però, descrivibile come un agente del tutto libero e capace di rispondere delle proprie azioni. L’imputato è o può essere entrambe le cose in misura proporzionale alla sua capacità di difesa all’interno del sistema. Ciò è evidente nei sistemi giuridici occidentali che si rifanno al common law anglo-americano. Mentre nel processo inquisitorio del civil law, caratteristico della tradizione giuridica continentale, il giudice svolge anche la funzione di accusatore/pubblico ministero, nel processo accusatorio il giudice è un terzo neutrale a cui spetta la funzione di arbitro della

143 Id., Karman, op. cit. p. 16.

144 Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, op. cit., pp. 47-48 (corsivo mio). È importante evidenziare che per Arendt l’istituzione giuridica agisce, sin dall’antichità, in base alla dialettica ‘accusa-difesa-sentenza’, mentre per Agamben la dinamica che guida il diritto moderno è basata sul nesso causale originario e biunivoco ‘accusa-colpa’. Il concetto processuale di difesa media l’accusa (che vorrebbe dire la colpa ed eseguire una condanna) in funzione di una sentenza motivata e fallibile come attesta la dottrina dei diversi gradi di giudizio.

procedura dibattimentale e di valutatore imparziale delle prove e delle argomentazioni presentate dall’accusa e dalla difesa.

Giovanni Accinni ha descritto il rapporto tra accusa e difesa nei processi accusatori come:

uno scontro tra diverse narrazioni attraverso la dialettica legale con cui ciascuna delle parti cerca di ottenere il risultato sperato mediante lo strumento retorico della persuasione, [...] da intendere in funzione della credibilità razionale.145

L’odierna istituzione del processo penale risponde, almeno nella sua idealità, al bisogno etico profondo della società di stabilire una ragionevole, e il più possibile risolutiva, approssimazione al vero. In questa prospettiva il processo non è riducibile a un meccanismo finalizzato alla sanzione, ma va pensato come una procedura condivisa dalle parti, che ha come obiettivo l’accertamento probatorio dei fatti e la cui efficacia dipende, nella maggior parte dei modelli giudiziari delle democrazie liberali, dalla «sussistenza di un dubbio in ordine alla credibilità razionale dell’ipotesi d’accusa».146 L’impugnabilità della sentenza, nei sistemi che lo prevedono, attesta la consapevolezza da parte del legislatore della fallibilità del giudizio, che non è, invece, contemplata nelle letture biopolitiche del potere proposte da Foucault e da Agamben. I giudizi di un tribunale, come gli enunciati affermativi, possono fallire.

Il motore del processo accusatorio sta, dunque, nella dialettica argomentativa tra le parti. Come ha evidenziata Francesca Piazza,147 la retorica argomentativa, nata in seno alla sofistica greca nel corso del V secolo a.C., è tornata nella seconda metà del Novecento,148 dopo secoli di sospetti filosofici e culturali, a svolgere un ruolo centrale nella società occidentale. Mentre la dimostrazione punta a produrre verità assolute (nella logica-matematica, ma anche nelle metafisiche di stampo razionalista, da Cartesio a Hegel) o oggettive (come nel metodo induttivo e nelle filosofie empiriste), la retorica della prova cerca una verità dialogica, sviluppandosi in

145 G.P. Accinni, Civiltà giuridica della comunicazione, Giuffrè Editore, Milano 2017, p. 54. Il testo di Accinni è un’appassionata riflessione sul significato e il valore sociale della verità giuridica nella civiltà contemporanea. Lo studio del giurista italiano ripercorre i processi di trasformazione del concetto di verità nell’ambito della filosofia della scienza (Popper e Kuhn) e della filosofia del linguaggio del Novecento. Dal confronto con i mutamenti di paradigma delle discipline scientifiche e filosofiche, Accinni ricava l’idea di verità giuridica come verosimiglianza argomentata, prodotto della dialettica tra narrazioni contrapposte nella pratica processuale.

146 Ivi, p. 54.

147 La filosofa del linguaggio Francesca Piazza si è occupata del tema della rinascita della retorica nel Novecento. In particolare, la studiosa ha collegato il rinnovato interesse per le strategie argomentative alla crisi novecentesca delle teorie metafisiche e alla perdita di fiducia nei confronti della neutralità del linguaggio (attraverso, soprattutto, l’ermeneutica e il post-strutturalismo). Per Piazza, l’argomentazione fondata sulla ragionevolezza (e quindi sulla ricerca di un’intesa tra gli interlocutori) rappresenta la migliore, e forse unica alternativa, allo scetticismo dilagante nella società di massa e alla ‘verità unica’ dei totalitarismi. F. Piazza,Linguaggio Persuasione e Verità. La retorica nel Novecento, Carocci, Roma 2004.

148 In particolare, per Piazza il rinnovato interesse novecentesco per la retorica argomentativa, intesa come strumento comunicativo per la risoluzione dei conflitti e il raggiungimento di un’intesa, si lega a, due opere fondamentali, pubblicate entrambe nel 1958, Perelman e Olbrechts-Tyteca, Traité de l'argumentation: La nouvelle rhétorique, Presses Universitaires de France, Paris 1958 e Stephen Toulmin, The Uses of Arguments, Cambridge University Press, Cambridge 1958.

funzione di un interlocutore. Lo scopo dell’argomentazione qui «non è quello di provare la verità della conclusione a partire dalle premesse, ma di trasferire sulle conclusioni l’adesione concordata alle premesse»149 dall’interlocutore o dall’uditorio. Nell’ambito del diritto la retorica — nel senso specificato da Piazza di ‘dialettica probatoria contrapposta’ — diventa un modello per la costruzione della verosimiglianza e per la ricerca della verità giuridica; le parti in causa fanno uso della retorica argomentativa per sostenere le proprie ragioni di fronte a un giudice che, in qualità di critico ragionevole e imparziale, decreta la migliore approssimazione al vero sulla base della rilevanza, coerenza e persuasività delle prove.150

Frans H. Van Eemeren e Rob Grootendorst hanno interpretato l’argomentazione come un macro-atto linguistico analizzabile attraverso il principio di comunicazione.151 Secondo l’approccio ‘pragma-dialettico’ dei due studiosi olandesi, il funzionamento effettivo dell’argomentazione va inquadrato in un modello ideale basato sulla ragionevolezza dei partecipanti all’interazione comunicativa e sulla loro disponibilità a dare e ricevere prove di quanto detto. L’intesa intersoggettiva è posta come finalità e principio ideale della pratica argomentativa. Nella prospettiva di Van Eemeren e Grootendorst, il ‘processo giusto’ rappresenta un modello di riferimento per lo studio di una «procedura corretta ed efficace per la risoluzione di problemi».152 In una prospettiva pragma-dialettica o della ‘retorica della prova’, possiamo dire che la giusta sentenza non dipende (o non dovrebbe dipendere), come vorrebbero Foucault e Agamben, dalla «costruzione discorsiva del soggetto»153 colpevole, ma dal raggiungimento di una verità dialogica, cioè motivata. Un punto di vista confermato dalle principali dottrine del diritto contemporanee, secondo le quali, come afferma Accinni:

Il sistema giuridico è il frutto della codificazione di un’operazione di mediazione culturale finalizzata a evitare il conflitto (ovvero a risolverlo) attraverso giudizi riconosciuti come

149 F. Piazza,Linguaggio Persuasione e Verità, op. cit., p. 59.

150 Nella maggioranza dei casi — con l’eccezione importante degli Stati Uniti, dove nel processo penale «non è previsto alcun obbligo di motivazione della decisione adottata dalla giuria» — il giudice non è solo chiamato a valutare le retoriche argomentative in campo, ma anche ad applicare questo modello discorsivo per motivare la sentenza. G.P. Accinni, Civiltà

giuridica della comunicazione, op. cit., p. 54.

151 La proposta è quella di estendere allo studio dell’argomentazione, da una parte, le teorie degli atti linguistici di Austin e Searle e, dall’altra, il principio di cooperazione individuato da Paul Grice nel saggio Logic and conversation. Van Eemeren e Grootendorst hanno così sviluppato un modello normativo, e non solo descrittivo, di analisi dell’argomentazione come macro-atto linguistico «mirante a provare o confutare una proposizione e ottenere che un critico ragionevole accetti la tesi in questione come risultato»; F.H. Van Eemeren e R. Grootendorst, A Systematic Theory of Argumentation. The Pragma-Dialectical

Approach, Cambridge University Press, Cambridge 2004, trad. it. di A. Gilardoni, G. Raniolo, Una teoria sistematica dell’argomentazione. L’approccio pragma-dialettico, Mimesis, Milano 2008, p. 20.

152 Ivi, p. 34.

153 M. Foucault, Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice. Cours de Louvain, 1987, Presses Universitaires de Louvain, Lovanio 2012; trad. it. di V. Zini, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio, 1981, Einaudi, Torino 2013, p. 86.

equi e, in quanto tali, vincolanti per tutti i membri della comunità di cui lo stesso sistema è espressione.154

Nella situazione dibattimentale i soggetti appaiono del tutto immersi nel campo «della parola performativa», poiché «la quasi totalità degli enunciati proferiti in questa sede serve a ‘fare cose’, a compiere atti regolati da norme e istituzioni»;155 dalla formula di apertura rituale

‘l’udienza è aperta’ alla lettura della sentenza da parte della corte. Anche i responsi dei periti e dei consulenti tecnici156 fanno parte della drammaturgia del

processo. La loro pretesa di verità, fondata su dati e prove scientifiche, è sottoposta a fallibilità157 e, soprattutto, è oggetto dell’attività di verifica da parte dei giudici che sono chiamati a valutare le consulenze tecniche non solo in base al loro contenuto scientifico, ma anche e soprattutto in relazione alla mossa argomentativa che esse svolgono nel contesto comunicativo generale. La performanza documentaria— nel senso duplice di procedura adeguata alla trasmissione di una conoscenza (Austin) e di azione politica e critica di sovversione delle verità prodotte dal potere (Butler) — trova nel processo un modello euristico per l’approssimazione alla verità e un terreno di confronto con la complessità del reale di grande interesse e fascino. Come ha affermato Errol Morris, regista del film pietra miliare del documentario true crime, The Thin Blue Line (1984), l’evento delittuoso al centro di un’indagine o di un processo coincide con:

the mystery of what really happened; the mystery of personality; of who people really are is powerfully represented when you have a crime standing in back of all of it. It’s a way of dramatizing really significant issues: how we know what we know? How have we come to the belief that we have? Is justice served by the various mechanisms in our society? Is the law just? And on and on and on.158

154 G.P. Accinni, Civiltà giuridica della comunicazione, op. cit., p. 53.

155 C. Bianchi, Pragmatica del linguaggio, Laterza, Bari 2004, p. 20.

156 Nel diritto processuale italiano il giudice nomina un perito indipendente chiamato a condurre l’indagine e a riferire i risultati, cioè a produrre la perizia. Il pubblico ministero e la difesa nominano, invece, i propri consulenti tecnici, Va specificato che il giudice non può preferire il parere tecnico del perito a quello dei consulenti in ragione della sua maggiore imparzialità. «La consulenza tecnica, per dottrina e giurisprudenza unanimi, è un mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito, il quale vi ricorre quando risulta necessario, per accertare i fatti del procedimento, l’impiego di conoscenze tecniche o scientifiche particolari che vanno al di là della cultura media, e delle quali egli non dispone. La c.t.u. [consulenza tecnica d’ufficio] è, dunque, uno strumento di valutazione, sotto il profilo tecnico-scientifico, di dati già acquisiti che non può essere utilizzato al fine di esonerare le parti dall’onus probandi gravante su di esse e può contenere elementi idonei a formare il convincimento del giudice. Tuttavia, nell’ammettere il mezzo stesso, il giudice deve attenersi al limite ad esso intrinseco consistente nella sua funzionalità alla risoluzione di questioni di fatto, presupponenti cognizioni di ordine tecnico e non giuridico». Redazione Altalex, ‘Della

consulenza tecnica d’ufficio’ in “Altalex”; http://www.altalex.com/documents/news/2007/08/22/della-consulenza-tecnica-d-ufficio (consultato in data 14/04/2018).

157 Salvo la matematica, le tautologie e poco altro, nulla, com’è noto, è ‘necessariamente vero’.

158 E. Morris e I. Butler, What Errol Morris Thinks of Making a Murderer, in “Slate”, 27/01/2016 http://www.slate.com/articles/arts/culturebox/2016/01/errol_morris_q_a_on_the_thin_blue_line_and_making_a_murderer.ht ml (consultato in data 8/04/2018).

I poli del delitto e della pena individuati da Cesare Beccaria, entro i quali si articola la maggior parte della riflessione giuridica, politica e filosofica sul crimine nella civiltà occidentale, segnano una trasformazione netta e drammatica della realtà sociale e dei soggetti ‘in causa’, ovvero della vittima, del colpevole e/o dell’accusato. Nel raccontare i fatti di cronaca nera e i meccanismi di funzionamento della giustizia, una parte del genere documentario ha sviluppato delle strategie retoriche (intese nel senso individuato da Piazza, cioè, come tecniche argomentative fondate sulle prove anziché sui tropi) che, come vedremo, sono finalizzate alla disseminazione del dubbio e all’esplorazione investigativa basata su prove del mondo reale.159

Molti dei film e delle serie nonfiction che analizzeremo si confrontano e rimodulano proprio quella dialettica argomentativa e probatoria che nei processi regola — o dovrebbe regolare — il percorso di approssimazione al vero.

La funzione riparatoria e sanzionatoria e la struttura altamente protocollare della giustizia penale determinano un frame160 ovviamente del tutto differente da quello che si crea tra il filmmaker e i soggetti coinvolti nella realizzazione di un documentario che affronta il tema del crimine raccontando l’indagine e il processo. D’altra parte, i protagonisti di questi film sono quasi sempre gli stessi coinvolti nel processo, in primis, l’imputato (sia colpevole sia non-colpevole) e i testimoni e, in secondo luogo, il prosecutor, gli avvocati della difesa, i periti e gli investigatori. È doveroso, quindi, tenere sempre a mente il frame giuridico e penale in cui le loro parole (o i loro silenzi) hanno agito in relazione alla colpa. Oltre a queste figure, i documentari integrano spesso nella loro narrazione anche i giornalisti e i reporter che hanno seguito il caso — e che prendono parte al circo mediatico radunato fuori dalle aule — e, soprattutto, le vittime.

Per Eyal Sivan, regista di Uno Specialista – Ritratto di un criminale moderno (Un spécialiste, portrait d'un criminel moderne, 1999):161 «stabilire delle responsabilità significa creare la possibilità stessa di una giustizia».162 Il cinema documentario può — e, per Sivan,

159 Va specificato che i documentari analizzati in questo studio sono esemplificativi di un cinema del reale dichiaratamente impegnato nel dibattito civile e politico contemporaneo. Si tratta, come vedremo, di una tendenza significativa – e prioritaria per gli obiettivi di questa ricerca –, ma pur sempre parallela allo sfruttamento commerciale del true crime che dilaga nei mass media. Nel quarto capitolo approfondirò la natura ambigua del genere true crime, illustrando la sua tensione costitutiva tra l’esibizione ‘spettacolarizzante’ della violenza e la ricerca del vero.

160 Il concetto di frame è centrale nella teoria microsociologica di Erving Goffman. Modulato da Goffman a partire dall’idea di ‘cornice psicologica’ di Gregory Bateson, il frame descrive il livello dell’interazione sociale, cioè la particolare situazione concordata, esperita e performata dai diversi attori sociali. Si veda, E. Goffman, Frame Analysis. An Essay on the Organization

of Experience, op. cit.

161 Il documentario di Sivan sul processo Eichmann usa le riprese d’archivio di Leo Hurwitz e si ispira dichiaratamente al reportage La banalità del male di Hannah Arendt. H. Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking

Press, New York 1963, trad. it. di P. Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2013. 162 L. Mosso e C. Piccino (a cura di), Eyal Sivan. Il cinema di un’altra Israele, Agenzia X, Milano 2007, p. 38.

deve — impegnarsi in questo compito etico. Certo, non spetta alla nonfiction, letteraria o cinematografica che sia, definire una verità probatoria in grado di stabilire le effettive responsabilità di un’azione criminale. Il documentario può, però, mostrarci gli attori sociali nella loro qualità di esseri morali e può intervenire, tramite la loro rappresentazione, sulle credenze dello spettatore agendo come «mezzo con cui disseminare il dubbio attaccando l’universo confortevole del non pensiero».163

I film e le docu-serie che ho scelto di analizzare in questa ricerca si fanno carico di un’istanza testimoniale. Derrida ha descritto la testimonianza in termini di performatività. Per il filosofo si tratta di:

un atto che implica una promessa o un giuramento performativo e che costituisce